L'amministratore stipula un contratto con sé stesso: è conflitto di interessi penalmente rilevante

18 Luglio 2022

Configura un conflitto di interessi, penalmente rilevante nell'ambito del reato di infedeltà patrimoniale, la condotta dell'amministratore di una società di capitali che stipuli con sè stesso un contratto di agenzia, e provveda a pagarsi le provvigioni.
Massima

In tema di infedeltà patrimoniale, la sussistenza del necessario presupposto del conflitto di interessi fra la posizione dal dirigente e l'ente può dirsi sussistente in caso di pagamento a sé stesso, da parte dell'amministratore, di provvigioni maturate quale agente quando tale pagamento o la stipula del contratto di agenzia si sia verificata in assenza delle condizioni previste dall'art. 1395 c.c.

Il caso

In sede di merito, il socio amministratore di una società era assolto per il delitto di cui all'art. 2624 c.c., essendo lo stesso accusato di essersi procurato un ingiusto profitto, avendo nei confronti della società di appartenenza in interesse in conflitto (essendo imminente la sua revoca dalla carica di amministratore), per aver disposto un bonifico di euro 27.563,28 dal conto corrente della società a quello suo personale, così cagionando all'impresa collettiva un danno patrimoniale.

Le corti territoriali giungevano a tale conclusione escludendo che nel caso di specie sussistesse il necessario conflitto di interessi fra soggetto agente e società. Partendo dal presupposto che l'atto di disposizione patrimoniale adottato in proprio favore dall'imputato quando quest'ultimo era ancora amministratore della società rientrava nei suoi compiti istituzionali, avendo egli il potere di provvedere a tutti i pagamenti da effettuare in nome e per conto della società amministrata, rilevavano i giudici di merito che tale atto doveva considerarsi del tutto legittimo, perché destinato a soddisfare il credito vantato dallo stesso imputato nei confronti della società, con riferimento alle provvigioni dovutegli sugli ordini di acquisto da lui conclusi in qualità di agente dell'impresa collettiva. Di conseguenza, ad avviso della corte territoriale, non è configurabile alcun conflitto di interesse in capo all'imputato, perché erano sempre state legittimamente adottate le delibere con cui si convenne di stipulare con quest'ultimo un contratto di agenzia e di attribuirgli il ruolo di componente del consiglio di amministrazione, con il compito specifico di provvedere alla corresponsione dei pagamenti in proprio favore anche nella sua qualità di agente di commercio e su tali delibere, oltre che sul contratto di agenzia, trovava fondamento l'atto dispositivo dall'accusato posto in essere in suo favore.

Le parti civili presentavano ricorso per cassazione sostenendo non essere corretta la ricostruzione del concetto di conflitto di interesse presente nelle decisioni di assoluzione.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Il reato di infedeltà patrimoniale è previsto dall'art. 2634 c.c., il quale punisce gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale; il delitto è procedibile a querela della persona offesa.

Tale fattispecie è stata introdotta con la riforma del diritto penale societario del 2001, ritenendo che le altre figure delittuose già presenti nel nostro sistema penale (in particolare, del reato di appropriazione indebita e del reato di conflitto di interessi) a fornire adeguate risposte alle esigenze di protezione del patrimonio sociale contro gli abusi posti in essere da parte dei titolari dei poteri gestori. Infatti, il bene giuridico protetto dalla disposizione in commento va sicuramente rinvenuto nel patrimonio sociale, come si evince dal fatto che, per la sussistenza del reato, la norma richieda un evento di danno di natura patrimoniale a carico della persona giuridica e dalla procedibilità a querela (VENAFRO, Art. 2634. Infedeltà patrimoniale, in Leg. Pen., 2003, 508; FOFFANI, Le infedeltà, in ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano 2002, 353; AMATI, Infedeltà patrimoniale, in A. ROSSI (a cura di), Reati societari, Torino 2005, p. 402; D. FONDAROLI, Introduzione ai delitti di infedeltà patrimoniale, ibidem, 393. Nel senso che la fattispecie tutela anche profili di carattere non patrimoniale, dovendosi ricomprendere nel bene giuridico protetto anche il dovere oggettivo di correttezza, MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 193; ZANOTTI, Il nuovo diritto penale dell'economia, Milano 2006, 258).

