Mutamento del rito e salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda

08 Febbraio 2022

Per le Sezioni Unite gli effetti, sostanziali e processuali, della domanda irritualmente avanzata si producono secondo il rito concretamente seguito «non soltanto quando il giudice di primo grado abbia adottato tempestivamente l'ordinanza di mutamento, ma anche quando tale provvedimento sia mancato, con conseguente consolidamento o stabilizzazione del rito erroneo».
QUESTIONE CONTROVERSA

Una società proponeva con atto di citazione opposizione ai sensi dell'art. 615 c.p.c. avverso una cartella di pagamento emessa per infrazioni al Codice della Strada, deducendo la mancata notifica dell'atto presupposto all'emissione dell'ingiunzione di pagamento; la domanda, accolta in primo grado, veniva poi rigettata in appello.

Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione da parte della società opponente denunciandosene l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione; sennonché, la S.C., prima ancora di scendere all'esame del motivo di ricorso proposto, osservava che per giurisprudenza ormai pacifica, nel caso in cui la parte deduca che la cartella di pagamento costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogata in ragione della nullità o dell'omissione della notificazione del verbale di accertamento della violazione del Codice della Strada, la relativa impugnazione va effettuata ai sensi dell'art. 7 del d.lgs. 150/2011 entro trenta giorni dalla notificazione della cartella e non con opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c. Trattandosi di un termine di decadenza processuale, come tale rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità, la S.C., ravvisata l'assenza del giudicato interno sul punto, riteneva pregiudiziale l'esame della questione circa l'idoneità o meno dell'atto introduttivo ad evitare il maturarsi della decadenza, in quanto idonea a determinare la cassazione senza rinvio della decisione impugnata ai sensi dell'art. 382, comma 3, c.p.c. perché l'azione non poteva proporsi.

Il Collegio adìto proseguiva osservando che l'opposizione al verbale di accertamento di violazione del Codice della Strada di cui all'art. 7 del d.lgs. 150/2011 va proposta con ricorso, per cui la pendenza della relativa lite è data dal deposito dell'atto introduttivo in cancelleria; pertanto, onde rispettare il termine perentorio per proporre il rimedio in discorso, la parte avrebbe dovuto effettuare il deposito dell'atto introduttivo entro trenta giorni dalla data di contestazione della violazione o di notificazione del verbale di accertamento. Nel caso portato all'attenzione del S.C., invece, il debitore aveva utilizzato lo strumento della citazione in opposizione preesecutiva, per cui l'atto introduttivo era stato prima notificato al creditore ed al momento del suo deposito in cancelleria il termine di decadenza previsto dall'art. 7 cit. era già da tempo spirato.

Investita della questione, la S.C. osserva che a tale fattispecie deve applicarsi il dettato normativo contenuto nell'art. 4, comma 5, del d.lgs. 150/2011, a mente del quale nell'ipotesi in cui la controversia venga promossa in forme diverse da quelle previste e il giudice disponga il mutamento del rito «gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento»; grazie a tale previsione, allora, la domanda, proposta con atto di citazione, potrebbe considerarsi tempestiva avendo come riferimento la notificazione dell'atto introduttivo del giudizio; sennonché, nel caso di specie, il giudice non aveva rilevato l'erroneità del rito e non aveva disposto il suo mutamento; per la Cassazione, diviene allora pregiudiziale verificare se gli effetti sostanziali e processuali della domanda introdotta con il rito erroneo si producano sempre e comunque, cioè indipendentemente dall'avvenuto mutamento di rito di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 150/2011 o se essi possano dirsi salvi solo a seguito dell'intervento del giudice.

Più precisamente, per il Collegio adìto, occorre accertare «se il riferimento alle norme del rito «seguito prima del mutamento» debba intendersi come indicazione del parametro normativo mediante cui valutare la tempestività della domanda o come dipendenza della salvezza degli effetti dal fatto che il mutamento sia stato disposto stante la menzione nella disposizione del fatto processuale del mutamento».

