L'appellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità
08 Luglio 2022
Il quadro normativo
Un tema all'apparenza di scarsa rilevanza e di limitato impatto sulla attività giurisdizionale. Ma, a guardar bene, un argomento tutt'altro che privo di interesse, per tante ragioni. Stiamo parlando delle sentenze pronunciate secondo equità e dei limiti normativamente previsti riguardo alla appellabilità di tali pronunce. A riguardo, l'art. 339 c.p.c., dopo aver previsto, nel suo primo comma, la possibilità di appello per le sentenze pronunciate in primo grado, dispone, nel secondo comma, che «è inappellabile la sentenza che il giudice ha pronunciato secondo equità a norma dell'art. 114». Al successivo terzo comma viene poi previsto che «le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'art. 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia». Il secondo comma dell'art. 113 c.p.c., poi, prevede che «il giudice di pace decide secondo equità le cause il cui valore non eccede millecento euro, salvo quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 del codice civile». Quanto a tale limite di valore di euro millecento, deve inoltre precisarsi come, sulla base dell'art. 32, comma 3, del d.lgs. n. 116/2017, lo stesso dovrebbe essere innalzato ad euro duemilacinquecento a decorrere dal 31 ottobre 2025 (il condizionale, per la verità, è d'obbligo, visto che l'entrata in vigore di tale modifica era stata inizialmente fissata al 31 ottobre 2021, salvo poi essere differita con diversi provvedimenti normativi al 2025). Ecco, allora, che si cominciano a delineare le ragioni della importanza dell'argomento in questione: molte delle pronunce rese dal giudice di pace nelle più diverse materie hanno ad oggetto un importo non superiore ad euro millecento e molte di più avranno ad oggetto un valore non superiore ad euro duemilacinquecento (con la precisazione, però, che restano comunque sottratte al giudizio secondo equità le cause dinanzi al giudice di pace vertenti in materia di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, come previsto dal comma 12 dell'art. 6 del d.lgs. n. 150/2011, nonché le cause relative a contratti conclusi con le modalità di cui all'art. 1342 c.c.), cosicché, se non altro sotto un profilo puramente statistico, viene in rilievo un argomento di sicuro impatto sulla giurisdizione, tale da interessare, a diverso titolo e in diversa misura, qualsiasi operatore del diritto. E poi, ecco quindi un'altra ragione per interessarsi a questo argomento, la formulazione del citato terzo comma dell'art. 339 c.p.c., a dispetto dell'apparente linearità, pone più di qualche problema interpretativo, tale da indurre a domandarsi se la (relativa) inappellabilità normativamente sancita per le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità non sia più apparente che reale. Per cominciare, può essere utile un po' di storia. L'attuale formulazione del terzo comma dell'art. 339 c.p.c. è effetto di una modifica introdotta dal d.lgs. n. 40/2006. In precedenza, ossia prima dell'entrata in vigore di tale riforma, tale terzo comma era formulato così:«sono altresì inappellabili le sentenze del giudice di pace pronunziate secondo equità». Tale formulazione se valeva ad escludere in assoluto la possibilità di proporre appello contro tali sentenze, non valeva invece ad escludere la ricorribilità per cassazione delle stesse, in virtù del generale principio dettato dal settimo comma dell'art. 111 Cost. (stando al quale «contro le sentenze (…) è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge») e di quanto previsto dal primo comma dell'art. 360 c.p.c., con l'effetto che l'attività della Corte di Cassazione, in pendenza di tale previgente formulazione della norma, era assorbita in una misura che poteva apparire irragionevole da tale genere di ricorsi. Peraltro, per effetto di tale sovraesposizione della Cassazione rispetto a ricorsi proposti contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, si ebbe anche una articolata elaborazione giurisprudenziale sul punto, finalizzata soprattutto ad individuare i limiti entro i quali doveva svolgersi l'esercizio dell'equità cosiddetta “sostitutiva” da parte del giudice di pace e, di conseguenza, l'ambito dell'esame di legittimità che la Corte di Cassazione era chiamata a compiere su tali sentenze. Di particolare rilievo, in questo quadro, risultò la sentenza n. 716/1999, resa dalla Cassazione a Sezioni Unite. In tale pronuncia, i giudici di legittimità, dopo aver dato conto del contrasto sorto in giurisprudenza in ordine alla portata e ai limiti del sindacato sulle sentenze pronunciate secondo equità, giungevano alla conclusione che in tali pronunce il giudice di pace non dovesse rispettare i “principi regolatori della materia”, ma unicamente le norme costituzionali e comunitarie, nonché le norme processuali. Su un quadro così sommariamente delineato si inserì, poi, una importante pronuncia della Corte Costituzionale, che con la sentenza additiva n. 206/2004 dichiarò l'incostituzionalità del secondo comma dell'art. 113 c.p.c. nella parte in cui non prevedeva che il giudice di pace, nel pronunciare secondo equità, dovesse osservare i “principi informatori della materia”. I tempi erano maturi, a quel punto, per un intervento legislativo che superasse, almeno nelle sue aspirazioni, i limiti delle disposizioni alle quali si è fatto cenno. La modifica venne così introdotta mediante l'art. 1 del d.lgs. n. 40/2006, così portando alla attuale formulazione del terzo comma dell'art. 339 c.p.c. il quale prevede, come precedentemente esposto, che le sentenze rese dal giudice di pace secondo equità a norma del secondo comma dell'art. 113 c.p.c. siano appellabili unicamente «per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia». In un solo colpo, la nuova formulazione del terzo comma dell'art. 339 c.p.c. superava definitivamente la sovraesposizione della