Quanto ai soggetti attivi, è evidente che si è di fronte ad un reato proprio, che può essere realizzato dagli amministratori, direttori generali e dai liquidatori, ovvero da quanti sono titolari dei poteri di gestione dei beni sociali. Le suddette qualifiche, peraltro, vanno intese in senso funzionale, per cui le condotte delittuose potranno essere riferite ai sensi dell'art. 2639 c.c., anche a chi è tenuto a svolgere le medesime funzioni, sia pur diversamente qualificate, nonché a chi svolge in maniera continuativa e significativa i poteri tipici inerente alle suddette qualifiche; quanto ai sindaci, secondo alcuni autori, essi potranno rispondere del delitto solo a titolo di concorso con i soggetti qualificati (BELLACOSA, Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e sanzioni civili, Milano 2006, 76; ACQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, in AA.VV, La riforma dei reati societari, a cura di C. PIERGALLINI, Milano 2004, 174).

La condotta prevista per l'integrazione del delitto in commento presuppone l'esistenza di una situazione di conflitto di interessi. La dottrina ritiene che tale contrasto sussista quando, in una determinata operazione economica, l'interesse della società e quello del soggetto attivo siano collidenti, nel senso di trovarsi in rapporto di obiettivo antagonismo non potendo essere contestualmente soddisfatti in modo completo. Sempre alla dottrina si deve una compiuta definizione dei caratteri del conflitto di interessi, avendo numerosi autori sostenuto che tale contrasto deve essere:

1) oggettivamente valutabile, essendo esclusa la rilevanza di antagonismi di natura meramente psicologica e soggettiva, ed il relativo giudizio va condotto secondo rigorosi parametri oggettivi di tipo economico-patrimoniale;

2) effettivo e reale;

3) preesistente all'operazione economica;

4) attuale, non dovendo il conflitto essere venuto meno al momento del compimento dell'operazione economica (ACQUAROLI, Alcune osservazioni sul reato di infedeltà patrimoniale alla luce del nuovo diritto societario, in AA.VV, La riforma dei reati societari, a cura di C. PIERGALLINI, Milano 2004, 174; ALAGNA, Note sul concetto penalistico di conflitto di interessi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2003, p. 746). Quanto alla natura degli interessi in contrasto, è indiscusso che l'interesse della società debba avere natura economico – patrimoniale, mentre si discute – ma la risposta è prevalentemente positiva – se l'interesse vantato dal soggetto attivo possa avere anche carattere non economico.

Particolari problematiche si pongono con riferimento ai rapporti fra la disciplina penalistica in esame e la normativa civilistica in tema di conflitto di interessi. Infatti, l'art. 2391 c.c. impone all'amministratore di dare notizia non dell'eventuale interesse in conflitto con quello della società, bensì di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, egli abbia in una determinata operazione, precisandone natura, termini e portata e nel caso si tratti di amministratore delegato, questi dovrà astenersi dal compimento dell'operazione, investendone l'organo collegiale. Ciò determina che la tutela penale del delitto d'infedeltà è destinata ad intervenire in un momento successivo rispetto a quella civilistica, richiedendosi, da un lato, in capo all'amministratore, un vero e proprio conflitto di interessi con quello della società e dall'altro la deliberata volontà di cagionare un danno alla società (SCOPINATO, Infedeltà patrimoniale, in SCHIANO DI PEPE, Diritto penale delle società, II ed., Milano 2003, 283; FOFFANI, Le infedeltà, in A. ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano 2002, 353; SCHIAVANO, Riflessioni sull'infedeltà patrimoniale societaria (art. 2634 c.c.), in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2004, 815).

Secondo alcuni autori, inoltre, la decisione del consiglio di amministrazione di procedere al compimento dell'operazione, anche se viziata dalla situazione di conflitto, proietterà la sua efficacia scriminante rispetto all'amministratore infedele, anche dinanzi all'esito pregiudizievole dell'operazione. In senso contrario, però, si osserva che tale impostazione conferisce all'organo gestorio la potestà di disporre di interessi che invece fanno capo ad un diverso soggetto, ovvero l'assemblea dei soci – cui, per l'appunto, è rimessa la scelta circa la proposizione della querela per il perseguimento del fatto delittuoso. Si ricorda comunque che l'omessa comunicazione dei dati richiesti dall'art. 2391 c.c. è penalmente sanzionata dall'art. 2629 bis c.c..

Il conflitto di interessi non deve necessariamente far capo al soggetto qualificato ma può essere anche riferito a terzi soggetti.