ORIENTAMENTI CONTRAPPOSTI

Per parte della giurisprudenza, la salvezza degli effetti sostanziali e processuali correlati alla proposizione della domanda proposta con il rito sbagliato si determina a prescindere dal fatto che il mutamento del rito sia stato disposto (così Cass. civ., 26 settembre 2019, n. 24069). Addirittura, è stato affermato che laddove una controversia sia stata - sia pur erroneamente - trattata in primo grado con un rito diverso da quello prescritto dalla legge, le forme del rito erroneamente prescelto debbono essere seguite anche per la proposizione dell'appello (Cass. civ., 5 maggio 2019, n. 18048), osservandosi che il consolidamento del rito erroneamente adottato comporta «che la tempestività dell'opposizione deve essere rapportata alla data in cui l'atto di citazione è stato consegnato all'ufficiale giudiziario per la notificazione, anziché a quella del suo deposito in cancelleria, non dovendosi procedere alla conversione dell'atto introduttivo in ricorso».

Il Collegio investito della questione rileva tuttavia che in tali precedenti non risulta affrontata la questione se gli effetti sostanziali e processuali si producano sempre e comunque, cioè indipendentemente dall'avvenuto mutamento di rito di cui all'art. 4 del d.lgs. 150/2011 o se essi possano dirsi salvi solo a seguito dell'intervento del giudice.

Stando alla S.C., in favore della tesi dell'indipendenza della salvezza degli effetti dal fatto del mutamento del rito possono addursi svariati argomenti.

In primis, l'art. 4 del d.lgs. 150/2011 ricollega gli effetti sostanziali e processuali della domanda al fatto che questa sia stata proposta sia pure non secondo il rito previsto dalla legge. Potrebbe perciò sostenersi che quando viene disposto il mutamento del rito alla prima udienza di trattazione, la salvezza degli effetti sostanziali e processuali si è già verificata per il semplice compimento della proposizione della domanda in forma irrituale previsto dalla legge, non potendo essere condizionato ad un fatto successivo qual è l'ordinanza di mutamento del rito. In tal senso si è espressa anche la Consulta che, con la sentenza n. 45/2018, ha affermato che «il mutamento del rito (rispondente ad un principio di conservazione dell'atto proposto in forma erronea) oper[a], in ogni caso, solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all'esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando - in altri termini - fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all'atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta».

Secondariamente, costituisce diritto vivente il principio per cui l'errore sul rito non incide sulla validità del processo e della sentenza che lo definisce, tanto che l'omesso cambiamento del rito non può essere dedotto come motivo di impugnazione, a meno che non si indichi uno specifico pregiudizio processuale che dalla mancata adozione del diverso rito sia concretamente derivato (Cass. civ., 27 gennaio 2015, n. 1448; Cass. civ., 18 luglio 2008, n. 19942). Da tale premessa se ne ricava che la conservazione degli effetti dell'atto «non può essere subordinata ad un adempimento processuale del giudice che mira a salvaguardare solo la regolarità, e non anche la validità del processo».

In terzo luogo, stando all'art. 4 del decreto citato, l'errore sul rito non può essere rilevato dopo la prima udienza di comparizione, e tanto meno in sede di legittimità al fine di statuire, ai sensi dell'art. 382, comma 3, c.p.c., che l'azione non poteva proporsi. «La preclusione in ordine al rilievo fa sistema con la salvezza degli effetti della domanda: celebratasi la prima udienza, e non rilevato l'errore, il processo prosegue in base al rito irregolare e restano fermi gli effetti della domanda».

Infine, poiché fra la proposizione della domanda e l'udienza di comparizione delle parti può intercorrere un notevole lasso di tempo, collegare la salvezza degli effetti della domanda all'eventuale mutamento del rito determinerebbe un vulnus alla certezza delle vicende giuridiche.

Sennonché, osserva la Corte che altri argomenti possono essere addotti per sostenere la tesi contraria che fa dipendere la salvezza degli effetti dal mutamento del rito.

In primo luogo, va considerata la voluntas legis sottostante all'art. 4 del decreto citato che vuole che l'eliminazione dell'errore conseguente alla scelta del rito sbagliato avvenga in limine litis, ma che contemporaneamente stabilisce che laddove le parti e il giudice non sollevino tempestivamente la questione concernente l'errore della scelta del rito il giudizio resta incardinato con il rito errato e l'attività processuale resta regolata secondo le regole di esso. La conseguenza di tale scelta di campo dovrebbe essere il consolidamento del rito errato, così come si evince anche dai recenti arresti della giurisprudenza di legittimità.

Laddove invece il giudice abbia mutato il rito, si applicheranno le norme del rito per come modificato, ma «alla stregua del principio tempus regit actus, solo per gli atti processuali successivi, restando invece soggetto alle regole del rito errato l'apprezzamento di quelli precedenti».

