Condizioni ambientali e personali di esclusione dell'intento persecutorio: quando viene negato il mobbing o lo straining

12 Luglio 2022

La breve ordinanza in commento, nel confermare la pronuncia della Corte d'Appello di Bari con cui era stata rigettata la domanda di risarcimento del danno da mobbing...
Il caso: escluso il mobbing nell'ipotesi di conflittualità lavorativa tra colleghi

La breve ordinanza in commento, nel confermare la pronuncia della Corte d'Appello di Bari con cui era stata rigettata la domanda di risarcimento del danno da mobbing svolta dalla dipendente di un ente universitario, ha ribadito un principio ormai radicato nella giurisprudenza di merito e di legittimità: non è configurabile la fattispecie del mobbing nel caso di conflittualità lavorativa tra colleghi.

Questo perché, secondo la Suprema Corte, gli screzi e i conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro valgono di per sé ad escludere la volontà persecutoria, vale a dire uno degli elementi essenziali della quadripartita fattispecie di diritto pretorio (ex multis, Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass. civ., sez. lav., ord. 4 marzo 2021, n. 6079; Cass. sez. lav., ord. 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass. civ., sez. lav., ord. 11 dicembre 2019, n. 32381), che ricordiamo essere costituita da:

a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, Corte Cost. 19 dicembre 2003, n. 359; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698) che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;

b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;

d) l'elemento psicologico-soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi [1];

In particolare, l'esame delle pronunce intervenute sul tema della conflittualità nell'ambito delle condotte persecutorie (principalmente mobbing e straining) ha evidenziato l'esistenza di un orientamento costante, volto a configurare nelle condizioni ambientali o personali delle vere e proprie cause di esclusione dell'intento persecutorio e, conseguentemente, anche della fattispecie mobbizzante o strainizzante [2].

Andiamo ad analizzarle partitamente.

Le condizioni di esclusione ambientali: conflittualità lavorativa, clima di tensione, ostruzionismo

Alle fonti di questo consolidato orientamento si colloca una pronuncia del Tribunale di Torino, sez. lav., 18 dicembre 2002, est. Sanlorenzo, che nel respingere la domanda di mobbing proposta da una lavoratrice per l'assenza “di un coerente piano di terrorismo psicologico”, ha posto in rilievo quale fattore di esclusione “una situazione di conflittualità, reciprocamente alimentata, che indubbiamente rendeva difficile la vita in quell'ambiente di lavoro, ma che non può e non deve essere interpretata in senso unidirezionale”.

In quest'ottica, è stato imputato alla ricorrente “di aver sempre affrontato ogni situazione fisiologicamente conflittuale che le si presentava, non certo assumendo l'atteggiamento tipico della vittima di mobbing”, avendo al contrario manifestato “un grado di reattività anche elevato, nei confronti dei colleghi, quando le è sembrato di essere vittima di atteggiamenti ingiusti”.

Naturale corollario del principio enunciato dal tribunale torinese è la successiva pronuncia della Corte d'Appello di Bologna, sez. lav., 28 aprile 2010, n. 107, che ha introdotto l'ontologica distinzione tra conflitto e vessazione, operante con riguardo al grado di inermità ed incapacità di difendersi del soggetto vessato: se nel conflitto ci può essere e talvolta c'è uno sconfitto, nella vessazione c'è soltanto una vittima sostanzialmente non in grado di difendersi o di difendersi con un minimo di adeguatezza.

