Rito abbreviato in sede di continuazione: un passe-partout della diminuente di pena anche per i reati giudicati con rito ordinario?

Enrico Campoli
12 Settembre 2018

Se l'applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e altri giudicati con rito abbreviato comporti che soltanto a questi ultimi debba essere applicata la riduzione...
1.

Ponendo alla base del calcolo della continuazione la pena più grave applicata in relazione ad uno dei reati oggetto del procedimento con rito abbreviato, - e ciò nel rispetto del canone normativo di cui all'art. 187 att. c.p.p., la Corte d'appello, nel riconoscere il medesimo disegno criminoso con i reati satellite dello stesso e di altre due sentenze, già passate in giudicato – quest'ultime, però, emesse, all'esito di giudizio ordinario –, applicava la diminuente per il rito, di cui all'art. 442, comma 2, c.p.p., solo in relazione ai primi.

La difesa del condannato, in sede di legittimità – richiamandosi ad un preciso indirizzo di legittimità espresso nella sentenza n. 37845/2015 della terza sezione e formulando, in subordine, la richiesta di rimessione della questione alle Sezioni unite –, lamentava, appunto, che nel calcolare la pena (finale) i giudici, una volta riconosciuta la continuazione tra i reati del procedimento pendente, oggetto di rito abbreviato, e quelli dei due giudicati, oggetto di giudizio ordinario, avrebbero dovuto applicare la diminuente del terzo non solo in relazione ai primi bensì sulla pena complessiva, così come questa determinata dagli aumenti per tutti gli altri reati, ivi compresi quelli oggetto del rito ordinario.

L'incidenza della diminuzione di pena «per il giudizio abbreviato quando si pongono in continuazione reati giudicati con quest'ultimo e reati giudicati con il rito ordinario» costituisce una situazione controversa di rilevante spessore atteso che dalla prevalenza dell'uno o dell'altro orientamento discendono, ben differenti, effetti in merito alla pena da applicare in concreto.

Stando alla situazione presa in esame dai giudici di legittimità, difatti, nel primo caso, quando cioè la diminuente viene presa in considerazione solo in relazione ai reati giudicati con rito abbreviato – in aderenza a quanto sostenuto, da Cass. pen., Sez. I, n. 17890/2017; Cass. pen., Sez. V, n. 47073/2015 – alla pena inferta per il reato più grave (art. 74 d.P.R. 309/1990) di ventiquattro anni di reclusione, una volta applicati gli aumenti «di un terzo per la recidiva ad anni trentadue» e della «continuazione con i reati satellite del presente procedimento sub a) ed e) ad anni trentotto, temperata ex art. 78 c.p. ad anni trenta», consegue, dapprima, ridotta per il rito, una sanzione ad anni venti e, quindi, gli aumenti, ex art. 81, comma 2, c.p., in merito ai reati giudicati con rito ordinario, (tre anni per ciascuno), con«una pena complessiva di anni ventisei di reclusione» mentre, laddove la diminuente viene calcolata a valle di tutti gli aumenti di pena, ivi compresi quelli relativi ai reati giudicati con rito ordinario, la pena, nel caso di specie, non potrà mai essere superiore ai venti anni di reclusione atteso il principio di temperamento sopra menzionato che, com'è noto, trova applicazione quando gli aumenti per la continuazione comportano una pena superiore ai trenta anni di reclusione.

La ragione posta a fondamento dell'orientamento “restrittivo” verte, prevalentemente, sulla circostanza che l'incentivo premiale non può che essere circoscritto ai reati per i quali l'imputato ha svolto tale opzione non trovando alcuna giustificazione un trattamento sanzionatorio onnicomprensivo in ordine a reati per i quali non si è fatto accesso al rito speciale.