Da quanto appena osservato può allora evincersi che il comma 5 dell'art. 4, sia nel primo inciso, sia nel secondo, sia costruito intorno al mutamento del rito, «nel senso di stabilire una regola per il prima ed una implicita per il dopo di esso».

Da tale constatazione il Collegio desume che la regola contenuta nel comma 5 nel suo primo inciso può operare solo se il mutamento del rito vi sia stato, ma, soprattutto, a condizione che esso vi sia stato tempestivamente, cioè nel termine indicato dal comma 2 dell'art. 4.

Secondo questa ricostruzione, allora, il legislatore, nell'introdurre il comma 5 avrebbe voluto attribuire al tempestivo mutamento del rito l'effetto di salvare la tempestività della domanda introdotta secondo il rito sbagliato.

Qualora il tempestivo mutamento non sia avvenuto e dunque non sia avvenuto l'adeguamento al rito indicato dal legislatore, nel caso in cui la domanda vada proposta entro un certo termine a pena di decadenza, «l'inosservanza del rito prescritto dal legislatore parrebbe doversi considerare esiziale» e ciò perché «se così non si ritenesse la previsione del comma 5 dell'art. 4 si rivelerebbe inutile, perché l'essere avvenuto o meno il mutamento del rito resterebbe ininfluente».

Tale conclusione parrebbe essere confermata anche dalla circostanza che lo stesso legislatore del 2011 ha lasciato la disciplina delle controversie di lavoro e previdenziali e quella delle controversie locative al di fuori del capo II del d.lgs., per cui in tali controversie il mutamento del rito lascia gli effetti sostanziali e processuali della domanda disciplinati dal rito precedente, ma, secondo la tradizionale interpretazione, «senza possibilità che la domanda proposta con il rito sbagliato possa automaticamente ritenersi tempestiva (dovendosi eventualmente la salvezza in punto di tempestività apprezzarsi alla stregua del principio della idoneità al raggiungimento dello scopo)».

Per il Collegio, tale soluzione è peraltro l'unica idonea a dare forza precettiva alle regole sul rito dettate dal legislatore del 2011, in quanto permettere alla parte di ritenere salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda a prescindere dal mutamento, indurrebbe il litigante a tenere in non cale il rito prescritto; infine, essendo la previsione di un certo rito molto spesso correlata anche ad una regola di competenza (anche funzionale), «il venir meno del deterrente dell'ancoraggio della salvezza al mutamento tempestivo, provocherebbe un effetto parimenti incentivante il disordine nell'accesso alla tutela giurisdizionale».

RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE

Presentando il ricorso una questione di massima di particolare importanza, la S.C. ritiene pertanto opportuno, anche tenuto conto che la problematica esaminata è suscettibile di investire materie tabellari distribuite fra le diverse Sezioni della Corte, investire le Sezioni Unite perché indichino la soluzione da adottare.

Sul punto sia consentito svolgere alcune brevissime riflessioni.

Come riconosciuto anche dall'ordinanza di rimessione, si afferma ormai pacificamente da tempo che l'errore sul rito non esonera il giudice dal dovere di conoscere il merito della controversia (v. per tutti Balena, Le conseguenze dell'errore sul modello formale dell'atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle sezioni unite), in Il giusto proc. civ., 2011, 658 ss.), né che lo svolgimento del processo secondo il rito sbagliato determina di per sé solo la nullità dei suoi atti. Di ciò ne sono conferma le molteplici norme (si pensi agli artt. 183-bis, 426, 427, 702-ter c.p.c. ed all'art. 4, d.lgs. 150/2011) che prevedono la possibilità di mutare il rito laddove si ravvisi l'errore della parte nella scelta dello stesso, così permettendo l'adozione di una pronuncia di merito.

Tale affermazione, corretta laddove l'errore riguardi il giudizio di primo grado, merita di essere precisata qualora l'instaurazione del giudizio sia assoggettata ad un termine di decadenza; in tale eventualità, infatti, la giurisprudenza impone alla parte incorsa in errore il compimento di un'ulteriore attività processuale per evitare la declaratoria di inammissibilità o di decadenza dall'azione, consistente nella (tempestiva) conversione dell'atto introduttivo nullo. Pertanto, ove la parte notifichi anziché depositare (o viceversa) l'atto di impugnazione a ridosso della scadenza o proponga con le forme sbagliate l'azione sottoposta ad un termine di decadenza, il suo destino sarà segnato: il giudice non potrà mettere in atto alcun meccanismo di salvaguardia degli effetti dell'azione e dovrà quindi dichiarare la parte decaduta dal diritto di proporre l'azione, a meno che la forma sbagliata prescelta fosse idonea, secondo il principio del raggiungimento dello scopo dell'atto, ad assicurare aliunde il rispetto del termine.

