Legittimazione ad agire e titolarità del diritto sostanziale dedotto in giudizio

03 Giugno 2016

Nella giurisprudenza di legittimità si era formato un contrasto di non trascurabile importanza pratica in ordine alla natura della contestazione afferente la titolarità del diritto sostanziale fatto valere in giudizio, con conseguenze importanti in ordine alla deducibilità ed al rilievo della stessa. In particolare era controverso se la contestazione da parte del convenuto sulla titolarità del rapporto integrasse un'eccezione in senso stretto, come voleva l'orientamento prevalente, ovvero una mera difesa, proponibile in ogni stato e grado del giudizio.
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La problematica attiene alla qualificazione – con le relative conseguenze in ordine al momento entro il quale la stessa può essere spiegata – della contestazione circa la titolarità del rapporto dedotto in causa in termini di mera difesa, che non subisce preclusioni processuali circa la deduzione ed implica l'onere della parte, la cui titolarità è contestata, di fornire la prova di possederla, ovvero di eccezione in senso tecnico, che deve essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, con l'ulteriore conseguenza che spetta a chi la solleva l'onere di provare la propria affermazione.

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Orientamento favorevole alla qualificazione della contestazione della titolarità del rapporto controverso come mera difesa

In accordo con una prima tesi, di carattere minoritario all'interno della giurisprudenza della S.C., la titolarità attiva o passiva del rapporto controverso, la cui carenza, a differenza di quella concernente la legittimatio ad causam, non è rilevabile d'ufficio, costituisce un requisito di fondatezza della domanda e non una eccezione ad essa, sicché il convenuto che la contesta esercita una mera difesa, senza essere onerato della prova di quanto afferma, sicché l'attore, in quanto soggetto agli ordinari criteri sull'onere probatorio, ex art. 2697 c.c., è esonerato dalla dimostrazione della titolarità del rapporto solo quando il convenuto ne faccia espresso riconoscimento o la sua difesa sia incompatibile con il disconoscimento, in applicazione del principio secondo cui non egent probatione i fatti pacifici o incontroversi (Cass., sez. III, 10 luglio 2014, n. 15759).

L'adesione a questa impostazione implica che la deduzione, ad opera dell'appellato, del proprio difetto di titolarità passiva del rapporto fatto valere in giudizio dall'attore, risolvendosi nella contestazione dei requisiti di fondatezza della domanda, non rientra tra le eccezioni riservate alla parte, ma, integrando una mera difesa, può essere sollevata per la prima volta anche in appello, senza incorrere nel divieto dei nova nel giudizio di gravame, previsto dall'art. 345 c.p.c. (Cass., sez. II, 19 luglio 2011, n. 15832).

Orientamento favorevole alla qualificazione della contestazione della titolarità del rapporto controverso come eccezione

Dominante, peraltro, nella giurisprudenza di S.C. era l'opposta posizione per la quale, poiché la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell'azione diretta all'ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza, ne deriva che, a differenza della legitimatio ad causam (il cui eventuale difetto è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio), intesa come il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l'eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile d'ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, deve essere tempestivamente formulata (cfr. Cass., sez. II, 27 giugno 2011, n. 14177, la quale ha escluso che potesse rilevare come questione di legittimazione ad causam la deduzione, mai effettuata in precedenza dal ricorrente nel corso del giudizio di divisione, dell'avvenuta cessione della quota indivisa dei beni ereditari, da farsi valere, invece, nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte). In altre e più chiare parole, quest'orientamento è incline a tenere distinta dalla legitimatio ad causam la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l'esame d'ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata (v., ex ceteris, Cass., sez. I, 10 gennaio 2008, n. 335).

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La Terza Sezione civile della Corte di cassazione, con ordinanza interlocutoria del 13 febbraio 2015, n. 2977, ha rimesso alle Sezioni Unite la decisione della seguente questione:

  • «la giurisprudenza di legittimità non è unanime in materia di contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio. La tesi minoritaria sostiene che essa costituisce una mera difesa, con le ovvie conseguenze, tra le quali quella che incombe alla parte, la cui titolarità è contestata, fornire la prova di possederla. L'orientamento maggioritario, invece, afferma che contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio costituisce un'eccezione in senso tecnico, che deve essere introdotta nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte, con l'ulteriore conseguenza che spetta alla parte che prospetta tale eccezione l'onere di provare la propria affermazione».
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Nel comporre il contrasto le Sezioni Unite, con la pronuncia n. 2951 del 16 febbraio 2016, prendono le mosse dal tema della legittimatio ad causam, ribadendo la linea di demarcazione con il concetto di effettiva titolarità del rapporto e puntualizzandone la diversa disciplina processuale: aspetti sui quali, peraltro, esiste da tempo un consolidato e uniforme orientamento giurisprudenziale .

Quanto alla legittimatio ad causam la Suprema Corte evoca il “diritto all'azione” - costituzionalmente sancito nell'art. 24 (“Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”) – nella cui cornice si iscrive l'istituto richiamato.

La giurisprudenza l'ha variamente qualificata come condizione dell'azione (o presupposto processuale) (Cass. n. 14177/2011) intesa come diritto potestativo ad ottenere dal giudice una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione della parte, prescindendo dalla effettiva titolarità del medesimo rapporto (Cass., sez. un., n.1912/2012 e Cass. n. 23568/2011).

Nel suo significato più genuino - lo ribadisce la decisione in commento - e ragionando ex art. 81 c.p.c. la legittimazione ad agire serve ad individuare il soggetto che, con riferimento al diritto che assume leso, può pretendere per sé il provvedimento di tutela giurisdizionale domandato nei confronti di colui che è stato chiamato in giudizio.