La successiva giurisprudenza intervenuta tanto in materia di mobbing quanto in materia di straining, ha pertanto costantemente escluso la sussistenza dell'intento persecutorio allorché sia stata accertata in concreto una situazione di conflittualità o di tensione nell'ambiente lavorativo, in particolare:

- nel caso di un complesso contenzioso che aveva talmente inasprito gli animi tra le parti, da condurre all'irrogazione di ben otto sanzioni disciplinari –riconosciute legittime in sede giudiziale- dovute alla situazione di tensione accentuatasi a causa delle condotte disciplinarmente rilevanti tenute dal lavoratore (Cass., 5 dicembre 2018, n. 31485; conf. Trib. Roma, sez. lav., 10 novembre 2021, n. 9247,nel caso di una sanzione disciplinare non impugnata, di una contestazione disciplinare archiviata e di alcune richieste di permessi, di ferie, di pause e di cambio turni non concesse, individua una situazione di «disagio lavorativo e una situazione di conflittualità che non ha nulla a che fare con il mobbing e che, tantomeno, rivela un qualche intento discriminatorio/vessatorio nei confronti del ricorrente»);

- nel concorso della lavoratrice nella creazione e/o nel mantenimento di una situazione di conflittualità e di scarsa serenità nell'ambiente di lavoro, tale da escludere il prospettato straining (Trib. Pavia, sez. lav., 22 maggio 2020, n. 85);

- nell'inattività lavorativa dovuta all'atteggiamento ostruzionistico del prestatore di lavoro, di fatto sfociato in un inadempimento della propria obbligazione lavorativa in luogo dell'invocato straining (Trib. Isernia, sez. lav., 14 aprile 2022);

- nella degenerazione dei rapporti interpersonali all'interno dell'azienda tale da creare una spaccatura tra colleghi, sostanziatasi in un atteggiamento di reciproca diffidenza espresso dal rifiuto di condividere la pausa caffè o nel fatto di porre in essere una forma di ostruzionismo lavorativo (nel caso di specie, la mancata condivisione dei cataloghi di un cliente) di per sé inidonea ad arrecare pregiudizi lavorativi, non potendosi dunque configurare il mobbing (Trib. Ivrea, sez. lav., 30 agosto 2010, n. 94);

- nella conflittualità delle relazioni personali esistenti all'interno dell'ufficio, in un contesto di difficoltà nei rapporti interpersonali tali da generare tensioni e problematiche costituenti una condizione di incompatibilità ambientale, che impone al datore di lavoro, soprattutto se pubblico, di intervenire ai sensi dell'art. 97 Cost. per assicurare efficienza, legittimità, trasparenza dell'azione amministrativa e di garantire la serenità necessaria ai fini del corretto espletamento delle prestazioni lavorative; tale situazione può e deve essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti datoriali siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore e, dunque, per escludere la fattispecie del mobbing (Cass., 10 novembre 2017, n. 26684; conf. Cass., 23 marzo 2020, n. 7487);

- in un clima lavorativo fortemente conflittuale e tale da generare una patologia psichica temporanea nel lavoratore, in cui tuttavia è stata esclusa la responsabilità datoriale per mobbing in ragione dell'inesistenza di un contesto unitario e preordinatamente persecutorio attribuibile alla responsabilità soggettiva del superiore gerarchico (Cass. 14 ottobre 2021, n. 28120);

- nel caso di accertamento di una situazione lavorativa conflittuale che aveva giustificato l'adozione da parte del datore di determinati provvedimenti organizzativi, disconoscendo l'invocata responsabilità per mobbing (Cass. 21 aprile 2009, n. 9477);

Rispetto a questo radicato orientamento, va segnalata Cass., 12 luglio 2019, n. 18808,che si esprime in senso contrario, smentendo espressamente il principio secondo cui per configurare il mobbing (o lo straining) quale vessazione nei confronti del dipendente sia necessario che non ricorra la conflittualità reciproca.

Infatti, pur a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non è certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori.

Egli può infatti esercitare i propri poteri direzionali ex art. 2104 c.c., comma 2 (come nel caso del potere disciplinare), ma nei limiti stabiliti dalla legge e comunque nel rispetto di un canone generale di continenza, espressivo dei doveri di correttezza propri di ogni relazione obbligatoria, tanto più se destinata ad incidere continuativamente sulle relazioni interpersonali.