Sebbene, non esplicitamente espresso, va, altresì, evidenziato che, paradossalmente, l'estensione della premialità finirebbe per risultare “servente” rispetto ad un uso strumentale del rito a prova contratta atteso che il soggetto, colpito da più procedimenti, verrebbe messo nella condizione di sacrificare il suo diritto alla prova solo in relazione ad uno di essi conseguendone, sempre e di diritto, in caso di successivo riconoscimento della continuazione, una totale copertura premiale.

A tale orientamento, come già anticipato, se ne contrappone in sede di legittimità, altro secondo cui laddove in fase di continuazione, sia essa applicata in sede di cognizione che di esecuzione, quando il reato con la pena più grave è stato giudicato con rito ordinario e quelli satellite con rito abbreviato è solo su quest'ultimi che andrà applicata la diminuente per il rito mentre nel caso contrario, allorquando il reato più grave è stato giudicato con rito abbreviato, la diminuente per il rito dovrà applicarsi all'esito di tutti gli aumenti, a prescindere dal fatto che essi siano oggetto di due riti diversi.

L'ancoraggio di tale opzione ermeneutica viene individuato in una pronuncia delle Sezioni unite (n. 45583/2007) nella quale si è sostenuto che l'applicazione della diminuente di pena per il rito è «operazione commisurativa – giusto il dettato degli artt. 442, comma 2, c.p.p. e 533, comma 2, c.p.p. – che si colloca a valle delle altre, ivi compresa di quella ex art. 81, comma 2, c.p.» in quanto, come affermato in altra pronuncia, sempre del massimo consesso di legittimità (Cass. pen., Sez. unite, n. 7682/1986), l'applicazione della continuazione comporta una riconsiderazione del fatto solo al fine di stabilirne l'appartenenza ad un medesimo disegno criminoso restando sì precluso ogni giudizio sullo stesso «ma non la rettificazione del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna».

Ed è proprio sulla scia di tali affermazioni che si sostiene, pertanto, che «con riguardo alla condanna concretamente inflitta, la commisurazione delle singole componenti della pena complessiva attiene ad una fase precedente la deliberazione finale» tanto da poter ritenere che «l'operazione riduttiva per la scelta del rito costituisca un posterius rispetto alle altre, ordinarie, operazioni di dosimetria della pena che la legge attribuisce al giudice». Cass. pen., Sez. III, n. 37848/2015.

Alla luce dei due orientamenti – ve n'è, invero, anche un terzo, sostanzialmente neutro rispetto alle due opzioni rappresentate –, e delle conseguenze concrete che essi comportano, occorre, qui, sottolineare che il quesito rimesso alle Sezioni unite racchiude, potenzialmente, entrambe le situazioni processuali che possono venire a crearsi, e cioè sia quella in cui si è in fase di esecuzione (con entrambi i reati, sia quelli oggetto di rito ordinario che quelli di rito abbreviato, già giudicati) e sia quella in cui alcuni siano sub judice ed altri già oggetto di sentenza definitiva.

Ebbene, nella decisione delle Sezioni unite (n. 45583/2007), richiamata dall'ordinanza di rimessione – ed avente ad oggetto, invero, tutti reati giudicati con rito abbreviato –, è stata affrontata una questione solo parzialmente sovrapponibile, e cioè «se la riduzione di pena per il giudizio abbreviato debba essere eseguita dal giudice dopo la determinazione della pena effettuata in applicazione della disciplina del cumulo materiale e, in particolare, della disposizione dell'art. 78 c.p., per la quale non può essere superato il limite di trent'anni».

Con essa è stato sì affermato che se i reati sono giudicati nello stesso processo l'applicazione della disciplina sostanziale deve trovare applicazione prima della diminuente per il rito ma si è anche precisato che l'argomento della disparità di trattamento tra l'ipotesi in cui il concorso di pene emergesse in sede di cognizione e l'ipotesi in cui, invece, emergesse in sede di esecuzione non coglie nel segno attesa la non sovrapponibilità degli istituti e la razionalità della diversa disciplina.

