Sezioni Unite: la sentenza della Corte EDU Contrada c. Italia non è una "sentenza pilota"
24 Marzo 2020
1.
La questione che le Sezioni Unite penali hanno risolto attiene al raggio applicativo della sentenza emessa dalla Corte EDU il 14 aprile 2015 sul caso Contrada. Si trattava di capire se l'arresto europeo abbia una portata generale, estensibile a coloro che – pur estranei a quel giudizio – abbiano subito anch'essi una condanna per “concorso esterno in associazione di tipo mafioso” in data antecedente alle Sezioni Unite Demitry del 5 ottobre 1994. In caso positivo, la Sezione rimettente aveva chiesto che fosse specificato il tipo di rimedio concretamente attivabile. Le Sezioni Unite, all'esito dell'udienza del 24 ottobre 2019, hanno dato risposta negativa, ritenendo che la sentenza Contrada non sia una “sentenza pilota”.
La questione che le Sezioni Unite penali hanno risolto il 24 ottobre 2019 riguarda la possibilità di estendere gli effetti della sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo nell'affair Contrada erga alios e, dunque, a favore di soggetti che, sebbene altri e diversi dall'ex Dirigente Generale della Polizia di Stato, si siano trovati nella medesima posizione. La decisione è frutto della ordinanza della Suprema Corte, Sezione Sesta, del 22 marzo 2019, adita dal ricorrente G.S. avverso il diniego della revisione opposto dalla Corte di Appello di Caltanissetta; tale richiesta aveva ad oggetto la sentenza di condanna per il reato p. e p. dagli artt. 110 e 416-bis c.p. emessa dalla Corte di Appello di Palermo il 15 febbraio 1999 e passata in “giudicato” il 13 giugno 2000. G.S., inizialmente imputato per partecipazione a “Cosa nostra”, era stato dichiarato responsabile per “concorso esterno in associazione di tipo mafioso”, avendo contribuito in vario modo ed in misura apprezzabile alla sua esistenza. La condotta, per cui aveva riportato condanna ad anni quattro di reclusione, era cristallizzata nel seguente range temporale: 1979-1988 e, dunque, in periodo di gran lunga antecedente rispetto alle Sezioni Unite Demitry del 5 ottobre 1994. Secondo il ricorrente, la richiesta di revisione si basava sugli stessi presupposti della sentenza pronunciata dalla Corte Europea nel caso Contrada il 14 aprile 2015, che aveva accertato la violazione dell'art. 7 CEDU in quanto, all'epoca in cui erano stati commessi i fatti contestati, tale reato «non era sufficientemente chiaro e prevedibile» per l'imputato; costui, quindi, non poteva «conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità derivante dagli atti da lui compiuti». Tale declaratoria di unfairness nacque dalla analisi della giurisprudenza nazionale che aveva elaborato e, dunque, creato la fattispecie delittuosa del “concorso esterno in associazione mafiosa” e dalla constatazione che, solo con la citata sentenza Demitry, il reato in esame avesse trovato sicura e prevedibile cittadinanza nell'ordinamento penale italiano. Logica conseguenza sarebbe dovuta per G.S., deve e dovrà essere sempre per chiunque – stante la natura obiettiva ed impersonale del difetto di prevedibilità/riconoscibilità del precetto ex art. 7 CEDU – che qualsiasi sentenza di condanna per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa” commesso ante 5 ottobre 1994 sia censurata per violazione del principio di irretroattività della legge penale. La Corte di Appello di Caltanissetta rigettò la richiesta dopo averla dichiarata ammissibile alla luce di Cass. pen., Sez. I, 11 ottobre 2016, dep. 18 ottobre 2016, n. 44193, rv. 267861, in base alla quale la c.d. “revisione Europea” può essere concessa non solo in caso di violazioni procedurali in materia di “equo processo” (ciò che aveva stimolato la celebre sentenza n. 113/2011 con cui la Consulta dichiarò la illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non includeva tra le ipotesi di revisione anche quella resa necessaria, ai sensi dell'art. 46, § 1, CEDU, dall'obbligo di conformazione ad una sentenza definitiva della Corte di Strasburgo), ma anche in ipotesi di violazione di norma sostanziale. Art. 7 CEDU naturalmente incluso. Tuttavia, la Corte siciliana ritenne infondata la richiesta in quanto, sempre sulla scia di Cass. pen. n. 44193/2016, cit., per riformare una sentenza di condanna per “concorso esterno in associazione mafiosa” non basta il dato temporale – l'anteriorità dei fatti rispetto al 5 ottobre 1994 – essendo, viceversa, necessario valutare pure la concreta vicenda processuale, la condizione soggettiva dell'imputato al momento del fatto e, infine, le modalità dell'esercizio del diritto di difesa durante il processo interno. La Corte evidenziò, in particolare, che numerose sentenze della Corte di Cassazione avevano negato anch'esse l'efficacia generale nell'ordinamento italiano della sentenza Contrada, atteso che quest'ultima si era basata su di un erroneo presupposto, per di più, non contraddetto dal Governo italiano: la matrice giurisprudenziale del reato in esame. Rilevato il suddetto errore, non v'era alcun gap sistemico nell'ordinamento penale interno tale da dover essere riconosciuto e censurato sempre, comunque ed in qualsiasi procedimento analogo. I motivi di ricorso – si ricordi l'interessante inciso in base al quale, data la (solo) postuma dichiarazione di assenza dei presupposti, la Corte siciliana avrebbe dovuto dichiarare (invece e già) a monte l'inammissibilità della richiesta di revisione – possono essere così sintetizzati: 1) sostanziale disapplicazione del meccanismo della “revisione Europea”, posto che la Corte non ha verificato la sovrapponibilità del caso Contrada al caso di G.S.; 2) omessa spiegazione dei pur ritenuti motivi di contrasto della sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo sul caso Contrada con i principi del sistema italiano e, di conseguenza, omessa attivazione dei c.d. “contro limiti” sub specie dell'incidente di costituzionalità; 3) vizio di motivazione in ordine alla prevedibilità del precetto penale, atteso che la natura delle condotte addebitate al ricorrente (genericamente contestate ed involgenti semplici frequentazioni con il cugino in uno alla mera contiguità con soggetti mafiosi) escludevano la prevedibilità di una loro rilevanza penale; 4) la sentenza emessa sul caso Contrada era espressione di un orientamento consolidato della giurisprudenza Europea e, in ogni caso, tutte le sentenze emesse dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo hanno efficacia vincolante ed autorità interpretativa, quale che sia la natura – maggioritaria o minoritaria – del filone cui appartengono; 5) violazione degli artt. 117 Cost. e 32 CEDU, atteso che (sulla scia della nota Corte cost. n. 49/2015) ai giudici nazionali è inibita qualsiasi rivisitazione critica degli arresti Europei, solo la Corte EDU potendo risolvere le questioni inerenti alla esegesi ed applicazione della Convenzione medesima; 6) violazione degli artt. 13 e 14 CEDU, posto che la Corte di Appello di Caltanissetta ha violato l'obbligo incombente sul giudice nazionale di evitare nuove ed analoghe violazioni CEDU, anche se la vittima considerata nel caso specifico non aveva fatto ricorso alla Corte di Strasburgo. Il ricorrente concludeva in tal senso: laddove la Suprema Corte, a sezioni unite o semplici, avesse ritenuto non percorribile da parte dei “fratelli minori” di Contrada la strada della revisione o dell'incidente di esecuzione, si sarebbe imposta in tutta la sua cogenza la conseguenziale q.l.c. dell'art. 630 c.p.p., attesa la gravissima discriminazione così determinatasi a danno dei c.d. “terzi”, svestiti – come tali – dei panni del ricorrente vittorioso a Strasbourg-Cedex. La Sezione Sesta, dunque, stante la delicatezza della questione ed i suoi innegabili riflessi sugli obblighi di conformazione alle sentenze definitive della Corte Europea dei diritti dell'uomo, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, con ordinanza del 22 marzo 2019, dep. 17 maggio 2019, n. 21767, Presidente Mogini, Relatore Calvanese.
