Le Sezioni Unite risolvono la questione sul grado di specificità dei motivi di appello

30 Novembre 2017

Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi in merito all'ambito della nozione di specificità dei motivi di appello, prevista a pena di inammissibilità dai novellati artt. 342 e 434 c.p.c., essendo controverso, in particolare, se essa imponga all'appellante un onere di specificazione di un diverso contenuto della sentenza di primo grado, o non piuttosto solo una compiuta contestazione di ben identificati capi della sentenza impugnata e dei passaggi argomentativi che la sorreggono, con la prospettazione chiara ed univoca della diversa decisione che ne conseguirebbe sulla base di ben evidenziate ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice.
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L'art. 342 c.p.c., nonché l'omologo art. 434 c.p.c. per il rito del lavoro, come sostituiti dall'art. 54, comma 1, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., dalla l. 7 agosto 2012, n. 134, prevedono che «La motivazione dell'appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l'indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata».

La precedente formulazione dell'art. 342 c.p.c., anteriore alla novella del 2012 (quest'ultima applicabile ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione successivamente all'11 settembre 2012), si limitava semplicemente a prevedere che l'atto di appello dovesse contenere, oltre agli elementi di cui all'art. 163 c.p.c., «l'esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell'impugnazione».

La recente riforma sembra aver invece accentuato il rigore formale dell'atto di appello, avendo delineato in maniera più dettagliata il contenuto di tale atto. In sostanza, l'appellante è ora tenuto non solo ad indicare espressamente le parti del provvedimento che intende impugnare, ossia i capi della decisione e tutti i singoli segmenti che la compongono quando assumano un rilievo autonomo rispetto alla decisione, ma anche a suggerire le modifiche che dovrebbero essere apportate al provvedimento con riguardo alla ricostruzione del fatto, nonché a spiegare quale legge, sostanziale o processuale, sarebbe stata violata, ed a giustificare il rapporto di causa ad effetto fra la violazione dedotta e l'esito della lite.

L'interpretazione della nuova formulazione delle norme in esame ha generato una discrasia nella giurisprudenza di legittimità e di merito. Mentre, infatti, alcune sentenze, pur richiedendo all'appellante di «individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum», hanno escluso che il nuovo testo normativo imponga alla parte di compiere le proprie deduzioni in una determinata forma, magari ricalcando la decisione impugnata ma con diverso contenuto, altre sentenze hanno richiesto all'appellante una specificità ben maggiore, rilevando che l'impugnazione deve, per non essere inammissibile, offrire una «ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice». Altre pronunce hanno invece letto le suindicate disposizioni nel senso che la parte appellante deve affiancare alla parte volitiva dell'impugnazione anche una parte argomentativa, «che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice».

Parte della dottrina ha ritenuto, invece, che la nuova formulazione della norma in esame costituisca una prescrizione superflua e meramente ripetitiva di quanto era in precedenza già stabilito dal primo comma della stessa, come interpretato dalla costante giurisprudenza; la novità risiederebbe solo nella sanzione, ora espressamente prevista in termini di inammissibilità, e quindi non più sanabile, anziché di nullità dell'atto di appello.

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In particolare, secondo un primo orientamento, la novella legislativa avrebbe imposto all'appellante un grado di specificità ben più accentuato rispetto al passato, compendiabile nella necessità che l'atto di gravame, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, offra una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice.

L'esigenza di un “progetto alternativo di sentenza” è richiamata in un parere del CSM del 5 luglio 2012 sullo schema del cd. «decreto sviluppo», ossia del testo normativo che contiene anche i provvedimenti di riforma del giudizio di appello. In tale parere si sostiene che: «la compiuta delibazione della sussistenza o meno della ragionevole probabilità di accoglimento dell'appello può essere aiutata ove si preveda espressamente … che l'atto di appello … debba contenere, a pena di inammissibilità, un vero e proprio progetto alternativo di sentenza». Dunque, il CSM ha parlato di “progetto alternativo di sentenza” de iure condendo, e non in riferimento al testo attuale degli artt. 342 e 434 c.p.c., che erano all'epoca ancora in gestazione.

Sulla scia del parere del CSM, tuttavia, alcune pronunce di merito hanno sostenuto che l'appello dovrebbe «essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, quasi come una sentenza» (App. Roma, 29 gennaio 2013; App. Torino, 12 marzo 2013) o, addirittura, che il nuovo art. 342 c.p.c. «obbliga l'appellante ad indicare … le modifiche richieste, sicché … il lavoro assegnato al giudice dell'appello appare alquanto simile a un preciso e mirato intervento di “ritaglio” delle parti di sentenza di cui si imponga l'emendamento, con conseguente innesto — che appare quasi automatico, giusta l'impostazione dell'atto di appello — delle parti modificate, con operazione di correzione quasi chirurgica del testo della sentenza di primo grado» (App. Salerno, 1 febbraio 2013, n. 139).

Nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, l'unica pronuncia che sembrerebbe aver aderito a tale rigoroso orientamento è Cass. civ., sez. lav., 7 settembre 2016, n. 17712, la quale, dopo aver rilevato che il termine “motivazione dell'appello” usato dal legislatore «è tipicamente proprio del provvedimento giudiziale», ha precisato che gli artt. 342 e 434 c.p.c. esigono oggi la proposizione di una nuova e diversa ricostruzione del fatto; vi devono essere, quindi, una «pars destruens della pronuncia oggetto di reclamo» e «una par construens, volta ad offrire un progetto alternativo di risoluzione della controversia, attraverso una diversa lettura del materiale di prova acquisito o acquisibile al giudizio».

Risulta assolutamente maggioritaria la tesi meno rigorosa, propugnata, per la prima volta in relazione alla riforma del 2012, da Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2015, n. 2143, la quale ha evidenziato come la riscrittura della norma sul contenuto dell'atto di appello risponda ad un'esigenza di contenimento dei tempi processuali, ottenibile solo esigendo da parte dell'appellante il rispetto «di precisi oneri formali che impongano e traducano uno sforzo di razionalizzazione delle ragioni dell'impugnazione». Detti oneri devono «consentire di individuare agevolmente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere quindi l'ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono; sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre lo sviluppo di un percorso logico alternativo a quello adottato dal primo Giudice e devono chiarire in che senso tale sviluppo logico alternativo sia idoneo a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte». Ha quindi aggiunto la Sezione Lavoro che la novella «ha, sostanzialmente e ragionevolmente, recepito e formalizzato gli approdi cui era giunta la giurisprudenza più recente, rendendone certa ed efficace la sanzione processuale».

Sulla stessa scia si sono poste le Sezioni Unite, con la successiva sentenza 27 maggio 2015, n. 10878, secondo cui la nuova norma, in linea con i risultati cui si era giunti a proposito del testo previgente dell'art. 342 c.p.c., esige, senza rigori di forma, che «al giudice siano indicate, oltre ai punti e ai capi della decisione investiti dal gravame, anche le ragioni, correlate ed alternative rispetto a quelle che sorreggono la pronuncia, in base alle quali è chiesta la riforma, cosicché il quantum appellatum resti individuato in modo chiaro ed esauriente».

Anche secondo Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2016, n. 23291, l'art. 434, comma 1, c.p.c. nel testo vigente, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell'art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante si traducano in un “progetto alternativo di sentenza”, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare la idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata.

Analogamente, Cass. civ., ord., 5 maggio 2017, n. 10916, ha affermato che il novellato art. 342 c.p.c. non esige dall'appellante né la redazione di un progetto alternativo di sentenza, né alcun “vacuo formalismo”, né una trascrizione integrale o parziale della sentenza impugnata. Esso richiede, invece, «la chiara ed inequivoca indicazione delle censure» mosse alla pronuncia appellata, sia in punto di ricostruzione del fatto che di valutazione giuridica, con precisazione degli argomenti che si intendono contrapporre a quelli indicati dal primo giudice.

Più recentemente, Cass. civ., sent., 16 maggio 2017, n. 11999, oltre ad escludere che l'atto di appello debba essere strutturato come una sentenza ovvero contenere un progetto alternativo di decisione, ha ribadito la perdurante differenza tra l'appello e le impugnazioni a critica vincolata, confermando che lo sforzo di razionalizzazione richiesto alla parte rende oggi inammissibile l'appello contenente solo una sommaria indicazione dei termini di fatto della controversia e delle ragioni per le quali è richiesta la riforma della sentenza. Detta pronuncia ha anche specificato che la riproposizione delle argomentazioni già svolte in primo grado non è di per sé indice di inammissibilità dell'appello, purché sia articolata in modo da evidenziare gli errori nella ricostruzione del fatto o nell'applicazione delle norme che si imputano alla sentenza di primo grado.

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La Terza Sezione civile della Corte di cassazione, con ordinanza interlocutoria del 5 aprile 2017, n. 8845, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite, «affinchè definiscano con chiarezza i contorni dei due requisiti di specificità ora analiticamente descritti dagli artt. 342 e 434 c.p.c., ovvero anche solo, in particolare, dicano se, a quel fine, sia richiesto all'appellante di formulare l'appello con una determinata forma o di ricalcare la gravata decisione ma con un diverso contenuto, ovvero se sia sufficiente – ma almeno necessaria un'analitica individuazione, in modo chiaro ed esauriente, del quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonché ai passaggi argomentativi in punto di fatto o di diritto che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, in modo da rendere chiara – in modo esplicito o almeno chiaramente evincibile – l'idoneità di tali ragioni a determinare le singole invocate modifiche della decisione censurata».