La condotta descritta dalla previsione in commento può assumere due modalità:

- il diretto e materiale compimento di atti di disposizione dei beni sociale e

- la partecipazione alla deliberazione relativa ai medesimi atti dispositivi. La previsione di tale duplice modalità di realizzazione della fattispecie rende il delitto in parola realizzabile – a differenza di quanto accadeva in precedenza per la previsione di cui all'art. 2631 c.c. – anche da un organo monocratico, come l'amministratore unico, e si tratta di una novità assolutamente rilevante, giacché così viene a coprirsi un grave vuoto di tutela che invece era dato registrarsi nella vigenza della preesistente normativa.

Nella nozione di beni sociali, oggetto dell'atto di disposizione, rientrano tutti i beni della società avente valenza patrimoniale, quindi i beni mobili, i beni immobili, i beni materiali ed immateriali, i brevetti, l'avviamento ecc., non necessitando che la società abbia sugli stessi un diritto di proprietà, essendo sufficiente un diritto reale limitato o comunque un potere dispositivo che, ridotto o modificato, sarebbe idoneo a cagionare un danno patrimoniale alla stessa società.

Gli atti di disposizione devono incidere sul patrimonio della società: non rientrano dunque nella fattispecie in commento né gli atti a carattere meramente organizzativo privi di disposizione a contenuto patrimoniale, né i comportamenti omissivi – e tale lacuna della previsione è decisamente criticabile, posto che l'aggressione degli interessi patrimoniali può ben avvenire, ad esempio, mediante una mancata richiesta giudiziale di prestazione debitoria. E' discusso invece se abbiano rilevanza penale le condotte di assunzione di obbligazioni a carico del patrimonio sociale; a quanti ne sostengono la inerenza al dettato di cui all'articolo in commento, si oppone che l'assunzione di obbligazioni comporta una disposizione di beni sociali solamente potenziale.

Quanto alla condotta delittuosa consistente nel concorrere a deliberare atti di disposizione, perché possa dirsi violata la previsione criminosa occorre che il soggetto abbia apportato un contributo causale effettivo all'adozione della delibera, non essendo sufficiente la mera partecipazione alla votazione, anche se non occorre che il voto del soggetto interessato sia decisivo o determinante per l'adozione della deliberazione. Il concorso nella deliberazione può assumere qualsiasi forma ed è compatibile finanche con la mancata partecipazione alla votazione con voto favorevole alla delibera: si pensi all'amministratore che si astenga dal voto o voti in senso contrario ma si attivi per l'assunzione della decisione favorevole alla sua persona.

La fattispecie in esame è costruita come reato di evento, essendo richiesto il realizzarsi di un danno patrimoniale a carico della società: il legislatore, dunque, ha ritenuto di dover abbandonare qualsiasi ipotesi o modalità di tutela anticipata del bene giuridico considerato. Prevedendo un reato di evento, si è quindi esclusa la rilevanza penale di tutte quelle condotte di gestione del patrimonio sociale rischiose ma al contempo necessarie, caratterizzate dalla semplice commistione di interessi, e che l'imprenditore a volte si vede costretto a porre in essere nella gestione dell'impresa.

Ovviamente, il danno – che deve essere conseguenza diretta dell'atto di disposizione o della deliberazione della persona giuridica - considerato dalla fattispecie è esclusivamente quello di natura patrimoniale. La dottrina ritiene che in tale nozione di danno rientri non il solo danno emergente ma anche il cosiddetto lucro cessante.

Ai sensi del comma 2 dell'art. 2634 c.c., il conflitto fra interessi può porsi (oltre che nell'ipotesi di un contrasto fra la posizione del soggetto attivo e la persona giuridica, anche) fra il singolo e terzi soggetti estranei alla persona giuridica: il comma 2, infatti, conferisce rilievo anche alle condotte poste in conflitto di interessi “in relazione a beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi, cagionando a quest'ultimi un danno patrimoniale”. Tale disposizione presenta alcune criticità con riferimento al rapporto con la fattispecie contravvenzionale di gestione infedele di patrimoni mobiliari, di cui all'art. 167 d.lgs. n. 58/1998: secondo la prevalente interpretazione, la contravvenzione conserverebbe un residuo spazio di applicazione nei soli casi di amministrazione infedele posta in essere da un intermediario non costituito in forma associata, essendo peraltro il rapporto fra le due fattispecie non componibile nemmeno ritenendo il reato di cui all'art. 2634 c.c. più grave di quello disciplinato dal testo unico della finanza e ciò in quanto il reato di cui all'art. 167 TUF –pur avendo natura contravvenzionale - è caratterizzato da una pena detentiva più alta nel minimo rispetto a quella di cui all'art. 2634 c.c.; in ogni caso, il reato di cui all'art. 167 citato non richiede, quale presupposto per la sua commissione, un preesistente conflitto di interessi fra il soggetto attivo ed il terzo, essendo sufficiente una violazione formale delle norme che regolano tali conflitti.

