Estinzione del reato ex art. 445, comma 2 c.p.p.: necessità e natura del provvedimento del giudice dell'esecuzione
28 Luglio 2015
Questione controversa
In ordine alla vexata quaestio, relativa alla necessità di un provvedimento del giudice dell'esecuzione – ricognitivo delle condizioni poste dall'art. 445, comma 2, c.p.p. e contestualmente dichiarativo dell'estinzione del reato – si sono formati due orientamenti contrapposti. Occorre premettere, in via generale, che per la risoluzione della questione di diritto rileva, oltre alla norma già citata (art. 445, comma 2, c.p.p.) avente natura sostanziale (sebbene contenuta nel codice di procedura penale), anche quella, di carattere eminentemente processuale, contenuta nell'art. 676 c.p.p.a mente del quale “Il giudice dell'esecuzione è competente a decidere in ordine all'estinzione del reato dopo la condanna […]. In questi casi il giudice dell'esecuzione procede a norma dell'art. 667, comma 4.”
Orientamento che ritiene necessario un provvedimento del giudice dell'esecuzione Un primo orientamento ritiene necessario – per la concreta produzione degli effetti collegati all'estinzione del reato connessa al c.d. “patteggiamento tradizionale” ex art. 445, comma 2, c.p.p. – un provvedimento del giudice dell'esecuzione. Per questa impostazione, che appare piuttosto isolata nel panorama giurisprudenziale ma non per questo infondata – sebbene si riconosca che l'art. 445, comma 2, c.p.p. ricollega l'effetto estintivo al mero decorso del tempo, conseguendo perciò ope legis – esigenze di certezza richiederebbero comunque una ricognizione giurisdizionale della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge e una conseguente declaratoria di estinzione del reato da parte del giudice dell'esecuzione. Tale soluzione è stata accolta dalla Suprema Corte con la sentenza della Sezione IV penale, 21 marzo 2002, n. 498, la cui massima testualmente recita: “in tema di esecuzione, l'art. 676 c.p.p. attribuisce al giudice il potere-dovere di dichiarare l'estinzione del reato allorché si verifichino le condizioni richieste dall'art. 445 comma 2 del codice di rito. (Nell'affermare il principio la Corte ha accolto il ricorso avverso il provvedimento del giudice dell'esecuzione che aveva rigettato l'istanza di declaratoria di estinzione del reato sull'erroneo presupposto che tale sopravvenuta estinzione, ai sensi del citato art. 445, non richiederebbe una formale pronunzia "ricognitiva")”. La richiamata pronuncia, succintamente motivata, pare fondarsi su una lettura congiunta delle norme coinvolte, ovvero l'art. 445, comma 2, c.p.p., da un lato, e l'art. 676 c.p.p., dall'altro. Il combinato disposto dalle due norme e il principio di certezza nei rapporti giuridici condurrebbe a ritenere essenziale un accertamento giudiziale e una pronuncia dichiarativa (come tale valevole “ora per allora”) di estinzione del reato. Nella motivazione della citata sentenza, infatti, si legge: “La situazione di fatto da cui origina la suddetta causa di estinzione del reato per divenire condizione di diritto abbisogna, per espressa pattuizione di legge, dell'intervento ricognitivo del giudice dell'esecuzione, il quale è tenuto, nell'assolvimento di un suo preciso dovere funzionale, ad emettere il relativo provvedimento tanto più se sollecitato dalla parte che ha interesse ad ottenerlo”. Dunque, la pronuncia ex art. 676 c.p.p., propria del giudice della fase esecutiva, lungi dal divenire elemento costitutivo della fattispecie estintiva, si porrebbe a “valle”, quale imprescindibile garanzia di legalità e certezza in materia penale. Gli argomenti posti a fondamento della pronuncia della IV Sezione, sono stati ripresi in motivazione da una successiva sentenza della Suprema Corte (Cass. pen., Sez. V, n. 31970/2008), laddove si afferma che “solo per via interpretativa, a fronte della lettera della legge (appunto il ricordato comma 2 dell'art. 445 c.p.p.), si è giunti ad affermare la necessità di un intervento del G.E. – sia pure in funzione meramente ricognitiva – al fine della dichiarazione di estinzione del reato”.
