Da reato a illecito civile: il giudice dell'impugnazione conserva il potere di delibare in ordine alle statuizioni civili?

Angelo Valerio Lanna
28 Novembre 2016

Vi è contrasto in giurisprudenza se il giudice dell'impugnazione, in presenza di condanna emanata in relazione ad un reato poi abrogato e trasformato in illecito civile e nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili, ovvero debba revocare le statuizioni civili.
1.

Vi è contrasto in giurisprudenza in ordine alla seguente questione di diritto: se il giudice dell'impugnazione – in presenza di condanna emanata in relazione ad un reato poi abrogato e trasformato in illecito civile ex art. 4 d.lgs. 7/2016 e nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato – possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili, ovvero debba revocare le statuizioni civili.

Il primo orientamento emerso, in ordine di tempo, ritiene che il giudice dell'impugnazione avverso una sentenza di condanna, inerente ad una delle fattispecie criminose abrogate dal d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 – laddove verifichi la abolitio criminis e dunque dichiari che il fatto non è più previsto dalla legge come reato – debba anche pronunciarsi in ordine alle relative questioni civili. Che debba quindi decidere comunque sull'impugnazione, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Questo almeno nel caso in cui la sentenza impugnata sia intervenuta in epoca anteriore, rispetto all'entrata in vigore del suddetto decreto. Il principio di diritto si trova enunciato per la prima volta in Cass. pen., Sez. V, n. 14041/2016 ed è poi ripreso da Cass. pen., Sez. II, n. 14529/2016. Sulla medesima direttrice interpretativa si situa l'orientamento che reputa ammissibile il ricorso per cassazione ad opera della parte civile, nei confronti di una sentenza assolutoria emanata con riferimento ad una fattispecie di reato successivamente trasformata in illecito civile ex d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7. Ciò sul presupposto che, se tale ricorso fosse colpito da declaratoria di inammissibilità, alla parte civile finirebbe per esser negato il diritto di impugnare una sentenza produttiva di effetti sfavorevoli. Una sentenza che infatti – almeno nei casi indicati dall'art. 652 c.p.p. – potrebbe inibire il successivo esperimento dell'azione civile (Cass. pen., Sez V, n. 16131/2016).

A tale orientamento si oppone un diverso filone giurisprudenziale. Quest'ultimo ritiene dunque che l'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna, con riferimento ad un reato abrogato dal d.lgs. 15 gennaio 2016 n.7, precluda la possibilità di delibare in ordine ai relativi effetti civili. Il principio di diritto si trova cristallizzato anzitutto in Cass. pen., Sez. V, n. 15634/2016. Qui è spiegato come tale sbarramento – rappresentato appunto dall'intervento di una legge abrogatrice, in epoca successiva alla condanna – si fondi su una disciplina di ordine generale. Su un principio di diritto che è sempre immanente al processo penale e che postula la sussistenza di un nesso inscindibile, fra la condanna e le statuizioni civili assunte dal giudice penale. La Corte ha qui pertanto ritenuto, in primo luogo, tassativa e non suscettibile di applicazione estensiva la norma derogatrice ex art. 578 c.p.p. Ha poi sottolineato l'esistenza di una previsione legislativa profondamente differente, in relazione agli illeciti oggetto di depenalizzazione ex art. 9 d.lgs. 8/2016; una disciplina che non è ovviamente applicabile per analogia, alle ipotesi ora in esame di abolitio criminis contenute nel d.lgs. 7/2016. Su una identica posizione concettuale si situa Cass. pen.,Sez. V, n. 14044/2016. A mente di tale pronuncia, l'effetto immediato dell'annullamento senza rinvio della sentenza di condanna – che sia stata pronunciata in ordine ad una delle fattispecie abrogate ai sensi del d.lgs. 7/2016 – è rappresentato dalla revoca delle collegate statuizioni civili. Nuovamente conforme - nel ribadire il suddetto effetto preclusivo, in relazione alla decidibilità delle questioni civili - è da ultimo Cass. pen., Sez. V, n. 32198/2016.