Canone che è certamente e comunque superato allorquando i comportamenti datoriali - ovverosia proprio della parte che nell'ambito del rapporto si pone in posizione di supremazia in quanto titolare del potere di dirigere i propri dipendenti - ricevano una qualificazione in termini di oggettiva vessatorietà.

Sotto altro profilo invece se, come abbiamo poc'anzi visto, la conflittualità lavorativa vale ad escludere l'esistenza della volontà punitiva del mobber e dello strainer, inibendo in radice l'accertamento della relativa fatttispecie illecita, non si può tuttavia affermare che il datore di lavoro, per ciò stesso, possa sempre andare esente da responsabilità, godendo di una sorta di “conflittualità immunitaria”.

Al contrario una risalente ed acuta pronuncia di merito (Trib. Forlì, sez. lav., 6 febbraio 2003, est. Sorgi [3]) ha affermato, con riguardo all'impiego pubblico, il dovere del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., 2 Cost. e 97 Cost. di intervenire in chiave preventiva o quantomeno risolutiva dei contrasti eventualmente sorti sul luogo di lavoro tra dipendenti: contrasti che, nel generare uno stato di conflitto, non sono soltanto lesivi della dignità umana di tutti i soggetti coinvolti ma, di più ed oltre, comportano anche la violazione del cogente dovere di buon andamento della Pubblica Amministrazione.

Variazioni sul tema delle condizioni di esclusione ambientali: le amministrazioni strutturate gerarchicamente

Nell'accertare in modo molto restrittivo e rigoroso i casi di mobbing e di straining portati alla propria attenzione, la giustizia amministrativa ha introdotto nella prassi un principio che può rivelarsi molto “scivoloso”, secondo cui il giudice nell'accertamento delle condotte persecutorie deve considerare le peculiarità dell'ambiente di lavoro e, specificamente, la realtà particolare delle Amministrazioni gerarchicamente organizzate (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28; Cons. Stato 4 febbraio 2015, n. 529).

Si tratta di una prassi pretoria che, nei casi ad esempio di “mobbing militare”, si sostanzia nel dovere di considerare come in tale ambiente, a causa dello stretto vincolo gerarchico che connota le relazioni tra superiori e inferiori, il pericolo di comportamenti vessatori risulti più elevato tenuto conto dell'ampio potere a cui i dipendenti sono sottoposti (Tar Molise, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 23); il che, per altro verso, rende anche più sfuggente la distinzione tra il legittimo esercizio delle prerogative di sovra-ordinazione rispetto al patologico abuso di esse, che può essere colta solo.

A questo scopo, al fine cioè di consentire una chiara demarcazione tra l'una e l'altra categoria di comportamenti e individuare le condotte effettivamente mobbizzanti, occorre una rigorosa prova della sussistenza di comportamenti vessatori unificabili dall'intento di perseguitare, isolare, screditare il soggetto passivo del comportamento, ovverosia dal cosiddetto “dolo specifico” (Tar Molise, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 23, cit.).

Il naturale approdo di questo orientamento è rappresentato da una pronuncia del Consiglio di Stato, che ha sancito come nei casi di conflittualità lavorativa non si debba sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l'insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi possa derivare, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale.

Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzati per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate (Cons. Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 591).

La soluzione apprestata, tuttavia, non pare garantire le vittime di condotte persecutorie nei contesti più fortemente gerarchizzati –ancor più a rischio rispetto agli ambienti lavorativi ordinari-, sostanziandosi al contrario, come abbiamo visto, nella penalizzante tendenza del giudice di richiedere alla stessa vittima la rigorosa prova dell'elemento psicologico-soggettivo nella forma del dolo specifico (ex multis,Tar Molise, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 23,cit.;Cons. Stato, sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4135; Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1388).

Le condizioni di esclusione personali: le percezioni soggettive e le difficoltà caratteriali o relazionali della vittima

Nel deposito alluvionale delle pronunce intervenute in materia è possibile rinvenire un altro orientamento giurisprudenziale, che esclude l'esistenza dell'intento persecutorio nel caso in cui le asserite vessazioni denunciate siano state in realtà frutto di difficoltà relazionali o della percezione soggettiva di disagio o di frustrazione della vittima.