In questo quadro così tratteggiato, la disposizione contenuta nell'art. 4 del d.lgs. 150/2011 rappresenta un significativo passo in avanti: in virtù della previsione contenuta nella prima parte del quinto comma della norma viene infatti fissato il principio secondo cui per determinare gli effetti sostanziali e processuali della litispendenza deve farsi riferimento al rito prescelto in concreto dall'attore anziché rito che avrebbe dovuto essere correttamente utilizzato.

Sennonché, sebbene non fosse impossibile potersi intravedere nella novella legislativa del 2011 l'introduzione di un principio generale, da subito la Cassazione ne ha fin da subito circoscritto l'applicabilità, tanto con riferimento ai giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo in materia laburistica e locatizia (Cass. civ., 25 maggio 2018, n. 13072, in www.giustiziacivile.com), tanto con riferimento ai giudizi di appello (Cass. civ., 10 aprile 2018, n. 8757). Di tale impostazione è pure arrivata conferma, ancorché con specifico riguardo ai procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 45/2018 (in Giur. cost., 2018, 545 e segg.).

Ora, come è stato autorevolmente osservato, ritenere che l'art. 4 riguardi solo le controversie contemplate dal d.lgs. 150/2011 di semplificazione dei riti in deroga ai principi che la giurisprudenza desume dalla disciplina relativa alla nullità degli atti processuali fa sorgere il dubbio di legittimità costituzionale di una siffatta differenziazione, che non sembra in alcun modo giustificabile in ragione di una minore o maggiore gravità dell'eventuale errore sul rito (Balena, Sull'errore (talora assai dubbio) concernente la forma dell'atto di impugnazione, in Il giusto proc. civ., 2014, 1127).

L'irrilevanza dell'errore nella scelta dell'atto introduttivo di cui all'art. 4 del d.lgs. 150/2011, unitamente al previo recepimento legislativo ad opera della l. 69/2009 dell'orientamento della giurisprudenza ordinaria e costituzionale che consentiva la translatio iudicii con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda erroneamente proposta innanzi a un giudice privo di giurisdizione, nonché l'affermazione a partire da Cass. civ., sez. un., 14 aprile 2011, n. 8491 (in Giur. it., 2012, 298) dell'ammissibilità delle impugnazioni di delibere condominiali ex art. 1137 c.c. proposte con ricorso, anziché con il prescritto atto di citazione, anche laddove il ricorso non fosse stato pure notificato nel termine dettato per l'impugnazione, dovrebbe allora indurre a ripensare l'indirizzo da tempo invalso relativamente all'errore nella scelta dell'atto introduttivo nei giudizi di opposizione extra «decreto semplificazione».

Sennonché, oggi si rischia un'ulteriore battuta di arresto: accogliere l'orientamento restrittivo per come ricostruito dalla ordinanza di rimessione significa vanificare lo sforzo operato dal legislatore della riforma del 2011; tale opzione interpretativa, oltre a costituire la reiterazione di un indirizzo eccessivamente formalistico, sembra peraltro tenere in non cale l'evoluzione normativa in punto di salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda in caso di rilievo del difetto di giurisdizione. Come è noto, per effetto della riforma del 2009 l'errore sulla giurisdizione (indipendentemente, si badi, dalla sua scusabilità) non può mai incidere negativamente sugli effetti sostanziali e processuali della domanda inizialmente rivolta al giudice. Giacché spesso l'errore sulla giurisdizione implica anche un errore sul rito e - conseguentemente - sulla forma dell'atto introduttivo del giudizio, prevedere una disciplina differenziata in punto di errore di rito rispetto a quella prevista per la giurisdizione, oltre ad essere irragionevole, sembra capace di sollevare «insuperabili dubbi d'illegittimità costituzionale» (Balena, Sull'errore, cit., 1128).