Non è forse superfluo precisare come la problematica sopra analizzata attenga solo al caso di pronuncia che non sia ancora passata in cosa giudicata. Non vi sono infatti dubbi, circa il fatto che una eventuale revoca - a norma dell'art. 673 c.p.p. - di condanna già divenuta esecutiva, non incida sulle parti della sentenza stessa che regolamentino gli interessi civili. Ciò in quanto il venir meno del connotato di illiceità penale di un dato fatto (con conseguente revoca della condanna emessa in relazione allo stesso) lascia intonsa la eventuale natura di illecito civile del fatto medesimo. I capi della sentenza revocata - che abbiano statuito in ordine a interessi civili - continueranno pertanto a rappresentare l'origine di obbligazioni in favore del danneggiato. Trattasi in realtà di principio risalente e del tutto consolidato, nella giurisprudenza di legittimità (fra le tante pronunce sul tema, si potrà leggere Cass. pen., Sez. V, n. 4266/2005).

Per inquadrare al meglio i passaggi controversi sin qui sviscerati, è infine opportuno sottolineare come – nella prassi applicativa – la questione sia effettivamente destinata a porsi con una certa frequenza. Si pensi ad esempio alle condotte prima integranti i reati di ingiuria o di sottrazione di cose comuni, che risultano ora trasformate in illeciti civili. Che dunque – lungi dall'esser state meramente espulse dall'area del penalisticamente rilevante – sono ora assoggettate ad una previsione che, comunque, conserva un connotato di marcata impronta sanzionatoria.

2.

La II Sezione penale ha rimesso al primo Presidente della Corte suprema di cassazione un ricorso avente ad oggetto la seguente questione di diritto, ritenuta oggetto di contrasto giurisprudenziale: Se, in caso di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato (ord. 26092/2016).

3.

Il primo Presidente della Corte suprema di cassazione ha assegnato alle Sezioni unite, fissando per la trattazione l'udienza del 29 settembre 2016, un ricorso avente ad oggetto la seguente questione, ritenuta dalla II Sezione penale oggetto di contrasto giurisprudenziale: Se, in caso di condanna pronunciata per un reato successivamente abrogato e configurato quale illecito civile ai sensi dell'art. 4, d.lgs. 7 del 2016, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, possa decidere sull'impugnazione ai soli effetti civili, ovvero debba revocare le statuizioni civili.

4.

All'udienza 29 settembre 2016, le Sezioni unite penali della Corte di cassazione hanno preso la seguente decisione: In caso di sentenza di condanna relativa ad un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs.7 del 2016, il giudice dell'impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili; al contrario, la revoca della sentenza di condanna passata in giudicato per i fatti suindicati, disposta dal giudice dell'esecuzione, non si estende ai capi che concernono gli interessi civili.

5.

Con sentenza n. 46688/2016, emessa in data 29 settembre 2016 e le cui motivazioni sono state depositate il successivo giorno 7 novembre, le Sezioni unite della Cassazione – dirimendo il contrasto giurisprudenziale sopra sviscerato – hanno dunque stabilito il principio di diritto secondo il quale: In caso di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili.

Il complesso percorso motivazionale seguito dalle Sezioni unite si è snodato secondo i seguenti passaggi argomentativi:

- natura prioritaria dell'interpretazione letterale della legge, dunque prevalenza di tale criterio ermeneutico su quello logico e su quello sistematico (ai quali deve invece essere attribuita una funzione integratrice e sussidiaria, rispetto alla valenza significativa immediatamente ricavabile dal testo della norma). E il dato letterale mostra anzitutto la sussistenza – nel d.lgs. 7/2016 – di una disciplina transitoria, che è dettata dall'art. 12; qui non esiste però alcun richiamo ad una eventuale possibilità, per il giudice dell'impugnazione, di decidere appello o ricorso delibando anche circa le relative statuizioni civili. A ciò si aggiunga l'introduzione di nuove sanzioni pecuniarie civili, alle quali è stata attribuita efficacia retroattiva, potendosi esse applicare ai fatti che – in precedenza previsti come reati – risultino ora degradati ad illecito civile. L'applicazione di tali sanzioni civili è funzionalmente riservata al giudice che è competente a decidere in ordine all'azione risarcitoria; e questo è sicuramente il giudice civile. Riconoscere al giudice dell'impugnazione penale il potere di decidere in relazione agli interessi civili significherebbe, allora, attribuirgli implicitamente il potere di irrogare le sanzioni pecuniarie civili (cosa che le Sezioni unite sottolineano porsi in contrasto con il fondamentale brocardo interpretativo, secondo il quale la legge ubi noluit non dixit).