Il difetto di legittimazione ad agire condurrà ad una conclusione del processo con una pronuncia in rito tutte le volte in cui, dalla stessa prospettazione della domanda, emerga che il diritto azionato in giudizio non appartiene all'attore: tale mancanza è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, anche in sede di legittimità (salvo l'effetto preclusivo del giudicato interno – Cass., sez. un., 1912/2012 - ove la relativa questione abbia formato oggetto in sede di merito di specifica pronuncia non impugnata (Cass. 20978/2013; n. 25573/2009; Cass. n.11837/2007).

La rilevabilità d'ufficio, purché desumibile dagli atti, viene affermata univocamente dalla giurisprudenza, vertendosi in materia di «ordine pubblico attinente alla legittima instaurazione del contraddittorio»e mirando a prevenire una sentenza “inutiliter data- come si legge in Cass., sez. un., n. 1912/2012 - e spettando al giudice verificare la coincidenza del soggetto che esercita l'azione o vi resiste con quello cui la legge riconosce il potere di agire e contraddire in ordine al rapporto giuridico dedotto in lite. In Cass. n. 8969/2015 si precisa addirittura che la negazione della legittimazione ad agire non integra un fatto per il quale opera il principio di non contestazione, di cui all'art. 115, comma 1, c.p.c. ma una eccezione processuale in senso ampio, attinente al contraddittorio, la cui fondatezza va valutata anche d'ufficio dal giudice attraverso l'esame degli atti acquisiti al giudizio.

Peraltro le Sezioni Unite sottolineano altri due importanti aspetti:

a) non si pongono problemi probatori «perché si ragiona sulla base della domanda» e della prospettazione in essa contenuta;

b) la questione non è soggetta a preclusioni «in quanto una causa non può chiudersi con una pronuncia che riconosce un diritto a chi, alla stregua della sua stessa domanda, non aveva titolo per farlo valere in giudizio».

In alcune pronunce è stato precisato che il controllo di ufficio della legitimatio ad causam demandato al giudice non implica il dovere di procedere di ufficio ad atti istruttori ad hoc allorquando le parti si siano presentate in lite dichiarandosi in possesso delle qualità richieste e nessun contrasto sia sorto in proposito ovvero quando la tardività della contestazione non consenta lo svolgimento del contraddittorio sull'argomento, mentre il detto controllo può essere esercitato di ufficio in ogni stato e grado del processo sulla scorta degli elementi acquisiti in causa (Cass. 2201/1982).

La legittimazione va distinta dalla «titolarità della posizione soggettiva oggetto dell'azione» che attiene, invece, al merito della decisione, ovvero alla fondatezza della domanda, che costituisce un elemento costitutivo del diritto fatto valere con l'azione e che l'attore ha l'onere di allegare e provare.

A tale proposito ricorda la Suprema Corte che la contumacia del convenuto con vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte né altera la ripartizione degli oneri probatori (Cass., sez. un., 3 giugno 2015 n.11377)

Pertanto, mentre il giudizio sulla sussistenza della legittimazione (attiva o passiva) va effettuato dal giudice ex ante, unicamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall'azione sulla base della domanda e dei suoi contenuti, la questione di merito, la cui soluzione attiene alla ”titolarità effettiva” del diritto fatto valere è rimessa ex post alla decisione finale del giudicante.

Ribadito, quindi, il necessario distinguo tra legittimazione ad agire e titolarità del diritto controverso, quest'ultimo attinente alla fondatezza della domanda, le Sezioni Unite confutano l'orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo il quale, in quanto attinente al merito, la questione relativa alla titolarità del diritto rientra nel potere dispositivo, quindi, nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata e il relativo difetto non può essere rilevato d'ufficio dal giudice, ma soggiace al regime delle eccezioni in senso stretto (in questi termini anche Cass. n. 2091/2012).

La decisione in esame, inoltre differenzia l'ipotesi in cui la titolarità del diritto sia negata dal convenuto con una mera difesa, cioè una presa di posizione che si limita a negare la esistenza del fatto e, perciò, non soggetta a decadenza ex art. 167 c.p.c. dal caso in cui vengano ad essa contrapposti fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto ex adverso dedotto, ossia le eccezioni in senso stretto (art. 2697 secondo comma c.c.).

Sulla distinzione tra mere difese ed eccezioni senso stretto – e sul differente regime processuale – si era già pronunciata la Cassazione anche a Sezioni Unite (Cass., sez. un.,3 giugno 2015 n. 11377 e poi Cass., sez. I, 13 ottobre 2015 n. 20564) secondo cui la mera negazione del fatto costitutivo del diritto azionato dalla controparte non costituisce eccezione (ma mera difesa appunto) e pertanto non ricade nelle preclusioni previste dagli artt. 167 e 345 c.p.c., e della sua mancanza, risultante dagli atti, il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata.

Pertanto conclude la Suprema Corte, tutte le questioni che non si risolvono in una eccezione in senso stretto non subiscono preclusioni processuali e possono essere proposte in ogni fase del giudizio, anche in Cassazione solo nei limiti del giudizio di legittimità e sempre che non si sia formato il giudicato; possono essere sollevate d'ufficio dal giudice; possono anche essere oggetto di motivo di appello in quanto l'art. 345 c.p.c. prevede solo il divieto delle eccezioni nuove non rilevabili d'ufficio.

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