Orientamento contrario alla portata generale delle sentenze emesse dalla Corte EDU. La Sezione Sesta ha avviato l'analisi della efficacia espansiva delle sentenze emesse dalla Corte EDU ai c.d. “figli di un Dio minore”, partendo dalla nota decisione n. 113/2011. Con tale pronuncia, la Corte costituzionale aveva dichiarato la illegittimità dell'art. 630 c.p.p. (l'esito lo si è già ricordato sopra) attesa la inidoneità degli strumenti processuali a disposizione in quello “stato dell'arte”: inidoneo risultava l'incidente d'esecuzione previsto dall'art. 670 c.p.p., produttivo di un mero “limbo processuale” (stante il congelamento, non già la eliminazione del giudicato), così come inidoneo si rivelava anche l'impianto delineato dall'art. 630 c.p.p., data la tassatività dei casi ivi contemplati. Quel che, però, maggiormente preme rilevare in questa sedeè che, a parere della Consulta, l'antidoto nazionale contro la violazione convenzionale è prerogativa della sola parte risultata vittoriosa a Strasburgo. Ciò è stato ribadito anche da Corte cost., 7 marzo 2017, dep. 26 maggio 2017, n. 123, Sito Diritto dei Servizi Pubblici.it, 2017 e da Corte cost., 20 marzo 2018, dep. 27 aprile 2018, n. 93, Sito uff. Corte cost., 2019; quest'ultima, pur pronunciatasi in tema di revocazione ai sensi degli artt. 395 e 396 c.p.c., ha evidenziato che la riapertura dei processi interni, compresi quelli penali, «non è un diritto assicurato» dalla Convenzione. A dimostrazione di ciò, la Corte costituzionale ha citato l'arrêt di Corte EDU, Grande Camera, 11 luglio 2017, Moreira Ferreira contro Portogallo, caso in cui la vittima, già riconosciuta come tale da un precedente giudizio, non era riuscita ad ottenere la riapertura del processo interno. Secondo la Grande Camera, ripresa nel caso Drassich contro Italia (n. 2), Sezione Prima, 22 febbraio 2018, la Corte EDU non può ordinare al giudice nazionale la riapertura di un procedimento, la quale resta comunque il rimedio più efficace se non addirittura l'unico laddove la vittima continui a subire conseguenze negative non eliminabili attraverso l'equa soddisfazione. Trattasi, tuttavia, di «circostanze eccezionali», anche perché se la riapertura costituisce «in linea di principio» un mezzo di ristoro adeguato, lo Stato convenuto resta libero di scegliere lo strumento per porre riparo alla violazione accertata. Ed ancora, con sentenza del 18 luglio 2013, dep. 24 aprile 2013, n. 210, Sito uff. Corte cost., 2014, la Corte costituzionale ha ribadito il dovere del giudice interno di adeguarsi alla decisione emessa a Strasburgo. Tuttavia, tale dovere è subordinato alla presenza dello stesso binomio: necessità-medesimezza del procedimento (interno ed Europeo); viceversa, in assenza di tali presupposti, «l'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito (…) in prima battuta ai giudici degli Stati membri». Ciò è il portato di Corte cost., 4 luglio 2007, dep. 24 ottobre 2007, n. 349, Sito uff. Corte cost., 2007, nota come una delle “sentenze gemelle” (assieme alla coeva n. 348), cui si aggiunge il divieto ad essi imposto di ignorare l'interpretazione fornita dalla Corte EDU, allorquando essa si sia consolidata in una determinata direzione: si tratta delle c.d. “sentenze pilota” enucleate da Corte cost., 14 gennaio 2015, dep. 26 marzo 2015, n. 49, Sito uff. Corte cost., 2015, la quale ha ribadito «il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU». Di estrema importanza, inoltre, appare il distinguo che la Consulta ha operato a seconda della natura del vizio lamentato: in caso di violazione della norma sostanziale, il rimedio attivabile sarebbe stato l'incidente di esecuzione, viceversa, in ipotesi di violazione di norma procedurale – data la necessità di valutazioni puntuali del caso specifico – lo strumento da utilizzare sarebbe stato quello della riapertura del processo. Già giudicato unfair, beninteso. Ai terzi estranei sarebbe rimasta un'unica chance: l'incidente di costituzionalità.
Orientamento favorevole alla efficacia vincolante di tutte le sentenze della Corte EDU. La Sezione Sesta ha rammentato, in chiave distonica rispetto alla citata sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale, l'opinione parzialmente concorrente e parzialmente dissenziente del giudice Paulo Pinto de Albuquerque ed allegata alla sentenza emessa da Corte EDU, Grande Camera, 28 giugno 2018, G.I.E.M. ed altri contro Italia: con tale arresto, la Corte di Strasburgo aveva evidenziato la centralità del principio della «autorità interpretativa (…) di tutte» le sentenze della Corte. Opinando diversamente, per come sottolineato da Pinto de Albuquerque, si rischierebbe di «liberare i giudici ordinari dall'obbligo imposto dalla Convenzione di dare piena esecuzione alle sentenze della Corte», potendo «annullare l'applicazione delle sentenze della Corte quando ritengono che esse non costituiscano un “diritto consolidato”». All'esito della declaratoria di incostituzionalità con la menzionata sentenza n. 210/2013, a sua volta frutto della interpretazione della Grande Camera, 17 settembre 2009, sul caso Scoppola contro Italia, si sono pronunciate le Sezioni Unite 24 ottobre 2013 (ci si soffermi un istante sulla perfetta coincidenza della data con le Sezioni Unite odierne), dep. 7 maggio 2014, n. 18821, rv. 258649, Ercolano, le quali, pur ribadendo il distinguo tra parte e terzo del/al processo Europeo, hanno optato per la erosione del giudicato a fronte dello «stigma dell'ingiustizia». In caso di illegittima applicazione di una norma interna di diritto penale sostanziale letta ed applicata in modo non convenzionalmente corretto, si deve procedere alla rimozione degli effetti eventualmente ancora perduranti del vizio (necessariamente) strutturale della normativa (non implicante, dunque, la rivalutazione del giudizio di responsabilità penale) e ciò «anche nei confronti di coloro che, pur non avendo proposto ricorso a Strasburgo, si trovano in situazione identica a quella oggetto della decisione adottata dal giudice Europeo». Viceversa, nel caso di errores in procedendo, urge la valutazione caso per caso e lo strumento della revisione – l'unico azionabile – si può impiegare «soltanto di fronte a un vincolante dictum della Corte di Strasburgo sulla medesima fattispecie».
Orientamento sfavorevole alla estensione erga alios della sentenza emessa dalla Corte EDU, Sezione Quarta, il 14 aprile 2015 nel caso Contrada. Sub § 13.2 del Considerato in diritto, la Sezione Sesta ha richiamato la prima pronuncia rilevante in parte qua: Cass. pen., Sezione Prima, 11 ottobre 2016, dep. 18 ottobre 2016, n. 44193, Dell'Utri, rv. 267861, seguita da Ead., 10 aprile 2017, dep. 27 novembre 2017, n. 53610, Gorgone, Massima redazionale, 2017. L'osservazione ivi svolta e che merita maggiormente di essere ricordata è la seguente: sebbene il caso Dell'Utri, sotto il profilo temporale, sia sostanzialmente identico al caso Contrada, l'art. 673 c.p.p. non è invocabile laddove si tratti di procedimento diverso da quello giudicato unfair. Ed infatti, «Tale possibilità è prevista dal testo della norma nei soli casi di abrogazione o declaratoria di illegittimità della norma incriminatrice e la norma non può essere interpretata in modo estensivo o analogico». Secondo la Dell'Utri, inoltre, la Contrada non è una “sentenza pilota” e, dunque, la valutazione della Corte EDU resta confinata allo specifico caso esaminato, non potendosi estendere ai terzi estranei al suddetto procedimento. Peraltro, la violazione dell'art. 7 CEDU è stata accertata non già sotto il profilo dell'an della prevedibilità della rilevanza penale del fatto (art. 7, § 1, primo periodo), bensì sotto quello della nuance giuridica (art. 7, § 1, secondo periodo) certamente influente sul quantum della pena. Prova ne è stata la stessa richiesta in via gradata del Contrada di derubricare il reato in quello di favoreggiamento personale. Pertanto, ribadendo che solo il vizio di tipo strutturale sarebbe stato suscettibile di estensione al di là del caso hic et nunc considerato, la Sezione Prima ha posto l'accento su altri indicatori da valutare per capire l'effettiva portata del deficit sia pure di tipo strutturale ed integrati, in particolare, da quelli di natura soggettiva. Condotta processuale inclusa. Quest'ultima avrebbe avuto un peso specifico determinante al fine di capire se davvero l'imputato avesse potuto prevedere la pena conseguente alla sua condotta. La Sezione Prima è giunta persino a contestare il presupposto di diritto, su cui la Corte EDU aveva basato la condanna dello Stato italiano nel caso Contrada, con sentenza del 12 gennaio 2018, dep. 22 febbraio 2018, n. 8661, Esti, rv. 272797 (seguita dalle sentenze 12 giugno 2018, n. 36505, Corso, non massimata; 12 giugno 2018, dep. 30 luglio 2018, n. 36509, Marfia, rv. 273615; 4 dicembre 2018, n. 37, Grassia, non massimata e 19 febbraio 2019, n. 15574, Papa, anch'essa non massimata e tutte emesse dalla Sezione Prima). In tal modo, è stato chiuso il cerchio aperto dalla citata sentenza n. 44193/2016 che aveva negato la origine giurisprudenziale del reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”.
