I limiti entro i quali è ammessa la modificazione della domanda ex art. 183 c.p.c.
13 Maggio 2016
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Per comprendere la portata della questione oggetto di contrasto è opportuno prendere le mosse dalla fattispecie processuale che ha dato luogo all'intervento delle Sezioni Unite. Gli attori, promittenti acquirenti, convenivano in giudizio il promittente venditore per emettere pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., assumendo di avere stipulato un contratto avente ad oggetto la cessione di un appezzamento di terreno e che il convenuto, nonostante apposita diffida, non era comparso davanti al notaio per la stipula del contratto definitivo di compravendita. Con la memoria ex art. 183 c.p.c., gli attori modificavano l'originaria domanda, chiedendo la pronuncia di sentenza dichiarativa dell'avvenuto trasferimento del terreno, sul rilievo che doveva ritenersi definitivo il contratto in base al quale era stata inizialmente richiesta sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. Il Tribunale adito accoglieva la domanda come riformulata e la Corte d'appello, investita dell'impugnazione proposta dal convenuto - promittente venditore, confermava la sentenza di primo grado, evidenziando che la domanda di pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà di un immobile, avanzata dopo la richiesta, con l'atto di citazione, della sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c., basata sul medesimo contratto diversamente qualificato, costituiva una mera “emendatio libelli”, poiché il “thema decidendum” era rimasto comunque circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, con sostanziale identità del bene effettivamente richiesto e della “causa petendi”, costituita dal contratto del quale era stata prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica. Avverso la sentenza dei giudici di appello, il convenuto – appellante – promittente venditore proponeva ricorso per cassazione esponendo come primo motivo di impugnazione che avevano errato i giudici d'appello nel ritenere ammissibile la domanda di pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del terreno in questione, proposta nella memoria autorizzata ai sensi dell'art. 183 c.p.c., benché essa fosse da ritenersi diversa rispetto alla domanda di pronuncia costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c., proposta nell'atto di citazione con riguardo al medesimo immobile, e chiedeva di affermare:
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Orientamento per il quale si verifica mera emendatio libelli
In accordo con una prima tesi, invero minoritaria, sebbene affermata più volte all'interno della giurisprudenza di legittimità, qualora l'attore abbia chiesto con l'atto di citazione una sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., fondata sull'esistenza di una scrittura privata dallo stesso erroneamente qualificata come preliminare di vendita immobiliare, costituisce “mera emendatio libelli”, consentita anche in appello, la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile, oggetto del contratto qualificato come contratto definitivo di compravendita, trattandosi di semplice specificazione della pretesa originaria e restando in tal caso il “thema decidendum” circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento di proprietà. Ne deriva che rimane immutato nella sostanza il bene effettivamente richiesto ed identica la “causa petendi”, costituita dal contratto del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica (Cass., sez. II, 30 maggio 2001, n. 7383). In altri termini, nel caso in cui l'attore, dopo aver domandato con l'atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. sulla base di un contratto da lui qualificato come preliminare di vendita immobiliare, formuli nelle conclusioni definitive di primo grado la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile oggetto del contratto, qualificato come contratto definitivo di compravendita, non comporta un vizio di ultrapetizione, ma una semplice emendatio libelli e quindi una consentita modifica della domanda (Cass., sez. II, 29 dicembre 1999, n. 14643). Espressione dell'orientamento minoritario è stata, più di recente, un'ordinanza pronunciata dalla Sesta Sezione della Corte di Cassazione, la n. 20177 del 3 settembre 2013, che, dopo avere precisato che il giudice quando dichiara una domanda inammissibile ha l'obbligo di motivare specificamente quali fatti nuovi o estranei alla materia oggetto del contraddittorio si richieda di esaminare rispetto a quelli inizialmente prospettati e discussi, ha affermato che «nel caso in cui l'attore, dopo aver domandato con l'atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva ai sensi dell'art. 2932 c.c. sulla base di un contratto da lui qualificato come preliminare di vendita immobiliare, formuli - rispettando le decadenze processuali previste - la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile oggetto del contratto, qualificato come contratto definitivo di compravendita, è configurabile non una “mutatio”, ma una semplice “emendatio libelli”, poiché il “thema decidendum” resta circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, restando così identico nella sostanza il bene effettivamente chiesto ed uguale la “causa petendi” costituita dal contratto, del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica».