Quanto all'elemento soggettivo è il dolo specifico del fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, in maniera intenzionale rispetto alla causazione del danno. Il soggetto deve dunque agire nel perseguimento di un interesse proprio confliggente con quello della società, con la conseguenza che il delitto non sussiste laddove – pur in presenza di un'operazione economica dannosa per la società – il perseguimento dell'interesse extrasocietario non abbia avuto un'influenza preminente nella condotta del singolo. Certo, pare incongruo richiedere che il soggetto – oltre al soddisfacimento del proprio personale interesse – debba volere anche il danno per la persona giuridica, obiettivo che il soggetto agente invece cercherà ovviamente di evitare o il cui verificarsi sarà al più per lui indifferente una volta ottenuto il risultato da lui personalmente voluto.

Il risultato cui l'agente deve indirizzarsi con la propria condotta non deve avere necessariamente natura patrimoniale. Quanto all'ingiustizia del profitto, l'espressione non richiama parametri normativi esterni alla disposizione, alla ricerca di una illiceità speciale, desumibile dal contrasto della condotta con altre norme dell'ordinamento, giacché è ingiusto il profitto che sia stato perseguito in presenza del contrasto di interessi ed in quanto esprima la scelta a favore del polo extrasociale dell'astratto conflitto su cui si fonda la fattispecie.

Con riferimento alla fattispecie di cui al comma 2 dell'art. 2634 c.c., per la sussistenza del reato non è richiesta l'intenzione di cagionare un danno, con la conseguenza che, qualora l'infedeltà concerna beni posseduti o amministrati dalla società per conto terzi, potrebbero assumere rilievo anche ipotesi di dolo eventuale. Per superare l'evidente contraddittorietà con la disciplina che in relazione all'elemento soggettivo detta il primo comma della medesima disposizione si è proposto di richiedere anche per l'ipotesi in esame il dolo intenzionale, posto che “si tratta del medesimo reato diversamente orientato casualmente”.

Il delitto in discorso è procedibile a querela della persona offesa, il che da un lato ha esposto la riforma in commento a critiche aspre da parte della dottrina e dall'altro determina significative problematiche – come appunto accaduto nel caso di specie – circa l'individuazione dei soggetti titolari del relativo diritto e quindi in ordine alla definizione della persona offesa del reato in esame (MANCUSO, Le condizioni di procedibilità nel nuovo diritto penale societario, in F. GIARDA – S. SEMINARA (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, Padova 2002, 651).