Cassazione rispetto ai ricorsi proposti contro le sentenze del giudice di pace rese secondo equità e, al medesimo tempo, recepiva le indicazioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale in punto di limiti entro i quali avrebbe dovuto muoversi il giudizio secondo equità. Eccoci dunque tornati all'attualità, ossia alla attuale formulazione dell'art. 339 c.p.c. Quanto al secondo comma di tale disposizione, il quale prevede la inappellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità a norma dell'art. 114 c.p.c. (e, dunque, di quelle sentenze pronunciate tanto in primo grado, quanto in grado di appello, all'esito di cause vertenti su diritti disponibili nelle quali le parti abbiano fatto concorde richiesta di decidere secondo equità), lo stesso non pone invero particolari problemi interpretativi e comunque sullo stesso non ci si sofferma nel presente contributo. Più problematica, come si accennava in precedenza, l'interpretazione del terzo comma dell'art. 339 c.p.c., laddove fa riferimento ai limiti di appellabilità delle sentenze pronunciate secondo equità da parte del giudice di pace nelle cause di valore fino ad euro millecento. Il comma in questione precisa che tali provvedimenti definitori sono appellabili esclusivamente per “violazione di norme sul procedimento”, per “violazione di norme costituzionali o comunitarie” o, in ultimo, per violazione dei “principi regolatori della materia”. Solo pochi cenni per tratteggiare un po' più in profondità i limiti così individuati dalla norma, sorvolando quasi del tutto sulla davvero estesa giurisprudenza di legittimità occupatasi di discernere, di volta in volta, la riconducibilità o meno del motivo di impugnazione posto alla sua attenzione nell'ambito dell'uno o dell'altro dei limiti in questione. Quanto alla norme sul procedimento, viene comunemente osservato come il fatto che il giudice di pace sia abilitato a rendere la propria decisione secondo equità non comporti alcuna deroga alla necessaria osservanza delle norme processuali. Pertanto nel procedimento reso secondo equità occorrerà comunque osservare, solo per fare alcuni esempi, le disposizioni dettate in tema di rispetto del contraddittorio, quelle concernenti la corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché quelle dettate in tema di regolamentazione delle spese processuali. Quanto ai principi regolatori della materia, gli stessi devono essere identificati, stando alla giurisprudenza di legittimità espressasi sul punto, con gli aspetti essenziali della disciplina giuridica del rapporto controverso, tali per cui la pronuncia resa in violazione di uno di tali principi finirebbe per snaturare del tutto l'istituto giuridico al quale lo stesso si riferisce. Laddove con l'appello si deduca la violazione di un principio regolatore della materia, la parte appellante dovrà necessariamente indicare quale principio risulti essere stato violato dal giudice di pace e in che modo la regola equitativa applicata dal giudice di pace si ponga in contrasto con lo stesso (Cass. civ., n. 3005/2014). Il giudizio equitativo, infine, non potrà sottrarsi alla osservanza delle disposizioni costituzionali e di quelle comunitarie, con l'effetto che lo stesso potrà essere censurato, in sede di appello, anche sotto tale profilo. E' stato osservato come venga in rilievo, con riguardo al rimedio in questione, un appello a critica vincolata, potendo ritenersi ammissibile lo stesso solo nella misura in cui vengano sollevate censure riconducibili entro i predetti limiti. E, si badi, unicamente entro tali limiti può ritenersi ammissibile l'appello (è quanto può evincersi dalla recente Cass. civ., n. 769/2021, stando alla quale «il tribunale, in sede di appello avverso sentenza del giudice di pace, pronunciata in controversia di valore inferiore al suddetto limite, è tenuto a verificare, in base all'art. 339, comma 3, c.p.c. (…), soltanto l'inosservanza delle norme sul procedimento, di quelle costituzionali e comunitarie e dei principi regolatori della materia, che non possono essere violati nemmeno in un giudizio di equità»), neppure residuando margini per l'esperimento di mezzi di impugnazione, contro la sentenza resa dal giudice di pace secondo equità, diversi dall'appello (Cass. civ., n. 34524/2021). Va da sé che laddove l'appello risultasse ammissibile e meritasse accoglimento, la sentenza definitoria del giudizio di appello, fatte salve le ipotesi di rimessione al primo giudice nei soli casi previsti dall'art. 354 c.p.c., non potrebbe che essere decisa nel merito secondo diritto (non essendo prevista, eccezion fatta per il caso menzionato dall'art. 114 c.p.c., una decisione secondo equità “sostitutiva” da parte del Tribunale). Conclusioni
Si accennava, in precedenza, come le limitazioni imposte normativamente al generale principio di inappellabilità delle sentenze di valore inferiore a millecento euro pronunciate secondo equità siano tali da condurre al rischio che tale inappellabilità sia più apparente che reale: davvero troppo ampie le suddette limitazioni per non ritenere configurabile, a seconda dei casi, una violazione di norme sul procedimento, oppure un superamento dei principi regolatori della materia o, infine, una violazione di norme costituzionali o comunitarie. Certo, tale considerazione, lungi dal comportare una automatica valutazione di ammissibilità dell'appello, deve invece imporre un vaglio particolarmente attento sia in merito alla specifica allegazione, in sede di appello, dei motivi dai quali deriverebbe la violazione, da parte del giudice di pace, dei limiti imposti all'esercizio dell'equità cosiddetta sostitutiva, sia in merito alla effettiva sussistenza di una o più delle violazioni contestate. Solo laddove siano riscontrate tale violazioni l'appello potrà ritenersi ammissibile e suscettibile di eventuale accoglimento. Riferimenti
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