Orientamento che considera l'ordinanza del giudice dell'esecuzione presupposto dell'estinzione del reato Alla soluzione appena vista, si affianca una seconda ricostruzione, solo apparentemente coincidente con quella. Si potrebbe, infatti, sostenere la necessità del provvedimento giurisdizionale ex art. 676 c.p.p. anche in forza della c.d. “teoria della fattispecie a formazione progressiva”, secondo cui l'ordinanza del G.E. costituirebbe un vero e proprio presupposto dell'estinzione del reato, inserendosi “a monte” nel procedimento di formazione della fattispecie estintiva e non limitandosi a prendere atto, “a valle”, della sussistenza delle condizioni previste dalla legge. Questa diversa ricostruzione, sebbene pervenga ad una conclusione apparentemente coincidente con la prima – predicandosi anche qui la necessità di un provvedimento giurisdizionale – in realtà comporta conseguenze giuridiche differenti sia sul piano sostanziale che sul piano processuale, atteso che in questa seconda ipotesi l'ordinanza del G.E. ex art. 676 c.p.p. avrebbe evidentemente natura costitutiva con effetti ex nunc, senza alcuna valenza retroattiva.
Orientamento che ritiene che l'estinzione del reato operi ipso iure A fronte di tali orientamenti ve ne è un terzo, di segno contrario, affermato dalla Cassazione in una recente pronuncia (Cass. pen., Sez. V, n. 20068/2015) la cui massima recita: “L'estinzione del reato, che ha costituto oggetto di sentenza di patteggiamento, in conseguenza del verificarsi delle condizioni previste dall'art. 445, comma 2, c.p.p. opera ipso iure e non richiede una formale pronuncia da parte del giudice dell'esecuzione”. La Suprema Corte in questa sentenza, dopo aver richiamato i diversi orientamenti in campo, nota come l'art. 676 c.p.p. contenga soltanto l'attribuzione al giudice dell'esecuzione della competenza a decidere in merito all'estinzione del reato dopo la condanna ma che nulla stabilisca in ordine al momento a partire dal quale si produrrebbero gli effetti propri dell'intervenuta causa estintiva, lasciando pertanto l'interprete chiarire se tale pronuncia giudiziale abbiano effetto costitutivo o non piuttosto dichiarativo, di mero accertamento. Ciò detto, la Corte in tale recente pronuncia ha ritenuto che “il dato testuale – di per sé pressoché autosufficiente – assume in materia un'importanza decisiva. Poiché il tema centrale è l'estinzione del reato per decorso inattivo del tempo, l'individuazione del dies a quo è argomento nel quale la formulazione normativa, in un tema che investe carattere sostanziale, non può che assurgere al paradigma della tipicità”. Si sostiene, quindi, l'impossibilità per il giudice di percorrere vie esegetiche che esulano dal dato testuale, chiaro nel caso di specie nel subordinare l'estinzione del reato al verificarsi di una condizione oggettiva ed accertabile in ogni tempo e da chiunque, ovvero il decorso di un determinato lasso temporale senza che il soggetto abbia commesso nuovi illeciti. A sostegno delle illustrate conclusioni, la Suprema Corte ha citato i recenti approdi delle Sezioni unite in materia di prescrizione della pena e revoca dell'indulto (Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2014, n. 2). In tal senso si è ritenuto di valorizzare il principio di diritto secondo cui sarebbe maggiormente coerente con i criteri ermeneutici ricollegare il prodursi di un determinato effetto giuridico al momento in cui si sono verificati i presupposti richiesti dalla legge, anziché a quello in cui è divenuto definitivo il provvedimento che ne ha accertato l'effettiva sussistenza. In definitiva, la soluzione appena illustrata, incentrata sulla tesi dell'automatismo degli effetti, per la V Sezione della S.C., rappresenta il risultato di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma, coerente con i principi di ragionevole durata, di sollecita definizione di minor sacrificio esigibile evincibili dagli artt. 5 e 6 Cedu. |