Considerazioni svolte dai giudici rimettenti. A partire dal § 14.2, la Suprema Corte ha evidenziato che nessun errore interpretativo del sistema penale italiano ha inficiato l'esito della decisione Europea; la Corte di Strasburgo, infatti, ha ben compreso che la fonte del precetto avesse base legale, laddove invece è il combinato disposto delle due norme – gli artt. 110 e 416-bis c.p. – ad essere stato oggetto di un bailamme interpretativo giurisprudenziale. Oscillazione e, di conseguenza, incertezza venuta meno solo grazie alle Sezioni Unite Demitry. Da qui, la censura alla sentenza Esti che sembra aver dimenticato l'ampia accezione di legge/law intesa dal giudice Europeo e che certamente comprende tanto la produzione legislativa, tecnicamente intesa, quanto quella di origine giurisprudenziale (il c.d. “diritto vivente”). Ha posto l'accento, pertanto, sul «peso della “certezza applicativa”» che «sembra prevalere nella giurisprudenza della Corte EDU sul valore della determinatezza testuale». Ecco perché, aderendo ad un'impostazione dottrinale, ha ritenuto che l'art. 7 CEDU contenga una «garanzia ulteriore» rispetto all'art. 25 Cost.: l'individuo, nell'esatto momento in cui dovrà decidere se agire o meno, potrà «fare (…) legittimo affidamento sulla interpretazione che di quella norma», magari già passata indenne sotto la scure rimasta immobile della Corte costituzionale, «abbiano fornito i giudici interni, avendo – così – un preciso diritto a non essere sorpreso ex post da estensioni interpretative di quella stessa norma non prevedibili ex ante». Ha rammentato l'arresto delle Sezioni Unite, 21 gennaio 2010, dep. 13 maggio 2010, n. 18288, Beschi, rv. 246651, che così si erano espresse: «Il diritto vivente postula (…) la mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente “creativa” della interpretazione, la quale, senza varcare la “linea di rottura” col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima». Inoltre, laddove ha ricordato l'orientamento che aveva valorizzato il profilo soggettivo dell'imputato e la sua condotta processuale per capire se davvero il precetto fosse stato o meno prevedibile, la Sezione Sesta ha escluso che tale lettura trasparisse davvero dal percorso logico-argomentativo tracciato dalla Corte EDU; al contrario, quest'ultima «non ha valutato la prevedibilità ponendosi nella prospettiva della colpevolezza del ricorrente al quale muovere un rimprovero personale (attese anche le sue specifiche qualità e conoscenze professionali) ma ha ritenuto dirimente ed assorbente esaminare la certezza del diritto penale, quindi in senso oggettivo». Inoltre, ha puntualizzato che «la prevedibilità (deve) essere vagliata al momento della condotta, e non essenzialmente al momento del processo». Infine, ha ritenuto che la sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta si fosse allineata alla sentenza Esti, «escludendo che la sentenza Europea emessa sul caso Contrada avesse effettivamente rilevato un deficit sistemico e ritenendo sufficiente che nel caso in esame l'incertezza finisse per dissolversi nell'alternativa non tra lecito o illecito bensì tra due reati puniti egualmente». 2.
All'udienza del 22 marzo 2019 la Sezione Sesta penale ha rimesso alle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., la seguente questione da dirimere: «se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile». 3.
Il Primo Presidente della Cassazione ha fissato per il 24 ottobre 2019 la discussione davanti alle Sezioni Unite della questione controversa: Se i principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada·contro Italia, si estendano nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a· delinquere di tipo mafioso, e, in caso affermativo, quale sia il rimedio processuale applicabile. 4.
La Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, all'esito dell'udienza del 24 ottobre 2019, Presidente Carcano, Relatore Boni, in relazione al quesito posto dalla Sezione sesta, ha fornito la seguente risposta: «negativa, in quanto la sentenza della Corte EDU del 14/4//2015 Contrada c. Italia non è una “sentenza pilota” e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata». Si rimane stupiti e non poco. Ed infatti – ormai si fa per dire – se il substrato legale di una sentenza di condanna è impreciso – perché assolutamente ibrido e sfuggente, dunque, non chiaro né prevedibile – è come se la sentenza in questione, empiricamente e giuridicamente, non fosse mai esistita. E ciò nei confronti di “N” soggetti, che altri e diversi da Bruno Contrada – nella sostanza – non lo sono affatto. Almeno questa è stata la “ragionevole aspettativa”, fino ad oggi. La conseguenza, allora, è una ed una sola: «i contorni di ciò che specificamente attiene alla legalità, alla precisione, alla determinatezza, alla tassatività e all'irretroattività si perdono e tutto confluisce nel valore garantistico fondamentale dell'esclusione d'imprevedibili sorprese da parte delle autorità pubbliche, giudici compresi, nei confronti dei diritti e delle libertà individuali» (V. Zagrebelsky, La Convenzione europea dei diritti dell'uomo e il principio di legalità nella materia penale, in V. Manes - V. Zagrebelsky, (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento penale italiano, Milano, 2011, p. 107. ). Eppure, la Corte di Strasburgo aveva ben sottolineato la divergenza giurisprudenziale in tema di concorso esterno – quanto all'an – evidenziando l'innegabile swing of pendulum in ordine alla rilevanza/irrilevanza penale del “concorso esterno in associazione mafiosa”. Né si può dubitare che tale fattispecie sia stata letteralmente partorita dalle Camere di Consiglio delle Sezioni Unite, piuttosto che dalle “navette” Parlamentari; di ciò la Corte di Strasburgo ha dimostrato di avere piena, corretta e motivata contezza. Così come è innegabile che le Sezioni Unite Demitry abbiano rappresentato un vero e proprio spartiacque, giacché prima di esse e dopo di esse, un fatto umano ex ante – non già la sua proiezione processuale ex post, splendida la considerazione svolta sul punto dalla Sezione Sesta rimettente sub § 14.4 del Considerato in diritto – non recava in sé lo stigma della illiceità penale o, al contrario, lo possedeva. Tertius non datur, non dedĭtur neque dabĭtur. È questo il significato più profondo della dimensione temporale nel sistema penale. È questo il senso dell'art. 25, c. 2, Cost. ed è certamente questo il senso, altresì, dell'art. 7 CEDU, globalmente considerato. Puntualissima, quanto per vero basica – ma evidentemente non per tutti – è l'accezione del termine legge/law fatta propria dal giudice Europeo. Onestà intellettuale impone di affermare che certamente la Giurisprudenza interna, quale che ne sia l'idioma giuridico, non si limiti sempre e soltanto ad applicare il Diritto; ciò vale certamente nei sistemi di Common law, ove (troppo) spesso il precedente è binding ma vale (purtroppo spesso) anche nei sistema di Civil law, ove il precedente intrinsecamente vincolante non è. Reminiscenze universitarie permettendo. Ché, poi, non rilevano e non possono rilevare di certo le «specifiche qualità e conoscenze professionali» dell'imputato, all'epoca soggetto ignaro. Nel meccanismo del diritto penale sostanziale non entrano in gioco i criteri di cui all'art. 1176 del codice civile: intanto perché non si distingue tra il bonus pater familias e l'homo eiusdem condicionis et professionis e poi perché, se tali qualifiche pertengono al grado di diligenza, quest'ultima si attaglia alla colpa non già al dolo. Anche in questo caso la mente evoca le piccole conquiste della gioventù. Salvo ritenere che esista un delitto di matrice mafiosa, un'ipotesi di “concorso esterno in mafia” di natura colposa di nuovissimo conio. Tuttavia, gli artt. 40, c. 2, 42, c. 2, ultimo inciso, 43, rigo terzo e 113 c.p., lo impediscono. Almeno per ora. Salvo ritenere, ancora ed infine, che una pionieristica branca giurisprudenziale possa crearla ed il quisque de populo, anzi no: la distinta e raffinata Intellighenzia italiana capirla e prevederla. Anche quando non esisteva ed era ancora in mente Dei. Un “Dio maggiore”, come se potesse esistere – per converso – un “Dio minore”. Sennonché, la funzione nomopoietica della giurisprudenza (quella nomofilattica – all'ombra delle recentissime Sezioni Unite n. 41736/2019 – sembra un lontano ricordo) è tanto più ridotta, quanto più la norma sia ed appaia a chiunque