Si è avuto modo, difatti, in quella sede, di precisare che «ai fini dell'esecuzione di “pene concorrenti”, stabilisce l'art. 663, c.p.p., comma 1, in perfetta sintonia con il disposto dell'art. 80 c.p. che quando la stessa persona è stata condannata con più sentenze o decreti penali per reati diversi, il pubblico ministero determina la pena da eseguirsi, in osservanza delle norme sul concorso di pene. Di talché, nell'assoluto difetto di previsione derogatoria nelle disposizioni del decimo libro del codice di rito, stante il canone d'intangibilità del giudicato e il carattere eccezionale della potestà del giudice dell'esecuzione, tassativamente circoscritta ai soli casi previsti dalla legge, in punto di rideterminazione della pena, la diminuente del rito speciale è applicabile dal giudice della cognizione ma non può mai essere applicata nel procedimento di esecuzione di pene concorrenti, inflitte al medesimo imputato in distinti ed autonomi procedimenti».

Anche questa impostazione – palesemente ostica ad essere asservita ad una tesi del tutto opposta –, ove la si volesse avallare presta il fianco a critiche, sia pure di portata diversa, in quanto ove così fosse, ed ove le Sezioni unite non dovessero dare spazio all'interpretazione estensiva, permane sia una situazione di disparità che un inevitabile effetto incentivante alle impugnazioni in quanto solo in presenza di reati ancora sub judice potrebbe derivare il beneficio della premialità.

È per tutte le ragioni sin qui dettagliatamente esposte che la decisione che i giudici del massimo consesso di legittimità dovranno assumere in merito al quesito rimesso – consapevolmente proposto dalla Sezione remittente con una formula ampia –, finisce per avere un'inevitabile, e dirimente, portata estensiva sull'intera questione delle conseguenze, in sede di cognizione e di esecuzione, dell'applicazione, in sede di continuazione, della concreta portata della diminuente di pena nel rito abbreviato anche in merito ai reati giudicati con rito ordinario.

2.

All'udienza del 7 dicembre 2017 – decisione depositata il 13 dicembre 2017 –, la quinta Sezione penale della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni unite la seguente questione, oggetto di contrasto giurisprudenziale :

«se l'applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri giudicati con rito abbreviato comporti che soltanto a questi ultimi – siano essi reati satellite o violazione più grave –, debba essere applicata la riduzione di un terzo della pena a norma dell'art. 442, comma 2, c.p.p.».

3.

Il Primo Presidente della Corte di cassazione ha fissato per il 22 febbraio 2017 la trattazione, davanti alle Sezione unite, della questione controversa:

«se l'applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri giudicati con rito abbreviato comporti che soltanto a questi ultimi – siano essi reati satellite o violazione più grave –, debba essere applicata la riduzione di un terzo della pena a norma dell'art. 442, comma 2, c.p.p.».

4.

All'udienza dell 22 febbraio 2018, le Sezioni unite della Cassazione penale, chiamate a pronunciarsi sulla questione controversa «se l'applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e altri giudicati con rito abbreviato comporti che soltanto a questi ultimi debba essere applicata la riduzione di un terzo della pena a norma dell'art. 442, comma 2, c.p.p.», hanno dato risposta affermativa.

5.

Le Sezioni unite hanno depositato (26 luglio 2018) le motivazioni poste a fondamento della decisione assunta il 22 febbraio 2018, decisione nella quale hanno affermato il principio di diritto secondo cui «l'applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario ed altri giudicati con rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi deve operare la riduzione di un terzo della pena a norma dell'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.».

Il passepartout dell'abbreviato, al fine di ottenere, in sede di continuazione, la riduzione di un terzo della pena, – sia essa riconosciuta in fase di cognizione (art. 533, comma 2, c.p.p.: «il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione») ovvero di esecuzione (art. 671 c.p.p.: «il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato […]»)–, non è estensibile anche ai reati per i quali l'imputato non ha operato la scelta del rito speciale: i giudici del massimo consesso di legittimità, difatti, con la decisione assunta, hanno circoscritto la premialità esclusivamente a quelli per i quali l'opzione è stata svolta, lasciando rigorosamente fuori quelli definiti con rito ordinario.