Ne è derivato in concreto, nella giurisprudenza di merito e di legittimità, il disconoscimento della volontà persecutoria alla base degli atti denunciati, allorché la vessatorietà degli atti derivi unicamente dalla percezione soggettiva della vittima, definita a seguito di CTU medico-legale come soggetto “tendente a personalizzare come ostile ogni avvenimento e tale da creare tensione nei rapporti di lavoro” (Cass. 28 agosto 2013, n. 19814) o nel caso in cui la documentazione medica prodotta dalla stessa lavoratrice ed attestante “labilità emotiva” ed “elevata sensibilità interpersonale” costituisca la prova che “i fatti lamentati dalla lavoratrice appaiono più da ascrivere a difficoltà relazionali, che sono connaturate a prestazioni lavorative rese in contesti organizzati secondo criteri gerarchici, e non costituiscono puntuali indici significativi di mobbing” (Trib. Monza, sez. lav., 19 ottobre 2021, n. 501,con nota di TAMBASCO, La giustizia case by case nell'accertamento delle condotte violente e moleste sul lavoro).

Non manca inoltre, in pronunce in cui viene menzionata la conflittualità lavorativa quale causa principale di esclusione dell'intento persecutorio, anche il riferimento alla “percezione soggettiva di disagio o di frustrazione da parte della lavoratrice” (Trib. Ivrea, sez. lav., 30 agosto 2010, n. 94, cit.).

Variazioni sul tema: la preesistenza di condizioni di fragilità nella vittima

Tuttavia, il tema delle condizioni di esclusione per le difficoltà relazionali o per le percezioni soggettive della vittima presenta non di rado dei contorni sfumati, che tendono a confondersi con la questione, anch'essa affrontata dalla giurisprudenza, della preesistenza di una situazione di fragilità, che incide tuttavia sul diverso piano del nesso eziologico.

L'orientamento giurisprudenziale è infatti consolidato nel senso di affermare come “non sostenibile che la sussistenza di un determinato vissuto possa escludere, anche solo in parte, la rilevanza causale di fatti illeciti comprovati (nel caso di specie, gli atteggiamenti discriminatori e vessatori) nel deterioramento dello stato di salute di colui che ne è vittima” (Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475).

Infatti, secondo la citata pronuncia, “sicuramente ogni persona reagisce ad eventi stressogeni con diverse modalità, riconducibili, anche, al proprio carattere ed alle proprie esperienze; ma questo non è un motivo valido per escludere l'efficacia causale degli eventi stessi su uno stato di malattia, ove ne sia provata sia l'esistenza sia il nesso causale.

Per fondare eventuale responsabilità è sufficiente, quindi, che la condotta, dolosa o colposa, dell'agente abbia avuto efficacia causale anche solo a livello di concausa, nella produzione dell'evento dannoso” (Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 22 marzo 2021, n. 475, cit., in un caso di vittima affetta da un preesistente narcisismo; conf. Cass., sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400; Cass., sez. lav., 19 luglio 2005, n. 15183; secondo Cass. 18262/2007, tuttavia, sebbene non influisca sull'an del danno, tuttavia la fragilità preesistente può incidere sul quantum).

Ne deriva dunque che la particolare fragilità del soggetto vittima di mobbing non vale a escludere il nesso di causalità tra i comportamenti del datore di lavoro e i danni subiti dal dipendente, dovendo il datore rispondere per l'intero danno e non solo proporzionalmente, stante il principio, affermato in giurisprudenza, per cui «un evento dannoso è da considerarsi causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo » (Cass. sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400, cit.).

