Coltivazione di stupefacenti: l'offensività in concreto al vaglio delle Sezioni Unite

27 Settembre 2019

Se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l'attività sia...
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A distanza di poco più di un decennio dalle sentenze Di Salvia e Valletta dell'aprile 2008, le Sezioni Unite della Suprema Corte torneranno a pronunciarsi sul tema della coltivazione di piante dalle quali sono ricavabili sostanze stupefacenti, per definire il corretto ambito di operatività del principio di offensività.

Secondo il tenore letterale del Testo Unico, è illecita e penalmente rilevante ogni condotta di coltivazione di stupefacenti, indipendentemente dalla sua estensione (il reato è dunque configurabile non solo in presenza di estese piantagioni, ma anche ove una singola pianta sia fatta crescere in vaso) e dallo scopo avuto di mira dall'agente (la coltivazione non rientra, infatti, tra le cinque condotte descritte dall'art. 75 del Testo Unico - importazione, esportazione, acquisto, ricezione, detenzione - in relazione alle quali l'accertata destinazione dello stupefacente al consumo personale impone l'applicazione di semplici sanzioni amministrative): si è dunque al cospetto di un reato di pericolo presunto, nel quale la soglia di rilevanza penale è stata anticipata dal legislatore in vista della ritenuta maggiore idoneità lesiva della condotta, che - a differenza della semplice detenzione, ed al pari della produzione e della fabbricazione - immette nel mercato nuovi ed ulteriori quantitativi di sostanza stupefacente, incrementando il pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale, e, correlativamente, il rischio per la pubblica salute, tradizionalmente individuata quale bene giuridico protetto, unitamente alla sicurezza pubblica ed all'ordine pubblico.

L'impianto normativo ha resistito alle censure di costituzionalità sollevate nel 1995 e nel 2016: con la sentenza n. 360 del 24 luglio 1995 la Consulta ha ritenuto non irragionevole la scelta di sanzionare penalmente anche la coltivazione c.d. domestica, poiché, diversamente dalla detenzione, la coltivazione non ha un nesso di immediatezza con l'uso personale (“il che giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”), non consente di esprimersi con certezza circa la destinazione del prodotto (“nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente .. la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece nel caso della coltivazione non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa”), ed incrementa il grado di offesa ai beni giuridici protetti (“l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili”). Ad analoghe conclusioni è più di recente giunta la sentenza n. 109 del 20 maggio 2016, nelle cui motivazioni la Consulta ha ribadito che “la strategia d'intervento volta a riservare [...] un trattamento meno rigoroso al consumatore dello stupefacente – lasciando, peraltro, ferma la qualificazione delle sue scelte in termini di illiceità – non esclude che il legislatore, nell'ottica di prevenire i deleteri effetti connessi alla diffusione dell'abitudine al consumo delle droghe, resti libero di non agevolare (e, amplius, di contrastare) i comportamenti propedeutici all'approvvigionamento dello stupefacente per uso personale. Allo stesso modo in cui detta strategia non rende illegittima la sottoposizione a pena del cedente al minuto che fornisce la sostanza al tossicofilo, malgrado ciò si risolva in un evidente ostacolo all'approvvigionamento [...], essa non impedisce neppure al legislatore di considerare penalmente rilevante, ex se, l'attività intesa a produrre nuova droga”.

In termini le due citate pronunce del 24 aprile 2008 del massimo consesso nomofilattico: ribadito che l'ipotesi criminosa è espressione di una notevole anticipazione della tutela penale, e che la natura di reato di pericolo astratto risponde alle “esigenze di tutela della salute collettiva”, bene giuridico primario che legittima il legislatore ad anticiparne la protezione “ad uno stadio precedente il pericolo concreto”, le Sezioni Unite hanno evidenziato che l'impossibilità di determinare ex ante la potenzialità drogante ricavabile dalla coltivazione e l'assenza di un nesso di immediatezza tra coltivazione e consumo rendono del tutto ipotetiche e comunque non affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all'uso personale piuttosto che alla cessione. Peraltro, poiché come si è detto la coltivazione non rientra tra le condotte in relazione alle quali è ammessa la prova della destinazione della droga all'uso personale, e dunque non è sanzionabile in via amministrativa ai sensi dell'art. 75 del Testo Unico, ove la coltivazione “domestica” fosse ritenuta penalmente irrilevante, essa non sarebbe sanzionabile neppure in via amministrativa: il che sarebbe illogico e paradossale. Dunque, «costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale».