V'è dunque da auspicare che le Sezioni unite, chiamate a risolvere questa annosa questione, scelgano di ripudiare l'orientamento più restrittivo il quale appare esclusivamente autoreferenziale e capace solo di mietere «numerose vittime» (Proto Pisani, L'irresistibile forza delle decisioni delle sezioni unite, in Foro it., 2014, I, 2503).

SOLUZIONE

Investite della questione, le Sezioni unite scelgono, come auspicato, di dare seguito alla tesi dell'indipendenza della salvezza degli effetti dal fatto del mutamento del rito escludendo che sia necessaria la pronuncia di una apposita ordinanza ai fini della produzione degli effetti processuali e sostanziali della domanda proposta con forme erronee.

Per la Corte, infatti, l'art. 4 del d.lgs. 150/2011 di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili rappresenta una importante ed ulteriore tappa del percorso che segna il lento declino del formalismo processuale, «prevedendo una sanatoria «piena» dell'atto introduttivo difforme dal modello legale», il quale risulta in ogni caso idoneo «ad impedire le decadenze e preclusioni che dovrebbero applicarsi qualora si facesse applicazione delle norme sul rito corretto che avrebbe dovuto essere (e non era stato) seguito».

Scopo evidente della norma è quella di evitare che il rispetto delle forme possa tradursi in un intollerabile formalismo, così scongiurandosi il rischio che vizi procedurali, riverberandosi a catena su tutta l'attività successiva, possano condurre a una soluzione in rito del processo, in violazione dei principi del giusto processo di cui all'art. 111 della Costituzione.

Così chiarita la finalità della norma, le S.U. passano ad esaminare e risolvere il quesito loro sottoposto e attinente alla natura dichiarativa o costitutiva dell'ordinanza di mutamento del rito, nonché quello - ad essa strettamente collegato - concernente le conseguenze della mancata o tardiva pronuncia dell'ordinanza stessa.

Per la Corte, gli effetti, sostanziali e processuali, della domanda irritualmente avanzata si producono secondo il rito concretamente seguito «non soltanto quando il giudice di primo grado abbia adottato tempestivamente l'ordinanza di mutamento, ma anche quando tale provvedimento sia mancato, con conseguente consolidamento o stabilizzazione del rito erroneo». Dunque, laddove tale ordinanza sia mancata e si consolidi il rito erroneamente seguito, gli effetti sostanziali e processuali, quali in primis la litispendenza, si produrranno secondo il rito concretamente applicato, nonostante esso sia in thesi quello errato.

A tale conclusione si giunge ponendo a raffronto l'art. 426 c.p.c.(che, in caso di errore sul rito, ne ammette il mutamento del rito anche in appello) con l'art. 4 del dlgs. 150/2011, il quale al comma 2 pone una rigida barriera temporale, rappresentata dalla prima udienza di comparizione delle parti, oltre la quale è precluso pronunziare il mutamento del rito, così determinando «la stabilizzazione del rito erroneo, alla stregua del quale sindacare la validità degli atti e la tempestività della domanda» (§ 8.4.).

A conferma della tesi seguita vi è non solo l'art. 59, l. 69/2009 che recepisce l'orientamento della giurisprudenza ordinaria e costituzionale (Cass. civ., 22 febbraio 2007, n. 4109; Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77) che consentiva la translatio iudicii con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda erroneamente proposta dinnanzi a un giudice privo di giurisdizione, ma anche l'art. 38 c.p.c. nella formulazione attualmente vigente, il quale limita il rilievo dell'incompetenza del giudice alla prima udienza di trattazione di cui all'art. 183 c.p.c.: se tale effetto preclusivo è stato considerato conforme a Costituzione (si v. Corte cost., n. 128/1999) pur in presenza del fondamentale principio della precostituzione del giudice di cui all'art. 25 Cost., a maggior ragione «non possono sorgere dubbi in relazione al fenomeno del consolidamento del rito, nel caso in cui il giudice, non provvedendo al mutamento, ometta di rilevare la difformità dell'atto introduttivo dal modello legale astratto».

Invero, non è revocabile in dubbio che le regole sul rito processuale non hanno copertura costituzionale quando non incidano negativamente sul contraddittorio e sull'esercizio del diritto difesa, come comprova la circostanza che la scelta di un rito erroneo non è causa di nullità se non nel caso in cui essa abbia determinato la violazione del principio del contraddittorio o del diritto di difesa di una delle parti.