strutturalmente nitida e tecnicamente ineccepibile, al punto da rappresentare essa stessa la chiave di volta di un singolo procedimento. Rectius: di ogni procedimento, laddove la medesimezza della posizione è tale da evitare ad ogni giudice qualsiasi peculiare sforzo interpretativo. Tuttavia, laddove la norma sia labile, già solo in termini di tipicità ed offensività in astratto, ecco che spetta al giudice l'onere di colmare il gap lasciatogli in eredità dal legislatore. Ed è quel che ha caratterizzato la “saga” del “concorso esterno”; fattispecie talmente chiara e prevedibile ex se da aver scomodato più e più volte la Suprema Corte, ora a favore ora contro la sua stessa configurabilità. Compito non agevole, sol che si consideri che il delitto di partecipazione ex art. 416-bis c.p. non è altro che un “reato concettuale”; talmente ondivago ed impalpabile da aver ispirato – rendendola necessaria – l'affascinante tesi della c.d. “oggettivizzazione del dolo specifico”. Se la “certezza applicativa” sta al principio di legalità come la concreta rimproverabilità del fatto penalmente rilevante al principio di inesigibilità, forse, è consentito impiegare anche in questo contesto parole e pensieri concepiti dalle Anime più sensibili: la esattezza del precetto e la certezza della sua applicazione rappresentano una «valvola che permette ad un sistema di norme di respirare in termini umani» (G. Bettiol, Diritto penale, Padova, 1982, p. 493, nota 401). Italo Calvino e Giuseppe Bettiol annuirebbero. Why not? Ed ecco perché la sentenza Dell'Utri – non già la Corte di Strasburgo quattro anni orsono – si è mossa da un errato presupposto: l'art. 7, lo si ripeta, interamente considerato, è stato alla base della declaratoria di unfairness nel caso Contrada, non già il solo secondo periodo del suo primo paragrafo. Ci si permetta di riportare il passaggio più rilevante della sentenza Europea: «74. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. 75. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111- 118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154- 162, 7 febbraio 2012). 76. La Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione». La ragione per la quale si è posta la enfasi diversamente dosata è chiara proprio perché chiara è stata la Corte EDU: il reato è stato considerato di sicura matrice giurisprudenziale e sempre il reato, prima delle Sezioni Unite Demitry, non era sufficientemente chiaro e prevedibile. Logica conseguenza ne è, ovviamente, la imprevedibilità della pena, giacché se e solo se il reato di favoreggiamento personale – legislativamente predefinito – fosse stato ritenuto sussistente, Bruno Contrada avrebbe dovuto rispondere, dall'inizio ed essere condannato, alla fine, per questo reato che è certamente altro e diverso rispetto al “concorso esterno in associazione mafiosa”. Non già solo per il quantum di pena, ma anche e soprattutto per la diversità strutturale delle norme, tutela dello specifico e differente bene giuridico compresa. Al contempo, la sentenza Dell'Utri sbaglia anche in punto di comprensione dell'art. 7, § 1, secondo periodo, CEDU, non a caso così formulato: Parimenti non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato. Tale norma, in realtà, non è altro che la versione Convenzionale dell'art. 2, commi 3 e 4, c.p. italiano. Posta la preesistenza della fattispecie di reato – in ossequio all'art. 2, c. 1 – ove ne mutino le conseguenze sanzionatorie – dunque, strettamente correlate alla pena – si applicheranno quelle più favorevoli al reo. È chiaro, quindi, che se il reato all'epoca del fatto tale non era, la responsabilità penale per quel fatto “ha da essere annullata”. Sempre, comunque e nei confronti di chiunque si trovi in posizione perfettamente, inequivocamente ed oggettivamente identica a quella di Bruno Contrada. Anche così si potrà accelerare e snellire il carico giudiziario della Suprema Corte. Pardon! Della più celebre Corte d'Oltralpe che ai diritti umani si ispira e della tutela dei diritti umani si nutre. Anche così si può e deve quadrare il cerchio disegnato dai nostri Padri Costituenti e scolpito nell'art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Esso ci guida, qual perfetto ed immutabile… “pilota”. Attendendo la motivazione, et de hoc satis. 5.
La questione che le Sezioni Unite penali hanno risolto attiene al raggio applicativo della sentenza emessa dalla Corte Edu il 14 aprile 2015 sul caso Contrada. Si trattava di capire se l'arresto europeo abbia una portata generale, estensibile a coloro che – pur estranei a quel giudizio – abbiano subito anch'essi una condanna per “concorso esterno in associazione di tipo mafioso” in data antecedente alle Sezioni Unite Demitry del 5 ottobre 1994. In caso positivo, la Sezione rimettente aveva chiesto che fosse specificato il tipo di rimedio concretamente attivabile. Le Sezioni Unite, all'esito dell'udienza del 24 ottobre 2019, hanno dato risposta negativa, ritenendo che la sentenza Contrada non sia una “sentenza pilota”.
All'indomani del deposito della motivazione, avvenuto il 3 marzo 2020, ecco quali sono i passaggi salienti della sentenza e le relative osservazioni che si ritiene di potere svolgere. Sub 4.1 del Considerato in diritto, le Sezioni Unite partono dal presupposto che il ricorrente G.S. non sia destinatario «di una pronuncia favorevole della Corte Europea di contenuto sovrapponibile a quella conseguita dal Contrada». V'è un primo errore: che G.S. non sia stato ricorrente vittorioso alla Corte di Strasburgo come Bruno Contrada è vero; non è vero, invece, che la sentenza emessa nel casoContrada non sia di contenuto sovrapponibile al suo. È proprio questa la ragione del ricorso e della rimessione – che ben si sarebbe potuta evitare – alle Sezioni Unite: il caso di G.S. era strutturalmente identico a quello di Contrada, sicché ben si sarebbe potuto/dovuto alimentare – e risolvere – con la decisione favorevole a quest'ultimo. Sub 4.2, hanno invece ragione le Sezioni Unite a sostenere che G.S. non potesse invocare l'art. 46 CEDU che, al § 1, così recita: Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alla sentenza definitiva della Corte per le controversie di cui sono parti. G.S. non è stato parte del giudizio instaurato da Bruno Contrada. Vero. Sicché, correttamente la Suprema Corte ritiene di dover verificare se sussistano le condizioni in presenza delle quali la decisione emessa dalla Corte Edu il 14 aprile 2015 possa applicarsi in modo generalizzato; a tal fine e, altrettanto correttamente, pone l'accento sulla natura della violazione della norma convenzionale. Ugualmente ineccepibile appare il richiamo all'art. 61 del Regolamento CEDU – inserito dalla Corte il 21 febbraio 2011 – il cui § 1 stabilisce: La Corte può decidere di applicare la procedura della sentenza pilota e adottare una sentenza pilota quando i fatti all'origine di un ricorso presentato innanzi ad essa rivelano l'esistenza, nella Parte contraente interessata, di un problema strutturale o sistemico o di un'altra disfunzione simile che ha dato luogo o potrebbe dare luogo alla presentazione di altri ricorsi analoghi. Orbene, ci si chiede cosa sia se non un innegabile gap strutturale/sistemico quello evidenziato dalla Corte Edu nel caso Contrada che, come già rilevato, così si era pronunciata: «74. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. 75. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111- 118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154- 162, 7 febbraio 2012). 