La giurisprudenza di legittimità dell'ultimo decennio – nel dare continuità ai principi espressi da Corte costituzionale e Sezioni unite – ha riconosciuto rilevanza penale ad ogni condotta, anche se “domestica”, di coltivazione, ma ha al tempo stesso delimitato l'area dell'incriminazione alla luce del principio di necessaria offensività della condotta, in forza del quale non è concepibile un reato senza lesione o messa in pericolo di un bene giuridicamente protetto: il principio, come statuito dalle stesse Sezioni unite del 2008, non opera solo sul piano della previsione normativa, quale precetto rivolto al legislatore affinché preveda fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto della tutela penale (c.d. offensività in astratto), ma si riverbera sulla quotidiana applicazione giurisprudenziale delle norme, quale criterio interpretativo del quale il giudice deve servirsi per verificare che il reato contestato all'imputato abbia effettivamente cagionato o rischiato di cagionare una lesione al bene o interesse tutelato (c.d. offensività in concreto); dunque, secondo le ancora attualissime motivazioni della sentenza Di Salvia, «in ossequio [...] al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva. La condotta è inoffensiva soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell'offesa)».

Si è pertanto ritenuto che non è in grado di ledere il bene giuridico protetto la coltivazione che avvenga con tecniche o in ambienti tali da precludere lo sviluppo e la maturazione delle piante: vengono in rilievo la mancata corrispondenza della pianta al tipo botanico, ovvero il positivo accertamento di inidonee modalità di coltivazione o di sfavorevoli condizioni ambientali, che comportano la radicale inettitudine della coltivazione .., anche per le modalità seguite, a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente” (cfr. Cass., sez. VI, 16 luglio 2014, n. 36419); non essendovi le condizioni perché la pianta germogli, fiorisca e produca il principio attivo, una condotta di tal genere è evidentemente inoffensiva.

Più controverse appaiono le implicazioni del principio di offensività nei casi in cui formino oggetto di contestazione coltivazioni scoperte, e dunque definitivamente neutralizzate, in epoca anteriore rispetto a quella nella quale le piante sarebbero giunte a maturazione: poiché la condotta di coltivazione - come testualmente affermato dalle Sezioni unite - è punibile fin dal momento della messa a dimora dei semi, si è tradizionalmente ritenuto che la mancata maturazione della pianta non possa essere invocata per affermare l'inoffensività della condotta; in tal caso, peraltro, l'irrilevanza penale rifluirebbe da circostanze non solo del tutto estranee rispetto alla condotta dell'imputato, ma anche oggettivamente arbitrarie e casuali: di fatto, l'epoca dell'intervento repressivo della polizia giudiziaria diventerebbe decisivo ai fini dell'incriminazione, determinando, se eccessivamente anticipato, l'assoluzione dell'imputato.

Dunque, secondo il consolidato orientamento di legittimità, l'offensività della condotta di coltivazione sussiste ogni volta che si accerti la semplice idoneità della pianta a produrre principio attivo, poiché ciò che rileva è la conformità della pianta al tipo botanico, la sua concreta idoneità a giungere a maturazione producendo la sostanza stupefacente, la quantità di principio attivo potenzialmente ricavabile, indipendentemente da quella materialmente ricavata: come – tra le tante – statuito da Cass. pen., Sez. IV, 2 luglio 2014, n. 43465, «la giurisprudenza di questa Corte ravvisa il reato di coltivazione vietata di piante stupefacenti già quando il seme sia stato collocato nel terreno e sia germogliato, senza che rilevi la circostanza che la pianta raggiunga o abbia raggiunto (o meno) la maturità e prodotto il suo frutto […] l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il coltivare è attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico» .

Negli ultimi anni ha tuttavia trovato sempre più spazio, nella giurisprudenza della Suprema Corte, l'orientamento che fa discendere dalla attuale assenza di principio attivo – da qualunque fattore essa dipenda - la radicale inidoneità della condotta a ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Al centro dell'indagine, ha ammonito la Corte nella pronuncia che ha con le più persuasive argomentazioni alimentato il contrasto giurisprudenziale (Cass. pen., Sez. V, 21 ottobre 2015, n. 2618; in termini, più di recente, Cass. pen., Sez. III, 22 febbraio 2017, n. 36037; Cass. pen., Sez. III, 29 febbraio 2019, n. 23787), devono esservi i generali principi in tema di offensività della condotta, trascurando i quali si correrebbe il rischio di una «applicazione eccessivamente anticipata della tutela penale”, tale da ricomprendere nel fuoco dell'incriminazione condotte prive della capacità di ledere effettivamente i beni giuridici oggetto di tutela: in ossequio a quei principi non può riconoscersi alcuna attitudine concretamente offensiva ad una condotta che abbia ad oggetto una sostanza priva di principio attivo, né vi è motivo – alla luce di una indagine condotta dall'angolo visuale del bene giuridico protetto – di riconoscere rilevanza penale a condotte che quella attitudine offensiva avrebbero potuto averla ma non hanno in concreto avuto, essendo impraticabile un accertamento “a futura memoria”, che si concentri su ciò che sarebbe stato trascurando ciò che è realmente stato».