Diversa è l'ipotesi, secondo la medesima pronuncia, in cui il danno sia preesistente e indipendente dal comportamento dell'agente, ma questo abbia causato un aggravamento successivo: in questo caso, il datore di lavoro risponde solo per il maggior danno causato dal suo intervento e non dell'intero danno.

Così, nella fattispecie esaminata dalla Corte, pur essendo confermata la condanna per i comportamenti di mobbing, la quantificazione del danno liquidata al lavoratore è stata diminuita, proprio sulla base del fatto che il lavoratore era già affetto da problematiche psicologiche e che quindi i problemi dovuti all'ambiente di lavoro avevano avuto solo l'effetto di aggravare la situazione preesistente (Cass., sez. lav., 8 giugno 2007, n. 13400, cit.).

Nello stesso senso, da ultimo,Cass., sez. lav., 4 novembre 2021, n. 31742ha ribadito chelo stato di salute anteriore della vittima può assumere rilevanza ai fini della quantificazione del risarcimento, nel rispetto del principio della causalità giuridica, solo qualora in epoca antecedente al fatto illecito il danneggiato fosse già affetto da patologia con effetti invalidanti, sui quali si è innestata la condotta antigiuridica, determinando un aggravamento che, in assenza del fattore sopravvenuto, non si sarebbe prodotto; in quest'ultima ipotesi il giudice è tenuto a stimare il danno biologico tenendo conto della patologia pregressa, perché la lesione manifestatasi all'esito dell'azione illecita non è nella sua interezza una conseguenza immediata e diretta di quest'ultima, ma lo è soltanto per la parte che, secondo il giudizio controfattuale, non si sarebbe verificata in assenza della condotta antigiuridica tenuta dal danneggiante (Cass. n. 13400/2007; Cass. n. 27524/2017; Cass. n. 28986/2019; Cass. n. 17555/2020); alla preesistenza di una patologia non può, invece, essere assimilato un mero "stato di vulnerabilità", ossia una "predisposizione" non invalidante in sé, che non esclude né la causalità materiale, per il principio dell'equivalenza delle cause, né quella giuridica, perché il danno risulta comunque conseguenza diretta ed immediata dell'azione illecita (Cass. 20836/2018; Cass. n. 15991/2011)”.

Note

[1] Sugli orientamenti giurisprudenziali in materia di accertamento dell'elemento psicologico, si rimanda a TAMBASCO, In dubio pro mobber: la prova diabolica dell'intento persecutorio nella fattispecie giurisprudenziale del mobbing, Labor, 18 maggio 2022, https://www.rivistalabor.it/in-dubio-pro-mobber-la-prova-diabolica-dellintento-persecutorio-nella-fattispecie-giurisprudenziale-del-mobbing.

[2] Quest'ultima intesa nella sua originaria accezione di “mobbing attenuato”; più precisamente, mentre il mobbing si caratterizza per una pluralità di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento).

Il discrimine tra le due fattispecie, dunque, sarebbe soltanto sul piano dell'elemento oggettivo, essendo necessaria, in entrambi i casi, la sussistenza dell'elemento soggettivo (ovverosia l'intento persecutorio): restiamo sempre nel genus delle condotte persecutorie, si veda TAMBASCO, La nuova vita dello straining: dal mobbing attenuato allo stress forzato, Labor, 29 maggio 2022, https://www.rivistalabor.it/la-nuova-vita-dello-straining-dal-mobbing-attenuato-allo-stress-forzato/.

[3] Nel caso di specie il datore di lavoro (un'azienda sanitaria locale) veniva condannato al pagamento del risarcimento dei danni professionali cagionati alla dipendente (nella misura di 7000,00 euro), in ragione dell'impossibilità per la lavoratrice di elevarsi professionalmente in una realtà lavorativa conflittuale: la responsabilità dell'ente veniva affermata considerando che «un intervento dell'amministrazione tempestivo ed efficace in termini di superamento della conflittualità si sarebbe collocato in un'ottica di buona amministrazione, oltre che fornire una risposta alle continue richieste di intervento della propria dipendente».

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