- Differenze sostanziali riscontrabili fra il d.lgs 7/2016 ed il coevo d.lgs 8/2016. Quest'ultima disposizione normativa viene definita in sentenza come il “gemello diverso” di quella ora in esame; e con questa condivide, in effetti, la finalità deflattiva del sistema penale. Essa contiene, all'art. 9 comma 3, d.lgs. 8/2016 la previsione della permanenza – in capo al giudice che proceda alla declaratoria di depenalizzazione – del potere di decidere in sede di impugnazione penale ai soli effetti civili. Ma tale differenza previsionale si fonda proprio sulla distanza ontologica che separa le due norme. L'una nasce infatti per abrogare reati introducendo sanzioni civili (così espellendo dall'area del penalisticamente rilevante fattispecie di reato connotate dalla peculiarità di incidere esclusivamente su interessi di natura privatistica, oltre che di essere procedibili solo a querela di parte); l'altra svolge invece la funzione di degradare una serie di reati in illeciti di carattere amministrativo (la materia sulla quale incide l'intervento legislativo, quindi, è qui costituita da reati prima assoggettati a procedibilità d'ufficio, posti a tutela di interessi di natura pubblica ed in ordine ai quali residua comunque un interesse statale all'irrogazione di sanzioni amministrative, indipendentemente dall'impulso di parte). L'applicazione del d.lgs. 8/2016 comporta poi la prosecuzione d'ufficio del giudizio, dinanzi all'autorità amministrativa competente, con valenza retroattiva delle sanzioni previste. Tale iter concettuale, ispirato all'esigenza di continuità normativa, resta invece avulso dal sistema plasmato grazie al d.lgs. 7/2016. Ai sensi di tale ultima norma infatti – pur verificandosi la successione di una sanzione civile a quella penale, in relazione sostanzialmente al medesimo fatto storico – opera pur sempre il principio della iniziativa privata; la quale iniziativa è necessariamente ispirata a canoni anche di tipo compensativo e, quindi, esterni all'alveo dell'accusa in materia penale. Tali differenze logiche, sistematiche e giuridiche esistenti fra i due istituti riempiono di contenuti il divieto di applicazione analogica posto dalle preleggi.

- Necessaria correlazione fra la condanna dell'imputato e la statuizione circa gli interessi civili, per effetto congiunto degli artt.74,538, comma2, c.p.p. e art.185 c.p. Trattasi dell'insieme di disposizioni codicistiche che – coordinandosi tra loro – subordinano all'esistenza di una pronuncia di condanna, il potere del giudice penale di assumere decisioni in ordine alle correlate questioni risarcitorie e restitutorie. La domanda proposta dalla parte civile all'interno del processo penale, infatti, trova scaturigine e legittimazione con riferimento alle pretese di restituzione e risarcimento di danni derivanti da un fatto in grado di integrare una fattispecie penale; occorre pertanto che la statuizione del giudice penale si ancori ad una pronuncia di condanna. Opinando in maniera difforme, si giungerebbe a saldare la pronuncia restitutoria o risarcitoria alla previsione di cui all'art. 2043 c.c., in relazione alla quale è però carente la competenza del giudice penale. Ovviamente, non si verificherà un vuoto di tutela in danno della parte civile: questa sarà infatti pur sempre legittimata ad adire il giudice civile, in caso di pronuncia assolutoria con formula di rito perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; sarà inoltre tutelata – in caso di instaurazione del contenzioso direttamente nella sede civilistica – dalla inefficacia in tal sede del giudicato assolutorio, assunto in sede penale nei confronti del convenuto.

- Validità del suddetto principio anche nel giudizio d'impugnazione, stante l'operatività della clausola estensiva sancita dall'art. 598 c.p.p. Secondo tale norma, infatti, vigono per il grado d'appello le disposizioni poste per il giudizio di primo grado, in quanto applicabili. Le deroghe rispetto a tale sistema hanno carattere meramente eccezionale (qui è richiamata Corte cost., 12/2016), come tale non suscettibile di estensione analogica [il riferimento operato dalla Corte è, sul punto specifico, anzitutto al potere stabilito dall'art. 578 c.p.p. – in capo al giudice d'appello o di cassazione – di decidere sulle impugnazioni in relazione ai soli capi di sentenza concernenti effetti civilistici, laddove si proceda alla declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione; altra norma di carattere eccezionale è poi quella contenuta nell'art. 448, comma3, c.p.p., a mente della quale il giudice dell'impugnazione sulla sentenza di condanna decide anche sull'azione civile, allorquando ritenga ingiustificato il dissenso del p.m. o il rigetto della richiesta di applicazione pena.

