Violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni: responsabilità e quantificazione del danno

Andrea Illuminati
22 Luglio 2022

Dal verificarsi di una causa di scioglimento di una società di capitali deriva il divieto, per gli organi sociali, di intraprendere nuove operazioni: la violazione di tale divieto è fonte di responsabilità per gli amministratori, nei confronti di terzi, ma anche della società stessa o dei creditori.
Massima

La violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni previsto dal previgente art. 2449 c.c. a seguito del verificarsi di una causa di scioglimento, oltre a configurare la responsabilità dell'amministratore nei confronti di coloro verso i quali la società risulti obbligata per effetto di quelle nuove operazioni, può dar luogo ad un'ulteriore e diversa responsabilità dello stesso di volta in volta riconducibile, a seconda dei casi, alla previsione dell'art. 2393 c.c. (se ne sia derivato un danno per il patrimonio sociale), dell'art. 2394 c.c. (se ne sia derivato un impoverimento del medesimo patrimonio sociale che lo abbia reso insufficiente a soddisfare le ragioni di uno o più creditori) o anche dell'art. 2395 c.c. (se il danno abbia toccato direttamente la sfera giuridica di un socio o di un terzo).

Non è giustificata la liquidazione del danno applicando tout court il criterio della perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell'attività, poiché non tutta la perdita riscontrata dopo il verificarsi della causa di scioglimento può essere riferita alla prosecuzione dell'attività medesima, potendo in parte comunque prodursi anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento, per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali, in ragione del venir meno dell'efficienza produttiva e dell'operatività dell'impresa, ed il danno non va commisurato neppure alla differenza tra attività e passività accertate in sede concorsuale, ma va determinato in relazione alle conseguenze immediate e dirette delle violazioni contestate.

Ove i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta gestione dell'impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all'oscuro dagli amministratori o di avere essi assunto la carica dopo l'effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorché, assunto l'incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l'attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori.

Il caso

La Corte d'appello di Campobasso accoglieva l'impugnazione proposta dal Fallimento di una s.p.a. avverso la decisione del Tribunale di Isernia e, in riforma della stessa, condannava - ex art. 146 l.fall. - l'amministratore ed i componenti del collegio sindacale, in solido tra loro, al risarcimento dei danni.

In particolare, il Giudice di seconda istanza, nel riscontrare il compimento da parte dell'amministratore di operazioni non conservative a seguito del verificarsi della causa di scioglimento consistita nella riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale (rinvenendole dall'esame della contabilità ritualmente versata agli atti), condannava lo stesso a rifondere i danni, quantificandoli nella misura delle perdite riconducibili al periodo successivo a tale momento (previa riclassificazione delle poste annotate nei bilanci secondo una prospettiva liquidatoria da un lato, e lo scorporo dei costi ineliminabili dal danno dall'altro). In solido con l'amministratore venivano chiamati a rispondere del medesimo danno anche i sindaci per aver omesso di vigilare sull'operato del primo in conformità ai propri obblighi ex artt. 2407 c.c.

Avverso tale sentenza propongono ricorso in cassazione l'amministratore e i sindaci, censurando la decisione della Corte territoriale essenzialmente per tre ordini di motivi e cioè:

i) erroneo riscontro della responsabilità dell'amministratore in difetto di allegazione ancora prima che di prova da parte del curatore fallimentare del compimento ad opera dell'organo sociale di nuove operazioni non conservative successivamente al verificarsi della causa di scioglimento;

ii) non corretta quantificazione del danno, per essere lo stesso stato determinato attraverso “un inammissibile criterio equitativo ex art. 1226 c.c.”;

iii) insussistenza della responsabilità dei sindaci per essersi gli stessi diligentemente attivati, in conformità agli obblighi connessi alla loro carica, mostrando perplessità rispetto agli atti compiuti dall'amministratore e averli segnalati allo stesso al fine di porvi rimedio.

Le questioni giuridiche

In primo luogo, quanto al motivo di impugnazione relativo alla mancata prova della responsabilità dell'amministratore, la Corte ribadisce i principi ormai consolidati in materia.

In particolare, in base al pacifico orientamento della S.C., La violazione del divieto di intraprendere nuove operazioni previsto dal previgente art. 2449 c.c. a seguito del verificarsi di una causa di scioglimento, oltre a configurare la responsabilità dell'amministratore nei confronti di coloro verso i quali la società risulti obbligata per effetto di quelle nuove operazioni, può dar luogo ad un'ulteriore e diversa responsabilità dello stesso di volta in volta riconducibile, a seconda dei casi, alla previsione dell'art. 2393 c.c. (se ne sia derivato un danno per il patrimonio sociale), dell'art. 2394 c.c. (se ne sia derivato un impoverimento del medesimo patrimonio sociale che lo abbia reso insufficiente a soddisfare le ragioni di uno o più creditori) o anche dell'art. 2395 c.c. (se il danno abbia toccato direttamente la sfera giuridica di un socio o di un terzo).