Quanto ai rapporti con altre fattispecie criminose, prima dell'entrata in vigore della fattispecie in esame si discuteva circa la possibilità di ricondurre i comportamenti distrattivi tenuti dagli amministratori di società nell'alveo della previsione di cui all'art. 646 c.p., con riferimento all'ipotesi di utilizzo del patrimonio sociale per finalità diverse da quelle alle quali lo stesso era destinato ed in particolare in relazione alla costituzione di fondi extrabilancio ed all'erogazione degli stessi in favore di pubblici ufficiali o di partiti politici o di organo di stampa o di società controllate, con un indiretto vantaggio per la società controllante. La giurisprudenza in più occasioni ha risposto in senso favorevole al quesito, ma un orientamento consistente escludeva che potesse essere qualificata distrattiva, e tantomeno appropriativa, un'erogazione di denaro che, pur compiuta in violazione delle norme organizzative della società, rispondesse ad un interesse riconducibile anche indirettamente all'oggetto sociale, per cui né il versamento dei fondi extrabilancio su conti non formalmente riconducibili alla società, né la destinazione di tali fondi al perseguimento con mezzi illeciti degli interessi sociali, ad esempio con le erogazioni di finanziamenti illegali a partiti politici o a giornalisti, integravano gli estremi dell'appropriazione indebita” (Cass., sez. II, 23 giugno 1989, Bernabei, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, 266; Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, Cusani, in Foro It., 1998, II, c. 517). Oggi, si ritiene che la fattispecie di infedeltà patrimoniale ed il delitto di appropriazione indebita, presentino una diversità strutturale, presentando la fattispecie di cui al codice civile diversi elementi specializzanti, come i soggetti attivi qualificati, il presupposto attivo della condotta – costituito dal conflitto di interesse -, il dolo specifico di vantaggio ed il dolo intenzionale di danno, ma secondo alcuni autori la differenza andrebbe rinvenuta distinguendo i contesti operativi dei due reati in esame, nel senso che il reato di infedeltà sarebbe configurabile laddove l'amministratore, per perseguire una finalità di profitto, si avvale degli schemi negoziali tipici della gestione di impresa, mentre l'art. 646 c.p. farebbe riferimento ad ipotesi di arbitraria acquisizione dei beni sociali, quando cioè l'amministratore si comporta, con riferimento al patrimonio della società uti dominus, come un qualsiasi ordinario soggetto attivo del delitto di appropriazione indebita (CIPOLLA, Brevi note in tema di rapporti fra l'appropriazione indebita ed il nuovo reato di infedeltà patrimoniale societaria, in Cass. Pen., 2005, 470). La giurisprudenza si è pronunciata nel senso dell'esistenza di un rapporto di specialità unilaterale, essendo la previsione di cui all'art. 2634 c.c. speciale rispetto a quella di cui all'art. 646 c.p., che in termini di specialità reciproca o bilaterale, sostenendo in quest'ultimo caso che “le norme incriminatrici dell'infedeltà patrimoniale e dell'appropriazione indebita sono in rapporto di specialità reciproca. L'infedeltà patrimoniale tipizza la necessaria relazione tra un preesistente conflitto di interessi, con i caratteri dell'attualità e dell'obiettiva valutabilità, e le finalità di profitto o altro vantaggio dell'atto di disposizione, finalità che si qualificano in termini di ingiustizia per la proiezione soggettiva del preesistente conflitto. L'appropriazione indebita presenta caratteri di specialità per la natura del bene (denaro o cosa mobile), che solo ne può essere oggetto, e per l'irrilevanza del perseguimento di un semplice "vantaggio" in luogo del "profitto". L'ambito di interferenza tra le due fattispecie è dato dalla comunanza dell'elemento costitutivo della deminutio patrimonii e dell'ingiusto profitto, ma esse differiscono per l'assenza nell'appropriazione indebita di un preesistente ed autonomo conflitto di interessi, che invece connota l'infedeltà patrimoniale” (Cass., sez. V, 23 giugno 2003, Sama, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2003, p. 656).

Quanto al rapporto con il reato di omessa comunicazione del conflitto di interessi, di cui all'art. 2629 bis c.c., se da un lato è evidente che le due fattispecie hanno un autonomo spazio operativo, è anche vero che è ben possibile che una medesima condotta integri gli elementi costitutivi di entrambe le fattispecie; in tale ipotesi, la previsione di cui all'art. 2629 bis c.c. viene ritenuta quella maggiormente severa giacché contempla il verificarsi di danni alla società o a terzi come mera conseguenza della violazione degli obblighi formali imposti dall'art. 2391, comma 1, c.c., arretrando quindi la tutela ad un momento anteriore al compimento dell'atto dispositivo produttivo del danno, con la conseguenza che l'evento di danno va qualificato come post factum penalmente irrilevante.

Osservazioni

Il ricorso è stato accolto.

La Cassazione infatti ritiene non corretta la ricostruzione operata dai giudici dei merito circa la necessaria sussistenza di un antagonismo di interessi effettivo, attuale e oggettivamente valutabile tra l'amministratore agente e la società, a causa del quale il primo, nell'operazione economica che deve essere deliberata, si trova in una posizione antitetica rispetto a quella dell'ente, tale da pregiudicare gli interessi patrimoniali di quest'ultimo, non essendo sufficienti situazioni di mera sovrapposizione o commistione di interessi scaturenti dalla considerazione di rapporti diversi ed estranei all'operazione deliberata per conto della società (cfr. Cass., Sez. II, 30 ottobre 2018, n. 55412).