Né in contrario è possibile invocare il riferimento, contenuto nel comma 5 dell'art. 4, alle «norme del rito seguito prima del mutamento», in quanto tale inciso non è finalizzato a collegare la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda introdotta con le forme sbagliate all'ordinanza di mutamento del rito, ma «ma solo a indicare che gli effetti sostanziali e processuali propri di tale atto (erroneo) si producono ugualmente e che, per converso, si applicano anche le decadenze e preclusioni proprie del rito erroneamente scelto dalla parte».

Pertanto, le SU formulano il seguente principio di diritto: «nei procedimenti «semplificati» disciplinati dal d.lgs. 150/2011, nel caso in cui l'atto introduttivo sia proposto con citazione, anziché con ricorso eventualmente previsto dalla legge, il procedimento - a norma dell'art. 4 del d.lgs. 150/2011 - è correttamente instaurato se la citazione sia notificata tempestivamente, producendo essa gli effetti sostanziali e processuali che le sono propri, ferme restando le decadenze e preclusioni maturate secondo il rito erroneamente prescelto dalla parte; tale sanatoria piena si realizza indipendentemente dalla pronuncia dell'ordinanza di mutamento del rito da parte del giudice, la quale opera solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all'esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all'atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta e non a quella che esso avrebbe dovuto avere, dovendosi avere riguardo alla data di notifica della citazione effettuata quando la legge prescrive il ricorso o, viceversa, alla data di deposito del ricorso quando la legge prescrive l'atto di citazione».

Con tale decisione, la Corte di cassazione imprime una decisiva accelerazione verso l'obiettivo di semplificazione del processo, in linea con il trend seguito da molti Stati dell'U.E., che, in applicazione della giurisprudenza della Corte Europea di Strasburgo, permettono limitazioni all'accesso al giudice solo nei casi previsti dalla legge e in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

Sennonché, nel luminoso cammino verso l'attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale vi è un'ombra pesante che in parte attenua il giudizio positivo sulla decisione in commento: come è dato leggere nel § 9.3. della decisione, continua a permanere la differenza tra la disciplina propria dei «riti semplificati» e quella di cui all'art. 426 c.p.c. riguardante le controversie regolate dal rito del lavoro e disciplinate dal codice di procedura civile; con riguardo a quest'ultima, come accennato nei precedenti paragrafi, secondo la tradizionale interpretazione operata dalla giurisprudenza di legittimità (v. per tutte Cass. civ., 12 marzo 2019, n. 7071), nel caso di proposizione di un'opposizione a decreto ingiuntivo proposta in materia laburistica o locatizia con citazione in luogo del ricorso richiesto dalla legge, in tanto è possibile la sanatoria dell'atto introduttivo erroneamente prescelto in quanto l'atto del deposito intervenga entro e non oltre la scadenza del termine per l'opposizione (c.d. «sanatoria dimidiata»).

Ora, la legittimità di tale differenziazione, già ritenuta non irragionevole dalla Corte costituzionale (Corte cost., 2 marzo 2018, n. 45), è stata ribadita dalla stessa Corte di cassazione che, con una sentenza emblematicamente pubblicata a distanza di un solo giorno da quella in commento (Cass. civ., sez. un., 13 gennaio 2022, n. 927), ha espressamente escluso un ripensamento del trattamento dell'errore di rito nei giudizi di opposizione extra "decreto semplificazione", affermando, ancora una volta, che in caso di errore nella scelta dell'atto introduttivo continua ad applicarsi la tradizionale interpretazione dell'art. 426 c.p.c.

Riferimenti:

  • Balena, Le conseguenze dell'errore sui modello formale dell'atto introduttivo (traendo spunto da un obiter dictum delle Sezioni unite), in Giusto Proc. Civ., 2011, 659;
  • Carratta, La "semplificazione" dei riti e le nuove modifiche del processo civile, Torino, 2012, passim;
  • Cossignani, Note sul mutamento del rito ex art. 4 D.Lgs. n. 150 del 2011, in Giur. it., 2012, 1388;
  • Perina, Commento all'art. 426 c.p.c., in Amoroso, Di Cerbo, Maresca, Diritto del lavoro. Il processo, IV, Milano, 2016, 419;
  • Santangeli (a cura di), Commentario al d.leg n. 150 del 2011, Milano, 2012, passim;
  • Scalvini, L'errore tipologico nell'atto introduttivo dei giudizi di opposizione, in Giur. it., 2020, 460 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.