76. La Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione». Mutuando il linguaggio matematico, si potrebbe scrivere così: L'art. 7 CEDU: alla base dell'ordinamento convenzionale = l'art. 25, comma 2, Cost. it.: alla base dell'ordinamento italiano. V'è da dire che lo stesso art. 61 del citato Regolamento stabilisce al § 3: La Corte deve indicare nella sentenza pilota da essa adottata la natura del problema strutturale o sistemico o della disfunzione da essa constatata e il tipo di misure riparatorie che la Parte contraente interessata deve adottare a livello interno in applicazione del dispositivo della sentenza. A parere di chi scrive, la sentenza Contrada contiene certamente l'indicazione del problema strutturale e/o della relativa disfunzione – si tratta dei punti 74-75 testé citati – ma non contiene il tipo di misura riparatoria che lo Stato italiano avrebbe dovuto (e deve) adottare. Anche tale indicazione, in base ad una interpretazione letterale della norma – derivante dall'impiego dell'indicativo “deve” – avrebbe dovuto corredare la decisione europea. Tuttavia e, paradossalmente, un'ancora di salvezza – colma di duttilità sostanziale e pratica – è stata gettata proprio dalle Sezioni Unite laddove, sulla scia di Corte Edu, Grande Camera, 13 luglio 2000, caso Scozzari e Giunta c. Italia, le stesse hanno precisato: «Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all'esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione». Si segnala che in tale sentenza la Grande Camera ha altresì aggiunto: «quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione prevista dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie». Dello stesso tenore anche Corte Edu, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Corte Edu, Grande Camera, primo marzo 2006, Sejdovic c. Italia; Corte Edu, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze c. Georgia. Non si può che chiosare in tal modo: per l'appunto. Il Supremo Consesso ricorda che analogamente si è pronunciata la Corte costituzionale italiana (richiama le sentenze n. 236/2011 e n. 49/2015) la quale «ha assegnato valore vincolante e fondante l'obbligo conformativo per lo Stato condannato nel giudizio celebrato dinanzi la Corte sovranazionale alla statuizione contenuta in sentenza pilota, oppure in quella che, seppur legata alla concretezza della situazione che l'ha originata, “tenda ad assumere un valore generale e di principio”». Proseguono le Sezioni Unite: «Qualora, invece, non ricorrano tali presupposti, compete al giudice interno applicare ed interpretare le disposizioni di legge, operazione da condursi in conformità alle norme convenzionali ed al significato loro attribuito dall'attività esegetica compiuta dalla Corte EDU, alla quale è rimessa una “funzione interpretativa eminente” sui diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli secondo quanto previsto dall'art. 32 CEDU, al fine di realizzare la certezza e la stabilità del diritto (Corte Cost., sent. nn. 348 e 349 del 2007)». Esattamente. Il che vale, a maggiore ragione, allorquando la Corte si avveda – e censuri esplicitamente – il deficit strutturale dell'impianto normativo lamentato e proprio sulla base di questo dichiari l'unfairness del caso. Una ingiustizia che ben potrà e dovrà dichiararsi – d'emblée – sui ricorsi strutturalmente identici a quello risultante vittorioso. Ad ogni modo, su questo aspetto si tornerà a breve. Procedendo dunque con ordine, l'Estensore a questo punto scrive: «il giudice comune, nell'interpretare la disposizione del proprio ordinamento interno deve recepire i contenuti della “giurisprudenza Europea consolidatasi sulla norma conferente” e, qualora, facendo ricorso a tutti gli strumenti di ermeneutica praticabili, la ravvisi in contrasto con i precetti della Carta costituzionale, non potendo disapplicarla, deve investire il giudice delle leggi della questione di costituzionalità della norma stessa in riferimento all'art. 117 Cost., comma 1, spettando poi a quest'ultimo pronunciarsi in adesione alla giurisprudenza Europea, se uniforme e consolidata, salvo che in via eccezionale non ne riconosca la difformità dalla Costituzione. In questa residuale ipotesi, il giudice delle leggi non può sostituirsi alla Corte EDU nell'interpretare le disposizioni della Convenzione, pena l'usurpazione di prerogative altrui in violazione dell'impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione del trattato internazionale, ma deve operare un giudizio di bilanciamento, finalizzato a verificare la sussistenza di un vuoto di tutela normativa rilevante in relazione ad un diritto costituzionalmente garantito. Nel diverso caso, in cui il giudice interno ravvisi l'incompatibilità tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente Europeo e la Costituzione, in assenza di un “diritto consolidato” il relativo dubbio è sufficiente per negarvi i potenziali contenuti assegnabili secondo la giurisprudenza sovranazionale e per operarne l'interpretazione costituzionalmente orientata, - doverosa e prioritaria rispetto a qualsiasi altra possibile -, che esclude la necessità di sollevare incidente di costituzionalità (Corte Cost., sent. n. 113 del 2011; sent. n. 311 del 2009)». Ebbene, si ritiene che tale distinguo nulla apporti alla tesi sposata dalle Sezioni Unite per una ragione molto semplice: Esse spostano il focus sui casi di pur improbabile ma sempre possibile contrasto «tra la norma nella lettura offertane dal diritto vivente Europeo e la Costituzione». Ma non è di questo che ci si occupa; anche perché ci si chiede davvero spasmodicamente quale incompatibilità vi potrebbe mai essere – se non ioci causa – tra la interpretazione dell'art. 7 CEDU, siccome compiuta dalla Corte di Strasburgo nel caso Contrada, e quella dell'art. 25, comma 2, Cost.. Il rapporto tra le due norme è tale da poterle considerare… sovrapponibili. Le disposizioni in questione sono talmente basiche per il sistema penale da consentire di ridurre qualsiasi commento al seguente brocardo: in claris non fit interpretatio. Va da sé, quindi, che il passaggio successivo appaia discutibile. Lo si frazioni nel modo che segue: «il giudice comune non resta relegato nella posizione di mero esecutore o di recettore passivo del comando contenuto nella pronuncia del giudice Europeo, poiché una tale subordinazione finirebbe per violare la funzione assegnatagli dall'art. 101 Cost., comma 2, ed eludere il principio che ne prevede la soggezione soltanto alla legge e non ad altra fonte autoritativa, principio che non soffre eccezioni neppure in riferimento alle norme della CEDU, che hanno valenza nell'ordinamento interno grazie ad una legge ordinaria di adattamento». Chissà se questo “principio” vale in senso assoluto e, dunque, anche con riferimento alle decisioni emesse da altri Giudici – quelli italiani – in altri casi pur decisi da altre Sezioni Unite. Sentenza Bajrami compresa. Non si dimentica certo – anzi si esalta – la bellezza di questo pensiero: «pecca di eccessiva astrazione l'opinione di chi pretenda che il giudice si distacchi completamente dal tessuto sociale, politico e culturale in cui si trova ad operare. Al contrario la giurisprudenza si caratterizza, ed è necessario che si caratterizzi, proprio per la sua natura pratica e la sua capacità di adattarsi alle nuove necessità e dinamiche sociali (…)» (A. Benigni, Ribadito dalla Corte costituzionale il principio di necessaria offensività del reato, in Cass. pen., 2001, p. 993). Nulla quaestio. Ma nulla più e nulla di diverso. Ed ancora: «Il giudice nazionale dispone quindi di un margine di apprezzamento del significato e delle conseguenze della pronuncia della Corte EDU, purché ne rispetti la sostanza e la stessa esprima una decisione che si collochi nell'ambito del diritto consolidato e dell'uniformità dei precedenti, mentre “nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo” (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009). Ha avvertito la Consulta che l'esigenza di rispettare indicazioni esegetiche conformi e costanti, stabili rispetto ad altre pronunce della stessa Corte sovranazionale, nasce dalla constatazione della vocazione casistica dei suoi interventi decisori, legati alla situazione concreta esaminata e del loro flusso continuo di produzione in riferimento ad una pluralità e varietà di corpi legislativi di riferimento; non dipende, pertanto, dalla negazione della natura vincolante delle pronunce emesse dalle singole sezioni, piuttosto che dalla Grande Camera, quanto dalla necessità di individuare un pronunciamento che non sia isolato o contraddetto da altri di segno diverso (Corte Cost., sent. n. 236 del 2011; n. 49 del 2015)». Vero. Ma riecheggiano le parole scritte dallo stesso Estensore, alla luce dell'orientamento siglato dalla Grande Camera nel caso Scozzari e Giunta c. Italia, cit., seguito dalle altre riportate ivi sub nota n. 3 – dunque… consolidato – e che si reputa opportuno ricordare nuovamente: «Oltre a tale strumento, è oggetto di formale riconoscimento normativo anche il diverso caso, in cui la pronuncia della Corte sovranazionale assume un rilievo ed una portata generali, perché, sebbene priva dei caratteri propri della sentenza pilota e non emessa all'esito della relativa formalizzata procedura, accerta una violazione di norme convenzionali in tema di diritti della persona, suscettibile