Ne consegue che la verifica dell'offensività non può essere proiettata al momento in cui le piante avrebbero completato il ciclo di maturazione: ove – come nel caso della pronuncia da ultimo citata – venga contestato all'imputato di aver coltivato piante neppure germogliate (il caso di specie era relativo a “piantine minuscole contenute in bicchierini da caffè non giunte a maturazione”, che “non avevano nessun effetto drogante, come è stato accertato dalla relazione del RIS”), non può essere dato spazio ad un accertamento “ipotetico”, che ometta la necessaria “valutazione in concreto sulla offensività della condotta”, così giungendo ad affermare la rilevanza penale di una condotta “di cui non risulta dimostrata la capacità di mettere in pericolo il bene tutelato”.

Il punto di equilibrio tra l'anticipazione della soglia di punibilità, che il legislatore ha legittimamente previsto per le più marcate esigenze di tutela dei beni giuridici protetti, e il rispetto del principio di offensività, che rappresenta un limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore nel perseguire penalmente condotte contraddistinte da un giudizio di disvalore, va dunque individuato nel considerare offensiva solo la condotta che sia in concreto ed attualmente idonea ad attentare al bene della salute dei singoli: ciò comporta che l'imprescindibile accertamento della efficacia drogante della sostanza ricavata dalla pianta coltivata deve fare esclusivo “riferimento all'attualità”, senza cioè occuparsi della “futura ed eventuale capacità” della pianta di produrre principio attivo.

Deve pertanto “escludersi che per la punibilità di tale condotta sia sufficiente la verifica che sia stata coltivata una pianta conforme al tipo botanico, in quanto va comunque accertata la sussistenza della offensività in concreto, nel senso che anche in presenza del perfezionamento dell'azione tipica, il giudice deve escludere la punibilità se la condotta è in concreto inoffensiva”.

2.

La Terza Sezione della Suprema Corte, con ordinanza n. 35436 dell'11 giugno 2019, depositata lo scorso 2 agosto, ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione controversa:

se, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, è sufficiente che la pianta sia idonea, per grado di maturazione, a produrre sostanza per il consumo, non rilevando la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ovvero se è necessario verificare anche che l'attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato.

Nel caso di specie veniva contestato all'imputato di avere illecitamente coltivato “due piante di marijuana” in “avanzata fase di crescita”, “l'una alta un metro e con diciotto rami, l'altra, alta 1,15 mt., con venti rami”: i giudici di merito avevano ritenuto la condotta tipica ed in concreto offensiva, dando continuità al più rigoroso orientamento in base al quale “l'offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti”.

Nell'esaminare il ricorso per cassazione dell'imputato, ed in particolare il motivo relativo alla omessa valutazione in termini di concreta inoffensività della condotta che avrebbe dovuto conseguire alla constatazione della mancata maturazione delle piante, i giudici di legittimità illustrano i due orientamenti dei quali si è detto: quello maggioritario, secondo il quale “ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell'obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente (Cass. pen., Sez. VI, n. 35654/2017, Nerini, Rv. 270544; Cass. pen., Sez. VI, n. 53337/2016, Trabanelli, Rv. 268695; Cass. pen., Sez. VI n. 52547/2016, Losi, Rv. 268938; Cass. pen., Sez. VI n. 25057/2016, Iaffaldano, Rv. 266974; Cass. pen., Sez. III, n. 23881/2016, Damioli, Rv. 267382)»; e quello affermatosi più di recente, secondo il quale «ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato (Cass. pen., Sez. III, n. 36037/2017, Compagnini, Rv. 271805; Cass. pen., Sez. VI n. 8058/2016, Pasta, Rv. 266168; Cass. pen., Sez. VI n. 5254/2015, Pezzato, Rv. 265641; Cass. pen., Sez. VI n. 33835/2014, Piredda, Rv. 260170».

La Corte evidenzia che i giudici di merito avevano “ritenuto l'offensività in concreto della condotta in base al grado di maturazione delle due piante”, e sottolinea che l'imputato aveva “contestato la correttezza giuridica di tale conclusione invocando l'applicazione dell'opposto indirizzo ermeneutico che non si <accontenta> della mera conformità al tipo botanico, ma pretende l'accertamento in concreto della idoneità della piantina a produrre effetto drogante. La questione, del resto, era stata devoluta in appello in termini sostanzialmente sovrapponibili, avendo l'imputato dedotto: a) la totale mancanza di infiorescenze, sintomo di assenza di principio attivo; b) il mancato accertamento della idoneità in concreto delle piantine a produrre un effetto drogante”.

Poiché la questione di diritto “ancora oggi costituisce motivo di contrasto in sede di legittimità”, se ne devolve l'esame alle Sezioni unite.

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