- Conformità al sistema costituzionale dell'interpretazione ora adottata, sebbene essa comporti la necessità – per la parte civile – di riproporre dinanzi al giudice civile questioni già decise in sede penale, con accertamento poi superato dalla abrogazione delle fattispecie. Si sospettava qui l'esistenza di profili di diseconomia processuale, con correlata possibilità di contrasto di giudicati, oltre che di incompatibilità con il principio costituzionale di uguaglianza (sarebbe a dire, veniva paventata la possibilità che si concretizzasse una ingiustificata disparità fra le seguenti differenti posizioni:
a) del danneggiato costituito parte civile, nell'ambito di un processo poi terminato con pronuncia assolutoria determinata da abrogazione;
b) del danneggiato costituito parte civile, in un processo concluso con assoluzione per depenalizzazione;
c) del danneggiato costituito parte civile, in un processo poi sfociato in una pronuncia di condanna).

Qui il supremo Collegio ha fatto riferimento ai principi enunciati dalla Consulta nella sopra richiamata sentenza n. 12/2016. Secondo il giudice delle leggi, dunque, esiste una netta linea di demarcazione, fra il giudizio penale e quello civile; tanto ciò vero, che l'azionamento della pretesa civilistica all'interno del processo penale genera una situazione che non è sovrapponibile, rispetto a quella derivante dall'esperimento della domanda risarcitoria o restitutoria nella sede propria. La natura marginale, aggiuntiva, opzionale dell'azione civile azionata in sede penale comporta infatti che tale azione sia destinata a subire – sebbene di riflesso – tutte le vicende del processo penale. E quindi, anche a sopportare le conseguenze derivanti dalle modifiche e dagli aggiustamenti connaturati alla specifica funzione ed all'intima natura di quest'ultimo, che è deputato alla tutela di interessi di tipo pubblico ed è finalizzato all'accertamento di reati, oltre che alla veloce definizione delle questioni. Principi questi in più occasioni recepiti anche dalle stesse S.U. (in motivazione sono infatti richiamate Cass. pen., Sez. unite, n. 40109/2013 e Cass. pen., Sez. unite, n. 33864/2015). Del resto, non è irragionevole il fatto che il danneggiato il quale – all'esito di una valutazione comparativa dei pro e contro intrinsecamente connessi alle due diverse opzioni – abbia liberamente scelto di legare la pretesa civilistica al processo penale, debba poi anche subire gli eventuali effetti che da tale opzione possano derivare (in motivazione è anche richiamato l'assunto di Corte cost. n. 94/1996).

- Inesistenza di contrasto fra l'orientamento ora preferito e le direttive dell'U.E. in materia di protezione delle vittime del reato. Qui la Corte, ancora facendo riferimento a Corte cost. 16/2016, ha precisato come la Direttiva Ue 2012/29 del 25 ottobre 2012 effettivamente imponga agli Stati membri di assicurare alla vittima di fatti lesivi – entro un lasso ragionevole di tempo – la tutela, proprio nell'ambito del processo penale, degli interessi lesi dal reato; sempre però che tale tutela non venga dallo Stato garantita all'interno di un diverso sistema (art. 16 par. 1 della suddetta DirettivaUe 2012/29 del 25 ottobre 2016). E questo è proprio ciò che accade nel nostro ordinamento.

- Assenza di contrasto con il disposto dell'art. 117 Cost., quale parametro interposto, in relazione alla giurisprudenza della Corte Edu. La violazione del diritto di ottenere la tutela degli interessi lesi da fatti costituenti reato, infatti, viene individuata dalla Corte Edu solo allorquando non esista un parallelo diritto – riconosciuto in capo alla vittima del reato – di far valere le sue pretese in sedi alternative rispetto al processo penale. Ed il vigente ordinamento italiano assicura comunque l'accesso alla causa civile.