di ripetersi con analoghi effetti pregiudizievoli nei riguardi di una pluralità di soggetti diversi dal ricorrente, ma versanti nella medesima condizione». Sic. Ci si domanda, ancora, quale sia il peso specifico da attribuire alla assunta «situazione concreta esaminata» – per tale intendendosi, probabilmente, il background socio-culturale di Bruno Contrada che però nessun peso specifico poteva né può avere sulla configurabilità/esistenza a monte di un reato α/ω – ed a quale «flusso continuo di produzione (in merito alla) pluralità e varietà di corpi legislativi» ci si riferisca, se non a quello italiano. Le Sezioni Unite sembrano segnare, piuttosto, un autogol laddove così continuano: «Del resto, è l'art. 28, comma 1 lett. b), come modificato dal Protocollo addizionale n. 14 della CEDU, a conferire un maggiore grado di autorevolezza e di capacità persuasiva alle pronunce espressive di un principio consolidato, tanto da consentire che la decisione sul ricorso individuale sia adottata da un comitato di tre giudici, anziché da una Camera nella composizione ordinaria di sette giudici (…)». Appunto. Sicché, a contrario, ciascuna delle sentenze emesse della Corte Edu – proprio perché vocata alla tutela dei diritti umani – “ha da esser” rispettata. Scarsamente utile (in parte qua) appare anche la citazione dei criteri negativi individuati dalla Corte costituzionale, «consapevole delle difficoltà per il singolo interprete di riconoscere nel contesto della giurisprudenza Europea sui diritti fondamentali un orientamento contrassegnato da adeguato consolidamento» e che sono i seguenti: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza Europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l'avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice Europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano” (sent. n. 49/2015). La ricorrenza di tutti o di alcuni di tali indici svincola il giudice comune dal dovere di osservanza della linea interpretativa adottata dalla Corte EDU nella risoluzione della singola fattispecie concreta». Orbene, in disparte il dissenso rispetto a quest'ultimo inciso e già contenuto nelle esternazioni sopra svolte, ci si limita ad osservare quanto segue:
Si giunge al punto 5 del Considerato in diritto, ove si sostiene che quest'ultima «Esprime (…) il giudizio finale di violazione dell'art. 7 CEDU in termini strettamente individuali, ma senza specificare se la trasgressione rilevata riguardi il primo o il secondo periodo dell'art. 7, p. 1, ossia se risieda nell'accertamento in sé di responsabilità penale, oppure nel titolo e nella connessa punizione, come pare potersi dedurre dal seguente inciso conclusivo della motivazione, secondo cui “Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti” (p. 74, cit.)». Non è vero. Si riporti per l'ennesima volta il relativo passaggio svolto proprio nei paragrafi 74-75 della relativa motivazione: «74. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. 75. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti (Del Rio Prada [GC], sopra citata, §§ 79 e 111- 118, a contrario, Ashlarba c. Georgia, n. 45554/08, §§ 35-41, 15 luglio 2014, a contrario, Rohlena, § 50, sopra citata e, mutatis mutandis, Alimuçaj c. Albania, n. 20134/05, §§ 154- 162, 7 febbraio 2012). 76. La Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione». Quindi, concludono le Sezioni Unite sul punto: «Infine, la sentenza non è corredata da una qualsiasi indicazione in ordine ai rimedi adottabili, suscettibili di applicazione individuale a favore del ricorrente vittorioso, oppure generalizzata nei riguardi di soggetti protagonisti di casi identici o similari per prevenire il futuro ripetersi di violazioni analoghe a quella accertata». Vero. Ma sulla inesattezza ed incompletezza procedurale della sentenza emessa dalla Corte Edu, così come sulla agevole superabilità di tale deficit, si è già detto. Le Sezioni Unite lo hanno già detto. A questo punto, sub 5.1, si affronta il tema (veramente) centrale della questione: se, cioè, «alla pronuncia in esame possa assegnarsi portata generale, secondo quanto previsto dal citato art. 61, comma 9 e se vi sia ricavabile il riscontro di una carenza di ordine strutturale nel sistema giuridico italiano, derivante dal testo delle norme di legge pertinenti, lesiva dell'interesse non soltanto del singolo ricorrente, ma di una pluralità di soggetti trovatisi nella medesima situazione processuale». Ed ecco cosa si scrive sub 5.2: «A ben vedere (…) il giudizio espresso nella sentenza Contrada si sviluppa, sia sul piano oggettivo, allorché rileva la carenza di sufficiente chiarezza del reato, sia al contempo su quello soggettivo per la ritenuta imprevedibilità dell'incriminazione delle condotte compiute e della loro punizione da parte dell'imputato alla stregua dell'andamento del processo di cognizione, delle difese articolate e dei contenuti motivazionali delle decisioni susseguitesi. Come puntualmente osservato nella citata sentenza Dell'Utri del 2016, la Corte EDU “pur evidenziando le criticità derivanti dalla tumultuosa evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa non realizza - a ben vedere - una considerazione generalizzata di illegittimità convenzionale di qualsiasi affermazione di responsabilità, per fatti antecedenti al 1994, divenuta irrevocabile”. Tale considerazione, che si condivide perché aderente alle statuizioni della pronuncia, priva dell'indicazione di misure ripristinatorie, impersonali ed universali, sarebbe già in sé sufficiente per negare l'efficacia estensiva della decisione Contrada nei riguardi di altri condannati per la medesima fattispecie di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ravvisata per comportamenti agevolativi dell'organizzazione, realizzati prima dell'anno 1994». Orbene, anche in questo caso, ci si permetta di scandagliare i frammenti considerati da chi scrive di maggiore incidenza:
Per niente (davvero) giova (alla solidità dell'impianto motivo delle Sezioni Unite odierne) ribadire che la sentenza in esame «non costituisce espressione di un diritto consolidato (…). Non risultano, infatti, in precedenza, ma nemmeno dal 2015 ad ora, ulteriori decisioni di accoglimento di ricorsi proposti da soggetti, condannati dallo Stato italiano per la identica fattispecie di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p. (…). Ed anche il ricorso proposto da Marcello Dell'Utri in data 30 dicembre 2014 per far valere analoga violazione, sovrapponibile a quella del Contrada, a distanza di oltre cinque anni è tuttora pendente e non è stato deciso». Ed ancora, le Sezioni Unite riferiscono che: «In numerose pronunce, sia precedenti, che successive a quella resa nei confronti del Contrada, è accolta la concezione soggettiva della prevedibilità, apprezzata in riferimento ad attività professionali, qualifiche ed esperienze individuali, dalle quali si è ricostruito il dovere per l'imputato, nonché la materiale possibilità, di conoscere l'illiceità penale dei comportamenti che aveva in animo di tenere, nonostante la relativa proibizione non fosse stata ancora trasfusa in un testo normativo o non fosse stata oggetto di precedenti interpretazioni giudiziali (Corte EDU, 01/09/2016, X e Y c. Francia; 6/10/2011, Soros c. Francia; 10/10/2006, Pessino c. Francia; 28/03/1990, Groppera Radio AG c. Svizzera). In altre situazioni la Corte Europea ha fatto ricorso, non al patrimonio di conoscenze personali del soggetto giudicato, ma al dato formale del contenuto precettivo della legge, puntuale e determinato, e dell'interpretazione giudiziale già formatasi in precedenza (Corte EDU, 26/04/1979, Sunday Times c. Regno Unito; 25/05/1993, Kokkinakis c. Grecia; GC, 15/11/1996, Cantoni c. Francia; GC, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna). In altre ancora è stata oggetto di valutazione l'evoluzione della considerazione sociale del comportamento come antigiuridico, ritenendo prevedibile l'incriminazione persino se in contrasto con un testo normativo dal tenore liberatorio e pur in assenza di indicatori orientativi oggettivi (Corte EDU, 22/11/1995, S.W. c. Regno Unito e C.R. c. Regno Unito; 24/05/1988, Muller c. Svizzera)». Che la Corte di Strasburgo abbia applicato in precedenza – ed in procedimenti altri e diversi dal caso Contrada – criteri (quantomeno) opinabili non lo si può mettere in discussione. Tuttavia, anche quanto, come e perché è stato affermato nel