Orientamento per il quale si determina mutatio libelli
Secondo la posizione dominante, all'interno della giurisprudenza di legittimità anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite, invece, costituisce domanda nuova quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., sostituisce nell'atto di riassunzione a seguito di interruzione o nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con una successiva, con la quale chieda una sentenza che accerti l'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata. Si tratta, infatti, di domande diverse sotto il profilo del “petitum” e della “causa petendi”, atteso che, nella prima ipotesi, l'attore adduce un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda, un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato”. Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1731 del 5 marzo 1996, condividevano questo secondo orientamento, precisando che costituiva domanda nuova quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex art. 2932 c.c., sostituiva nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con una successiva finalizzata ad ottenere una sentenza accertativa dell'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata, poiché trattavasi di domande diverse sotto il profilo del “petitum” e della “causa petendi” atteso che, nella prima ipotesi, l'attore adduceva un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda, un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato. Si erano poi succedute numerose pronunce, confermative del principio espresso dalle Sezioni Unite del 1996, che avevano ribadito che «costituisce domanda nuova - come tale vietata e, perciò, inammissibile sia in primo grado che in appello - quella conseguente al sopravvenuto mutamento della pretesa di accertamento del contratto di compravendita del diritto di proprietà in quella di esecuzione coattiva di un contratto preliminare ai sensi dell'art. 2932 c.c., essendo le due domande diverse per “petitum” e “causa petendi”: infatti, mentre la prima è diretta ad ottenere una sentenza dichiarativa, fondata su un negozio con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà per effetto del consenso legittimamente manifestato, la seconda mira ad una pronuncia costitutiva, fondata su un contratto con effetti meramente obbligatori come il preliminare, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata» (v., tra le altre, Cass. civ., Sez. II, 12 settembre 2003, n. 13420; Cass. civ., Sez. II, 8 febbraio 2010, n. 2723). c
La Seconda Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria n. 2096 del 30 gennaio 2014, ha rimesso alle Sezioni Unite la seguente questione oggetto di contrasto giurisprudenziale:
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Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12310 del 15 giugno 2015, risolvono il prospettato contrasto evidenziando che la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (“petitum” e “causa petendi”), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali, sicché è ammessa la modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo. Particolarmente significativa è la premessa delle Sezioni Unite in ordine alla circostanza che la necessità di un nuovo intervento in materia non ha trovato origine nel numero davvero esiguo di sentenze in aperto contrasto con il precedente “dictum” delle Sezioni Unite, o nel tempo trascorso, ma nei «mutamenti del quadro normativo di riferimento ad opera del legislatore - anche costituzionale - e dei corrispondenti mutamenti nella giurisprudenza di legittimità, soprattutto a Sezioni Unite (pur se non specificamente riferibili alla problematica in esame e riguardanti, in una prospettiva più generale, non solo la disciplina dei “nova” nel processo ma anche le problematiche collegate, ad esempio quelle relative all'ambito ed ai limiti del rilievo officioso nel processo dispositivo, soprattutto in tema di patologie negoziali, e quelle “proiettive” correlate all'ombra lunga del giudicato implicito), nella consapevolezza che l'esegesi della normativa processuale deve sempre salvaguardare la coerenza circolare del sistema e che l'intervento nomofilattico compositivo è necessario quante volte occorra riportare a sintesi univoca e manifesta il tormentato processo di adeguamento dell'ermeneutica giuridica al contesto legislativo e culturale in trasformazione». I giudici di legittimità si sono dapprima soffermati sulla differenza tra “mutatio” ed “emendatio libelli” per giungere alla conclusione che, in diversi casi, si sono ritenute ammissibili domande che si sostanziavano in domande nuove, come per esempio la modifica della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento con l'aggiunta di una domanda subordinata di adempimento del contratto. Precisa la Corte che si ha “emendatio libelli” quando non si incide sulla “causa petendi” e sul “petitum”, ma si verte solo sull'interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto o si quantifica meglio l'oggetto della domanda per renderlo idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere. Si ha, invece, una “mutatio libelli” quando si avanza una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un “petitum” diverso e più ampio, oppure una “causa petendi” fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, così ponendo al giudice un nuovo tema d'indagine e spostando i termini della controversia. Le Sezioni Unite hanno precisato che l'art. 183 c.p.c. non contiene alcun esplicito divieto di domande nuove, come invece si verifica con l'art. 345 c.p.c., e che l'art. 189 c.p.c., in tema di rimessione della causa al collegio, laddove afferma che il giudice istruttore invita le parti a precisare davanti a lui le conclusioni «nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'art. 183 c.p.c.», lascia intendere che, in realtà, le parti possono cambiare le domande e conclusioni avanzate nell'atto introduttivo, anche in modo apprezzabile. I giudici di legittimità individuano, poi, i tre tipi di domande desumibili dal disposto dell'art. 183 c.p.c.:
Il corollario che segue è che la modificazione delle domande ex art. 183 c.p.c. è ammissibile senza limiti, anche con riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi”. E ciò sulla base di due ulteriori considerazioni. L'utilizzo di ben tre termini, per formularle, replicare ad esse e provarle. Il fatto che si tratta di udienza di prima comparizione significa che la trattazione della causa non è ancora sostanzialmente iniziata e, conseguentemente, una modifica anche incisiva della domanda non arrecherebbe alcun pregiudizio all'ordinato svolgimento del processo. La domanda modificata deve sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l'atto introduttivo o comunque essere a questa collegata o posta in alternativa. Poiché la domanda modificata sostituisce la domanda iniziale e non si aggiunge ad essa, interviene nella fase iniziale del giudizio e non comporta tempi superiori a quelli già preventivati dal medesimo art. 183 c.p.c. non sussiste alcun rischio di allungamento dei tempi processuali. Le argomentazioni svolte dalle Sezioni Unite sono integralmente condivisibili alla luce della premessa di partenza e della già richiamata coerenza circolare del sistema e del processo di adeguamentodell'ermeneutica giuridica al contesto legislativo e culturale in trasformazione. In tale ambito, i giudici di legittimità affermano, con lucida analisi, che i principi asseriti si pongono in completa consonanza sia «con l'esigenza di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale», sia con i «principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, posto che, come già rilevato, non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene, ma determina anzi una indubbia incidenza positiva più in generale sui tempi della giustizia, in quanto è idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi». Altri valori perseguiti dai giudici di legittimità sono quelli della stabilità delle decisioni giudiziarie, anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonché della effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche. È proprio la previsione costituzionale di un processo "giusto", evidenziano le Sezioni Unite, che «impone al giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l'interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di una ermeneutica tralascia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale». Nella direzione tracciata dal principio di concentrazione si dirigono le pronunce della Corte di Cassazione in materia di frazionamento del credito e di patologie negoziali.
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