Per ricostruire la nozione di conflitto di interessi la Cassazione richiama i principi civilistici elaborati in materia, attesa la significativa collocazione sistematica della norma penale incriminatrice all'interno del codice civile, operata dal legislatore al chiaro scopo di non privarla del contesto normativo di riferimento, profilo specificamente preso in considerazione dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. II, 26 ottobre 2005, n. 40921). Alla luce di tali principi viene censurato il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito e descritto in precedenza in quanto la circostanza che il pagamento operato dall'imputato a suo favore fosse stato adottato sulla base di delibere societarie non è circostanza che fa venir meno la situazione di immanente conflitto di interessi, derivante dalla operata sovrapposizione nella persona dell'imputato di amministratore della società e unico agente di commercio mandatario dell'ente, perché in tal modo si concentra in un unico soggetto la figura del "controllore" e del "controllato", con pregiudizio per le ragioni sociali.

Ciò appare evidente, secondo la Cassazione, se si concentra l'attenzione sull'atto di disposizione patrimoniale di cui si discute, che affonda le sue radici, disvelandola in tutta la sua consistenza e attualizzandola, nella sottostante situazione di conflitto di interessi, la quale è configurabile sulla base dei principi di matrice civilistica in tema di contratto concluso dal rappresentante con se stesso, per il quale «l'art. 1395 c.c. contiene una presunzione iuris tantum di conflitto di interessi, che è onere dello stesso rappresentante superare mediante la dimostrazione di una delle due condizioni tassativamente previste, in via alternativa, dalla legge, vale a dire la predeterminazione del contenuto di tale contratto da parte del rappresentato o l'autorizzazione specifica di quest'ultimo, la quale può considerarsi idonea ove sia accompagnata dalla puntuale indicazione degli elementi negoziali sufficienti ad assicurare la tutela del rappresentato medesimo», principi applicabili all'amministratore di società in quanto rappresentante della stessa (Cass. civ., Sez. 1, n. 3501/2013). Pertanto il pagamento a sé stesso, da parte dell'amministratore, di provvigioni maturate quale agente integra la condizione di cui all'art.1395 c.c. e la relativa presunzione di conflitto di interessi non può dirsi superata dall'interessato, in quanto, da un lato, non risulta l'autorizzazione preventiva della società né al pagamento della somma effettivamente versata, né alla determinazione autonoma da parte dell'amministratore del suo importo; dall'altro, tale determinazione, trattandosi della fase di adempimento contrattuale, regolata dal principio generale di collaborazione e buona fede alla base del rapporto obbligatorio (artt. 1175 e 1176 c.c.), andava effettuata in contraddittorio tra le parti, con la verifica della puntuale esecuzione della prestazione e della conseguente applicabilità delle specifiche previsioni contrattuali.

Non contrasta questa conclusione l'eventuale presenza (ritenuta dai giudici di merito) nel contratto di clausole contenenti criteri di liquidazione oggettivi e predeterminati delle provvigioni, dovendo l'effettiva liquidazione essere comunque confrontata con la verifica congiunta del puntuale adempimento e con le prestazioni concretamente svolte, verifica, che nel caso in esame sarebbe stata del tutto assente. Tale condotta appare in conflitto non solo con quanto statuito nel contratto di agenzia corrente fra imputato e società, ma anche con l'obbligo di rendiconto, non derogato dalla previsione pattizia, previsto espressamente dall'art. 1746, comma 2, c.c., che, nel disciplinare gli obblighi gravanti sull'agente nello svolgimento del rapporto contrattuale di agenzia, rimanda, per l'appunto, agli obblighi del commissionario tra cui vi è quello di rendiconto fissato dall'art. 1713, c.c..

Conclusioni

La sentenza della Cassazione presenta profili di interesse in ordine alla definizione della nozione di conflitto di interessi, situazione che, come detto, rappresenta il presupposto necessario per poi poter contestare il delitto di cui all'art. 2634 c.c. ed in relazione ai rapporti fra il delitto di infedeltà patrimoniale e la disciplina civilistica circa il conflitto di interessi ex art. 2391 c.c..

Come detto, in termini generali il suddetto conflitto sussiste quando, in una determinata operazione economica, l'interesse della società e quello del soggetto attivo siano collidenti, nel senso di trovarsi in rapporto di obiettivo antagonismo non potendo essere contestualmente soddisfatti in modo completo. Di una tale nozione possono darsi due interpretazioni alternative, una cd. formalistica e l'altra, che si caratterizza per la sua concretezza, cd. sostanzialistica (ALAGNI, Note sul concetto penalistico di conflitto di interessi, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2003, 746): inteso nel primo senso, il conflitto di interessi sottenderebbe una verifica meramente parziale presente nella società, prescindendo dalle condizioni operative in cui si è mosso il soggetto agente e conferendo rilievo non ad un antagonismo effettivo e realmente verificatosi fra gli interessi del singolo e quelli dell'ente ma alla mera ricorrenza di alcune situazioni paradigmatiche sul presupposto che queste siano espressive di una condizione di indebito conflitto.