caso Contrada non può essere considerato dubbio. Vicenda che sarà anche stata definita (per la “precisa” qualità della materia) con «inedito rigore» ma che, sebbene inedito, è di rigore, validità ed efficacia indiscutibili. Ed è per questo motivo che ci si dissocia integralmente da quanto ivi aggiunto: «la vicenda Contrada (…) avrebbe conseguito un ben diverso epilogo, se soltanto fosse stata apprezzata alla luce del criterio soggettivo o di quello basato sulla considerazione sociale» e «l'inedito rigore (…) si contraddistingue, oltre che per il metro di apprezzamento della prevedibilità, anche per il fatto di avere superato i rilievi in precedenza ed anche in seguito espressi sul necessario ruolo evolutivo e specificativo da assegnare all'interpretazione giurisprudenziale, quale fattore ineliminabile di progressiva chiarificazione delle regole legislative e di possibile violazione dell'art. 7 CEDU soltanto quando non congruente con l'essenza del reato e sviluppo non conoscibile rispetto alla linea interpretativa già affermata. La Corte EDU aveva in precedenza sostenuto: “per quanto chiaramente formulata sia una previsione, in ogni sistema legale, ivi incluso il diritto penale, esiste un inevitabile elemento di interpretazione giudiziale. L'art. 7 della Convenzione non può essere inteso nel senso che pone fuori dal quadro convenzionale la graduale chiarificazione delle regole relative alla responsabilità penale attraverso l'interpretazione giudiziale, in relazione ai casi concreti, quante volte lo sviluppo conseguente sia coerente con l'essenza dell'incriminazione e possa essere ragionevolmente previsto” (S.W. c. Regno Unito, citata, p. 36). Analoghi concetti erano stati espressi nella nota sentenza della Grande Camera, 21/10/2013, Del Rio Prada c. Spagna (si vedano altresì Kokkinakis, sopra citata, p. 40, e Cantoni, sopra citata, p. 31), con la quale la medesima Corte aveva ravvisato la violazione dell'art. 7 CEDU a ragione di un improvviso mutamento giurisprudenziale nel diniego di benefici penitenziari, che, per la sua subitaneità ed il contrasto con le prassi applicative a lungo osservate in precedenza, non era “equivalso a un'interpretazione del diritto penale che seguiva una linea percettibile dello sviluppo giurisprudenziale” (p. 115). Indicazioni conformi sono leggibili nelle pronunce della Grande Camera, 22/03/2001, Streletz, Kessler e Krenz c. Germania (p. 50 e 82) e 17/05/2010, Kononov c. Lituania (p. 185) e, proprio in riferimento a questioni insorte in riferimento all'ordinamento giuridico italiano, 17/9/2009, Scoppola c. Italia, mentre anche la recente pronuncia, resa il 17/10/2017 nel caso Navalnyye c. Russia, si è posta nel solco di quelle sopra citate». A questo proposito, urge sottolineare quanto segue:
Ed ecco cosa la Suprema Corte puntualizza sub 6.1: «è singolare (…) l'affermazione circa la “creazione giurisprudenziale” della fattispecie. L'errore che vi si annida, indotto dalla concorde deduzione delle parti, non riguarda tanto l'individuazione del formante della regola applicata, pronuncia giudiziale in luogo di atto legislativo, che di per sé non si concilia col principio, proprio dell'ordinamento nazionale, di riserva di legge di cui all'art. 25 Cost., comma 2, e crea insormontabili difficoltà di adattamento al sistema di legalità interno, in cui la giurisprudenza ha soltanto una funzione dichiarativa (Corte Cost., sent. n. 25 del 2019) e di cui la Corte Europea pare non essersi avveduta, quanto piuttosto la totale pretermissione della considerazione della base legislativa dalla quale muoveva l'interpretazione poi accolta dalle Sezioni Unite D. La configurabilità come reato del concorso esterno in associazione mafiosa non è stato l'esito di operazioni ermeneutiche originali e svincolate dal dato normativo, operate dalla giurisprudenza di legittimità ex abrupto in termini innovativi rispetto allo spettro delle soluzioni praticabili già affermate; al contrario, discende dall'applicazione in combinazione di due disposizioni già esistenti nel sistema codicistico della legge scritta, pubblicata ed accessibile a chiunque, ossia degli artt. 110 e 416-bis c.p. (…). Come evidenziato in dottrina e da sez. 1, n. 44193 del 11/10/2016, Dell'Utri, Rv. 267861, tale esito è stato il portato di una riflessione teorica, che, dall'epoca postunitaria, si è sviluppata mediante plurimi riconoscimenti giudiziari dell'ammissibilità del concorso nel reato a plurisoggettività necessaria a fronte di condotte in vario modo agevolatrici (…). Tale percorso era giunto già nel corso degli anni ottanta del secolo scorso a riferire i medesimi concetti anche alla fattispecie di associazione di stampo mafioso, introdotta nell'ordinamento dalla L. 13 settembre 1982, n. 646, in relazione a fenomeni di contiguità con la mafia, aventi come protagonisti soggetti non formalmente affiliati, ma di estrazione imprenditoriale, politico-amministrativa o appartenenti alle forze dell'ordine: in tal senso si erano espresse la sentenza sez. 1, n. 3492 del 13/06/1987, dep. 1988, Altivalle, Rv. 177889 ed altre coeve e successive, ma antecedenti alla pronuncia D. Inoltre, la prima decisione del giudice di legittimità ad avere esaminato l'ipotesi del concorso esterno (Sez. 1, n. 8092 del 19/01/1987, Cillari, Rv. 176348), aveva rielaborato principi già affermati dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nei precedenti decenni a partire da Sez. 1, n. 1569 del 27/11/1968, dep. 1969, Muther, Rv. 111439. I superiori rilievi convincono che i contrasti interpretativi, considerati dalla Corte EDU, non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso, ritenute integrare la fattispecie del concorso esterno, ma al contrario costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell'incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall'agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale». Tale ricostruzione è, lo si confessa, affascinante e quasi convincente. Non convince, però, per una serie di considerazioni compendiate nel seguente brocardo: Nullum crimen, nulla poena, sine praevia lege poenali, scripta et stricta, sineque iniuria. Detto con maggiore impegno esplicativo, se il principio di determinatezza del precetto penale – quale che ne sia il formante – non è inutile orpello ma immanente corollario del principio di legalità, non si può pretendere che il singolo orienti la propria condotta, senza sapere – prima e con precisione – se la sua condotta rientrerà o meno nell'alveo della illiceità penale. Non è così corretto affermare che la interpretazione e l'applicazione del dato normativo da parte del Giudice hanno (solo) funzione dichiarativa, anche e soprattutto tenuto conto del fatto che il substrato del reato di “concorso esterno in mafia” è il combinato disposto degli artt. 110 e 416-bis c.p. Se così fosse, qualsiasi forma di concorso doloso potrebbe generare un “concorso esterno” in X-reati. Chissà se è un caso, poi, che in calce al punto 6.4 si faccia riferimento alla «funzione di “mediazione accertativa della giurisprudenza, nel senso che deve riconoscersi ai giudici un margine di discrezionalità, che comporta una componente limitatamente “creativa” della interpretazione, la quale, senza varcare la “linea di rottura” col dato positivo ed evadere da questo, assume un ruolo centrale nella precisazione del contenuto e della latitudine applicativa della norma e assolve sostanzialmente una funzione integrativa della medesima” (Sez. U. n. 18288 del 12/01/2010, Beschi, Rv. 246651)». Facendo un passetto indietro verso il punto6.2 si legge: «È altresì sfuggito alla considerazione dei giudici Europei che, sia la citata sentenza Cillari, sia quelle successive pur richiamate nella sentenza Contrada, ovvero Sez. 1, n. 8864 del 21/03/1989, Agostani, Rv. 181648; Sez. 1, n. 2342 del 18/05/1994, Abbate, Rv. 198327 e Sez. 1, n. 2348 del 18/05/1994, Clementi, Rv. 198329, avevano risolto negativamente il tema dell'autonomia concettuale del concorso eventuale nel delitto associativo mafioso, ma non perché le condotte di agevolazione o comunque di ausilio alla vita ed all'operato dell'organizzazione, compiute dall'estraneo, fossero ritenute integrare comportamenti leciti e quindi da mandare esenti da responsabilità, ma perché ricomprese nella nozione di partecipazione, penalmente rilevante e punibile e ravvisata in tutti i casi in cui il soggetto prestasse un contributo all'organizzazione (…). In