Il primo tassello del principio di diritto formulato fonda, strutturalmente, il proprio convincimento sulla «natura di diminuente processuale della riduzione prevista dall'art. 442, comma 2, cod. proc. pen.», per come del resto sottolineata sia dalla Corte costituzionale (nn. 277 e 284/1990), – «l'adozione del rito abbreviato col conseguente beneficio, in caso di condanna, della riduzione della pena […] presuppone […] l'impulso costituito dalla richiesta dell'imputato stesso […]» -, che dalle stesse Sezioni unite (n. 7707/1991), sin dalle prime pronunce in cui se ne sono dovute occupare.

Solo in presenza della concreta opzione per il rito speciale, che costituisce implicita rinuncia alle garanzie del dibattimento e possibilità meno ampie di impugnazione - tanto da potersi parlare di “patteggiamento sul rito” -, l'imputato può accedere al beneficio premiale in sede di trattamento sanzionatorio, beneficio che costituisce l'eccezione nel sistema e che per tale ragione non può andare al di là del limite sancito dalla legge a meno di non volere determinare effetti non previsti e, soprattutto, perversi, quale quello della sua estensione anche ai reati in relazione ai quali tale scelta non è stata elaborata nella strumentale consapevolezza che anch'essi ne avrebbero poi, successivamente, usufruito.

“Gioco facile” ha avuto la Corte nello svilire il primo argomento della tesi opposta, - quello del richiamo ai principi della sentenza delle Sez. unite n. 45583/2007 -, atteso che proprio nella stessa pronuncia, si aveva modo di precisare che occorre tenere ben presente la distinzione esistente tra l'operatività della diminuente del rito «in modo identico nei confronti di tutti coloro che si trovano nel medesimo contesto processuale» rispetto alla situazione in cui «si debba procedere al cumulo materiale o giuridico delle pene inflitte per più reati in distinti procedimenti nei quali l'imputato ha, di volta in volta, ritenuto di attivare, o non, la scelta del rito speciale» con l'evidente circoscrizione della limitata efficacia della portata della stessa solo alla prima.

In modo altrettanto semplice si è superato l'argomento (letterale) attinente al richiamo dell'art. 533, comma 2, c.p.p. ritenendolo “improprio”, in quanto l'operatività disposta dall'art. 442, comma 2, cod. proc. pen. avviene a valle di “tutte le circostanze”, ivi compresa la continuazione, in modo funzionale «ad un processo in cui sono stati giudicati tutti i reati riuniti […] al fine di determinare una pena complessiva; non lo è più se alcuni reati sono stati giudicati in separati processi celebrati con rito ordinario” tanto che l'operazione di ricomprendere nel calcolo anche quest'ultimi si risolverebbe “in una ricostruzione che non soltanto è artificiosa, e non ha alcuna base normativa, ma che appare in irriducibile contrato con la natura e la ratio dell'istituto premiale».

La giustizia penale negoziata ha un suo equilibrio, appunto funzionale, nella proporzione costi/benefici che non può essere alterato tracimando, indebitamente, i propri effetti anche nel giudizio ordinario se non creando un'osmosi del tutto impropria e foriera di guasti sistemici irrecuperabili.

Alcun “nuovo processo” può intervenire, in fase di cognizione o di esecuzione, in merito ai reati oggetto di giudizio ordinario se non nella misura della eventuale, e rigorosa, valutazione della sussistenza della continuazione con quelli oggetto di rito speciale: la riduzione di cui all'art. 442, comma 2, deve essere circoscritta a quest'ultimi determinandosi in caso contrario una «violazione del principio di eguaglianza che, come postula trattamento eguale per eguali situazioni, così presuppone trattamenti diversi per diverse situazioni».