La seconda impostazione pare da preferire perché pretende dal giudice che non si limiti a verificare la presenza di elementi sintomatici ma accerti la ricorrenza di un conflitto fra interessi oggettivamente valutabile, effettivo ed attuale (MEZZETTI, L'infedeltà patrimoniale nella nuova dimensione del diritto penale societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2004, 234; ALDROVANDI, Art. 2634, AA.VV., I reati societari, a cura di LANZI – CADOPPI, Padova 2002, 186; MACCARI, Art. 2634, I nuovi illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali, a cura di Giunta, Torino 2003, 166.

In giurisprudenza Cass., sez. V, 15 maggio 2019, n. 40466, secondo cui “ai fini della configurabilità del reato di infedeltà patrimoniale di cui all'art. 2634 cod. civ., è necessario che ricorrano i seguenti presupposti: a) un interesse dell'amministratore in conflitto con quello della società; b) la "deliberazione" di un "atto di disposizione" di beni sociali; c) un evento di danno patrimoniale intenzionalmente cagionato alla società amministrata; d) il fine specifico, in capo all'agente, di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio ed in applicazione del suddetto principio, la Corte ha ritenuto non configurabile il reato nei confronti di amministratori di fatto di una società le cui condotte materiali, piuttosto che concretizzarsi in uno specifico "atto di disposizione" di beni sociali, si erano sostanziate nella reiterata e sistematica distrazione di crediti e di incassi, peraltro non annotati nelle scritture contabili).

La decisione in commento sembra adottare una soluzione di compromesso. Infatti, da un lato valorizza profili “predatori” della condotta dell'imputato – come, ad esempio, essersi appropriato di somme a lui spettanti senza alcun rendiconto o senza rapportarsi con i soci – ma dall'altro conferisce rilievo alla circostanza che l'amministratore aveva stipulato un contratto con sé stesso in assenza delle condizioni previste dall'art. 1395 c.c. e già tale circostanza avrebbe determinato la sussistenza di un conflitto di interessi.

In relazione a tale profilo, la decisione affronta, come accennato, il tema dei rapporti fra la disciplina penalistica in esame e la normativa civilistica in tema di conflitto di interessi. Infatti, l'art. 2391 c.c. impone all'amministratore di dare notizia non dell'eventuale interesse in conflitto con quello della società, bensì di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, egli abbia in una determinata operazione, precisandone natura, termini e portata e nel caso si tratti di amministratore delegato, questi dovrà astenersi dal compimento dell'operazione, investendone l'organo collegiale. Ciò determina che la tutela penale del delitto d'infedeltà è destinata ad intervenire in un momento successivo rispetto a quella civilistica, richiedendosi, da un lato, in capo all'amministratore, un vero e proprio conflitto di interessi con quello della società e dall'altro la deliberata volontà di cagionare un danno alla società (SCOPINATO, Infedeltà patrimoniale, in SCHIANO DI PEPE, Diritto penale delle società, II ed., Milano 2003, 283; FOFFANI, Le infedeltà, in A. ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano 2002, 353; SCHIAVANO, Riflessioni sull'infedeltà patrimoniale societaria (art. 2634 c.c.), in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2004, 815).

Secondo alcuni autori, inoltre, la decisione del consiglio di amministrazione di procedere al compimento dell'operazione, anche se viziata dalla situazione di conflitto, proietterà la sua efficacia scriminante rispetto all'amministratore infedele, anche dinanzi all'esito pregiudizievole dell'operazione. In senso contrario, però, si osserva che tale impostazione conferisce all'organo gestorio la potestà di disporre di interessi che invece fanno capo ad un diverso soggetto, ovvero l'assemblea dei soci – cui, per l'appunto, è rimessa la scelta circa la proposizione della querela per il perseguimento del fatto delittuoso. Si ricorda comunque che l'omessa comunicazione dei dati richiesti dall'art. 2391 c.c. è penalmente sanzionata dall'art. 2629 bis c.c..

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