Tutto ciò premesso, le Sezioni unite hanno anche precisato come lo sforzo dimostrativo gravante sul danneggiato costituito parte civile, all'indomani della revoca dei capi di sentenza inerenti agli interessi civili, non possa che reputarsi fortemente attenuato. Tale sforzo risulta infatti facilitato dall'obbligo – gravante sul giudice civile adito in seconda battuta – di prendere comunque in considerazione l'attività istruttoria espletata in sede penale; obbligo operante nonostante la conclusione assolutoria derivante da abrogazione del fatto-reato. Necessario corollario di tale impostazione è la possibilità, per il danneggiato costituito parte civile – di esigere la liquidazione delle spese legali sostenute, all'interno del processo vittorioso tenutosi dinanzi al giudice penale.

Incidenter tantum, la Corte ha peraltro evidenziato come l'obbligo di revoca delle statuizioni civili non consegua invece alla revoca – ai sensi dell'art. 673 c.p.p., ossia per abolitio criminis – della condanna ormai passata in giudicato. In questo caso, infatti, l'accertamento della lesione di tipo civilistico è avvenuta – ed ha assunto il connotato della definitività - con riferimento ad un fatto umano al tempo costituente reato. Le vicende successive di tale fattispecie, determinate dall'espulsione dall'area del penalisticamente rilevante della condotta che aveva costituito la fonte dell'obbligazione risarcitoria, non influiscono dunque sulla ormai verificatasi cristallizzazione della statuizione attinente agli interessi civili.

È stata infine affrontata – anche in tal caso a margine del tema principale – la quaestio iuris attinente al destino del ricorso che venga proposto dalla parte civile, a tutela dei soli interessi di tipo restitutorio e risarcitorio, contro sentenza assolutoria che sia stata pronunciata in relazione ad un reato colpito da abrogazione nelle more del giudizio di impugnazione. In questo caso le Sezioni unite – richiamato preliminarmente il principio di carattere generale sancito dal dettato dell'art. 652 c.p.p.– hanno ritenuto inammissibile l'impugnazione, per difetto di interesse (essenzialmente, sul presupposto della proponibilità ex novo della domanda nella naturale sede civilistica).

Il primo spunto di riflessione che si impone, dopo l'analisi delle motivazioni della sentenza in commento, concerne il forte richiamo operato dalle Sezioni unite all'importanza dell'interpretazione letterale delle norme. L'analisi testuale della legge, dunque, intesa quale momento prioritario e fondamentale, nel procedimento logico e deduttivo che conduce all'applicazione della norma stessa, ossia all'incasellamento degli accadimenti concreti in modelli legali tipizzati. Un metodo esegetico che ovviamente rende vicario ed eventuale ogni ulteriore approccio alla comprensione del testo; che sostanzialmente vale, inoltre, ad elidere le incertezze interpretative e ad oggettivizzare – rendendola prevedibile e comunemente accettata - la lettura ordinaria del dettato normativo.

Il secondo monito lanciato dalle Sezioni unite è all'esigenza di operare un potente restringimento del ricorso ad ogni forma di analogia surrettizia delle norme penali, spesso mascherata quale interpretazione meramente estensiva. Qui non ci si può però esimere dal rimarcare un dato importante. A volte l'interpretazione giurisprudenziale potrà anche apparire debordante, ma solo all'esito di una analisi superficiale; il fenomeno della normazione giurisprudenziale è infatti spesso il precipitato logico di vuoti di tutela lasciati dalle norme, oltre che di una legislazione che spesso si sussegue convulsa (se non fumosa e scarsamente intelligibile). Anche da ciò, la tendenza necessitata ad ampliare l'ambito operativo di norme esistenti. Ad ogni modo, rimane valido l'invito a distinguere nettamente fra due piani fra loro ben separati: quello dell'interpretazione e quello dell'analogia.

L'ultimo punto che merita davvero una riflessione è quello inerente alla conformità – sottolineata con forza dalle S.U. – del sistema così delineatosi, rispetto alle norme di carattere sovranazionale. E in effetti, anche tale dato è ricavabile dalla mera analisi letterale della sopra richiamata Direttiva Ue 2012/29, il cui art. 16 – significativamente rubricato Diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale - così testualmente recita: Gli Stati membri garantiscono alla vittima il diritto di ottenere una decisione in merito al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale entro un ragionevole lasso di tempo, tranne qualora il diritto nazionale preveda che tale decisione sia adottata nell'ambito di un altro procedimento giudiziario. 2. Gli Stati membri promuovono misure per incoraggiare l'autore del reato a prestare adeguato risarcimento alla vittima.