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Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27199 del 16 novembre 2017, risolvono il predetto contrasto giurisprudenziale, statuendo che gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83/12, conv., con modif., nella l. n. 134/12, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado.

In particolare, si ritiene di dover confermare gli approdi interpretativi ai quali la prevalente giurisprudenza della Suprema Corte era già pervenuta all'indomani della riforma del 2012. Ribadito il principio già affermato a partire da Cass. civ., Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16, secondo cui, ove l'atto di impugnazione non risponda ai requisiti stabiliti, la conseguente sanzione è quella dell'inammissibilità dell'appello, si precisa che ciò che il nuovo testo degli artt. 342 e 434 c.p.c. esige è che le questioni e i punti contestati della sentenza impugnata siano chiaramente enucleati e con essi le relative doglianze; per cui, se il nodo critico è nella ricostruzione del fatto, esso deve essere indicato con la necessaria chiarezza, così come l'eventuale violazione di legge.

Pertanto, secondo le Sezioni Unite, «così come potrebbe anche non sussistere alcuna violazione di legge, se la questione è tutta in fatto, analogamente potrebbe porsi soltanto una questione di corretta applicazione delle norme, magari per presunta erronea sussunzione della fattispecie in un'ipotesi normativa diversa; il tutto, naturalmente, sul presupposto ineludibile della rilevanza della prospettata questione ai fini di una diversa decisione della controversia».

Riprendendo, quindi, principi già affermati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al testo precedente la riforma del 2012, si conferma che nell'atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado. Ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l'atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado; mentre è logico che la puntualità del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell'atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa (cfr., ex multis, Cass. civ., 23 ottobre 2014, n. 22502; Cass. civ., 27 settembre 2016, n. 18932; Cass. civ., 23 febbraio 2017, n. 4695; tali principi hanno trovato conferma anche nelle sentenze delle Sezioni Unite 25 novembre 2008, n. 28057, e 9 novembre 2011, n. 23299).

L'individuazione di un «percorso logico alternativo a quello del primo giudice», però, non dovrà necessariamente tradursi in un “progetto alternativo di sentenza”, in quanto il richiamo, contenuto nei citati artt. 342 e 434, alla motivazione dell'atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del giudice nella stesura della motivazione di un provvedimento decisorio. Quello che viene richiesto - in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata – è che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perché queste siano censurabili. Tutto ciò, inoltre, senza che all'appellante sia richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate.

In definitiva, trattandosi della risoluzione di una questione di massima di particolare importanza, le Sezioni Unite ritengono di dover ribadire che la riforma del 2012 non ha trasformato, come alcuni hanno ipotizzato, l'appello in un mezzo di impugnazione a critica vincolata. L'appello è rimasto una revisio prioris instantiae (ossia un'impugnativa avverso la sentenza, piuttosto che un rimedio introduttivo di un giudizio sul rapporto controverso, essendo la cognizione del giudice circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso la deduzione di specifiche censure), ed i giudici di secondo grado sono chiamati in tale sede ad esercitare tutti i poteri tipici di un giudizio di merito, se del caso svolgendo la necessaria attività istruttoria, senza trasformare l'appello in una sorta di anticipato ricorso per cassazione. La diversità tra il giudizio di appello e quello di legittimità va fermamente ribadita proprio alla luce della portata complessiva della riforma legislativa del 2012 la quale, come ha osservato l'ordinanza interlocutoria, mentre ha introdotto un particolare filtro che può condurre all'inammissibilità dell'appello a determinate condizioni (artt. 348-bis e 348-ter c.p.c.), ha nel contempo ristretto le maglie dell'accesso al ricorso per cassazione per vizio di motivazione; il che impone di seguire un'interpretazione che abbia come obiettivo non quello di costruire un'ulteriore ipotesi di decisione preliminare di inammissibilità, bensì quello di spingere verso la decisione nel merito delle questioni poste.

D'altra parte, è una regola generale quella per cui le norme processuali devono essere interpretate in modo da favorire, per quanto possibile, che si pervenga ad una decisione di merito, mentre gli esiti abortivi del processo costituiscono un'ipotesi residuale. Né deve dimenticarsi, come rammentato dalle Sezioni Unite nella già citata sentenza n. 10878/2015, che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha chiarito in più occasioni che le limitazioni all'accesso ad un giudice sono consentite solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., tra le altre, la sentenza CEDU 24 febbraio 2009, in causa C.G.I.L. e Cofferati contro Italia).

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