base agli arresti giurisprudenziali e dottrinali dell'epoca di commissione dei fatti ascritti al ricorrente G. le conseguenze giuridiche del comportamento, causalmente rilevante e volto al consolidamento ed al mantenimento in essere della organizzazione mafiosa, ipotizzabili anche con l'assistenza di consulenti giuristi da parte dell'agente nel periodo antecedente la sentenza D., comportavano la sua incriminazione quale delitto, potendo variare soltanto la definizione giuridica tra le due opzioni della partecipazione concorsuale piena da un lato e del concorso eventuale o del favoreggiamento personale, continuato ed aggravato ai sensi della L. n. 203 del 1991, art. 7 dall'altro. Contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, non potevano residuare dubbi o insuperabili incertezze sul carattere illecito della condotta e sulla sua rilevanza penale, sicché l'unico esito non prevedibile in quel contesto interpretativo della fattispecie era l'assoluzione, senza riflessi pregiudizievoli nemmeno sotto il profilo sanzionatorio, stante l'invariata punizione della partecipazione del concorrente necessario e dell'apporto del concorrente eventuale. Il che è tanto più vero nel caso del G., al quale, a differenza che per la posizione del Contrada, nel processo di cognizione erano state ascritte plurime condotte, poste in essere in un arco temporale protrattosi sino al febbraio 1994, ossia sino a pochi mesi prima dell'intervento delle Sezioni Unite con la sentenza D., quando il dibattito tra gli interpreti aveva già ben delineato la fattispecie di concorso esterno poi ravvisata a suo carico». Non è vero. Chi si trova a difendere un imputato per mafia sa perfettamente quale differenza vi sia – e, dunque, quale peculiarità di danno – derivi al proprio assistito da una (eventualmente ingiusta) condanna per partecipazione ad associazione di stampo mafioso, piuttosto che per concorso esterno. Non si tratta “semplicemente” del quantum di pena – ché, poi, le aggravanti di cui ai commi 2, 4 e 6 dell'art. 416-bis c.p., a stretto rigore, solo al partecipe e non già al concorrente esterno si potrebbero applicare – ma anche del peso specifico pro futuro di una sentenza di condanna per partecipazione – anziché per mero e circoscritto concorso esterno – anche in altri procedimenti relativi alle medesime cosche di appartenenza dell'indagato/imputato, ulteriormente iscritti nell'R.G.N.R. e già dotati di un R.G.T. Merita, poi, una considerazione dedicata la seguente esternazione motiva, frutto dell'abbinamento dei superiori passaggi: «(…) i contrasti interpretativi, considerati dalla Corte EDU, non avevano pregiudicato la possibilità di comprendere e conoscere la possibile punizione per le condotte agevolatrici o di rafforzamento di una formazione di stampo mafioso, ritenute integrare la fattispecie del concorso esterno, ma al contrario costituivano il fondamento giuridico di un dovere di informazione mediante qualsiasi utile accertamento, e, nella persistenza dell'incertezza, di astensione in via prudenziale e precauzionale dalla commissione di comportamenti, che vi era il rischio incorressero nella contestazione dello stesso reato, rischio tanto più percepito con chiarezza dall'agente quanto più specifico il patrimonio di conoscenze ed esperienze individuali di tipo professionale e relazionale»; «In base agli arresti giurisprudenziali e dottrinali dell'epoca di commissione dei fatti ascritti al ricorrente G. le conseguenze giuridiche del comportamento, causalmente rilevante e volto al consolidamento ed al mantenimento in essere della organizzazione mafiosa, ipotizzabili anche con l'assistenza di consulenti giuristi da parte dell'agente nel periodo antecedente la sentenza D., comportavano la sua incriminazione quale delitto». Il divieto penale esiste o non esiste, non è accettabile che – nel dubbio riguardo alla imprevedibile interpretazione del caso concreto e specifico da parte dell'A.G. che ne sia stata investita – il singolo abbia il dovere (cieco) di astenersi, “aggravato” dal suo patrimonio conoscitivo in uno all'obbligo di rivolgersi a “consulenti giuristi” (per vero, citati anche dalla Corte Edu nel paragrafo 60). Il precetto deve essere sufficiente a se stesso e per chiunque. La legge è uguale per tutti. Si perdoni la monotonia ma… tant'è. Ché, poi (ma la si consideri riflessione ad alta voce), cosa sarebbe accaduto se i consulenti giuristi – che un imputato avveduto, colto e facoltoso avrebbe facilmente potuto nominare e compulsare – avessero redatto un “parere pro veritate” sbagliato? Si sarebbe potuto configurare un concorso colposo in reato doloso? Suvvia, non ci si attardi in questi ragionamenti farraginosi, ormai decisamente vintage. Perché vintage lo sono, sì, ma solo all'indomani delle Sezioni Unite Demitry. Sennonché, è solo al punto 6.5 che si rinviene la vera chiave di lettura (sommessamente: sbagliata) delle Sezioni Unite nei termini che seguono: «Concetti non dissimili sono stati espressi più di recente dalla Grande Camera della Corte EDU nella citata sentenza G.I.E.M. c. Italia, per la quale, come già affermato nel precedente arresto 20/01/2009, Sud Fondi s.r.l. ed altri c. Italia, l'art. 7 della Convenzione, pur senza menzionare testualmente “il legame morale esistente tra l'elemento oggettivo del reato e la persona che ne è considerata l'autore” (p. 241), lo presuppone. Infatti, la logica della punizione e la nozione di colpevolezza autorizzano a ritenere che l'art. 7 pretenda, per poter infliggere la pena, “un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di rilevare un elemento di responsabilità nella condotta dell'autore materiale del reato”, così riconoscendo la “correlazione tra il grado di prevedibilità di una norma penale e il grado di responsabilità personale dell'autore del reato” (p. 242)». Così opinando, si… sovrappone (in modo errato) il piano della componente psicologica del reato con la esistenza a monte del precetto penale solo previa definizione precisa del quale il reato stesso può essere considerato (astrattamente) sussistente. Detto anche in tal caso con maggiore impegno esplicativo, l'art. 7 CEDU – così come il sostanzialmente identico art. 25, comma 2, Cost. it. – fanno riferimento al reato, tant'è che il legislatore ha ritenuto necessario coniare norme quali (soprattutto) quelle degli artt. 42-49 c.p. Non si condivide, perciò, la seguente affermazione: «Può dunque concludersi che la Corte Europea ha ricondotto al principio di legalità convenzionale quella nozione di prevedibilità che la giurisprudenza costituzionale italiana aveva già riconosciuto, pur se correlata al principio di colpevolezza, in termini altrettanto funzionali per la garanzia del cittadino, ma che non possono assumere rilievo per la soluzione del caso rimesso alle Sezioni Unite: l'apprezzamento di un errore incolpevole dell'imputato, indotto dalla pretesa oscurità o incertezza del dato normativo e della sua interpretazione, dovrebbe tradursi nella rivisitazione del giudizio ricostruttivo del fatto di reato e dell'atteggiamento soggettivo dell'autore, operazione preclusa dalla già avvenuta formazione del giudicato, quindi non conducibile nella fase esecutiva, tranne che non ricorrano i presupposti di attivazione della revisione speciale di cui all'art. 630 c.p.p., che nella presente vicenda non ricorrono per quanto già esposto». Il principio di colpevolezza è secondario – logicamente e cronologicamente – rispetto al principio di legalità. Solo se un reato preeesiste in modo certo, chiaro ed oggettivo per chiunque ci si può occupare del profilo psicologico; questo, se ritenuto processualmente sussistente, varrà l'assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”. Se il reato non esisteva all'epoca in cui il fatto è stato commesso ma l'individuo – chiunque si sia trovato nella stessa situazione – è stato processato e condannato, tale condanna “ha da esser” cancellata. È questo quel che chiaramente consegueda quanto ha dichiarato la Corte di Strasburgo il 14 aprile 2015. Lo strumento per la riparazione non è stato indicato in sentenza. Peccato veniale della Corte Edu Vero. Emendabile con l'incidente di esecuzione disciplinato dall'art. 673 c.p.p. Nessun altro strumento. Incidente di costituzionalità incluso perché assolutamente non necessario. D'altronde si sa: i Giudici interni sono i primi guardiani della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Aren't they? |