La responsabilità dell'organo gestorio rinviene il suo fondamento nel fatto che dopo il verificarsi della causa di scioglimento il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, quale era in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, onde gli amministratori non possono più utilizzarlo a tal fine, ma sono abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando ad essi inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul piano sociale, e, dall'altro, il diritto dei soci a una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione.

In tutti questi casi e in quello esaminato dalla cassazione in cui sia il curatore fallimentare ad agire con l'azione ex art. 146 L.F., che cumula in sé quelle previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. in un rimedio unico ed inscindibile (ex pluribus: Cass. n. 2772/1999; Cass. n. 10488/1998), per l'accertamento della responsabilità dell'amministratore deve essere fornita l'allegazione e la prova delle operazioni imprenditoriali connotate dall'assunzione di un nuovo rischio economico-commerciale, che siano state compiute al di fuori di una logica meramente conservativa.

In concreto poi - come precisato dalla cassazione - una volta fornita la prova del compimento dei nuovi atti gestori, spetta all'amministratore, per andare esente da responsabilità, dimostrare che tali atti trovassero giustificazione nella prosecuzione di attività già intraprese prima del verificarsi della causa di scioglimento (come ad esempio l'adempimento di obblighi pregressi) e che dunque non comportassero l'assunzione di nuovo rischio imprenditoriale.

Sulla base di tali premesse di carattere teorico, nel caso sottoposto al suo esame la S.C. ha ritenuto assolto l'onere probatorio gravante sul curatore fallimentare, avendo questi dato prova attraverso le scritture contabili della società delle nuove operazioni gestorie intraprese, senza che a tanto abbia fatto seguito la dimostrazione da parte dell'amministratore che i medesimi atti “trovassero giustificazione nella prosecuzione e nel compimento delle attività già intraprese, al fine di smentire l'assunto avverso”.

Osservazioni

La soluzione adottata dalla Cassazione è senz'altro condivisibile in quanto opera una equilibrata distribuzione degli oneri di allegazione e probatori in capo alle parti nel rispetto peraltro del principio di vicinitas della prova.

Ed, infatti, una volta che il fallimento abbia dimostrato il nuovo atto gestorio posto in essere a seguito della causa di scioglimento, opera una sorta di presunzione circa il carattere non conservativo dello stesso; presunzione che l'amministratore, autore dell'atto, è pienamente nella condizione di superare dimostrandone la riconducibilità alla gestione pregressa di cui costituisce espressione. Al contrario, un orientamento che facesse gravare sul fallimento anche la dimostrazione dell'insussistenza del legame dell'atto rispetto alla pregressa gestione darebbe luogo ad un eccessivo appesantimento dell'onere probatorio a suo carico, attesa la non agevole riscontrabilità (in molti casi) anche di tale aspetto dalla documentazione contabile nella disponibilità del curatore.

Quanto al secondo motivo di gravame relativo alla sostenuta non corretta determinazione del danno da illegittima prosecuzione dell'attività sociale, anche in tal caso la Corte ribadisce i principi ormai consolidati in materia.

Volendo sinteticamente riassumere i termini del dibattito, si rammenta che alla stregua di una prima impostazione sostenuta dalla giurisprudenza sino a un non lontano passato questo andrebbe individuato avuto riguardo al c.d. deficit fallimentare, ossia in una somma di denaro coincidente con la differenza tra l'attivo ed il passivo fallimentare.

In senso critico si è tuttavia rimarcata l'elevata dose di approssimazione che sconterebbe il parametro in oggetto, sia perché non è certo che le passività coincidano con la somma delle domande di ammissione presentate dai creditori, sia perché l'attivo risente – necessariamente – della svalutazione di alcuni beni direttamente riconducibile alla dichiarazione di fallimento (si pensi a beni immateriali quali l'avviamento o a taluni marchi).

Secondo una diversa linea di pensiero, fatta propria dalla prevalente giurisprudenza (Cass., 8/2/05, n. 2538; Cass. 19/10/08, n. 10350; C. App. Torino, 12/1/09; Trib. Milano, 3/2/10) e di recente confermata anche in sede di riforma del quadro normativo vigente (v. art. 2486 c.c. così come modificato dall'art. 378 del Codice della crisi d'impresa), la necessità di mantenere la più stretta aderenza possibile tra nesso di causalità e danno – conseguenza rende opportuno il ricorso al criterio del deficit fallimentare solo in via residuale (nell'ipotesi di totale mancanza o assoluta falsità della contabilità depositata dalla fallita) a cui andrebbe preferito, nella generalità dei casi (come quello in oggetto ove le scritture contabili sono state redatte e risultano complete), il diverso criterio del c.d. differenziale dei netti patrimoniali, alla stregua del quale il danno è dato dalla differenza tra il patrimonio netto della società al momento del verificarsi della causa di scioglimento ed il patrimonio dello stesso soggetto giuridico al momento della dichiarazione di fallimento.

Nel confermare il secondo degli orientamenti esposti, la S.C. svolge alcune precisazioni in merito alla concreta applicazione del criterio risarcitorio, anche in tal caso aderendo alla pacifica giurisprudenza in materia secondo cui (v. tra le tante Cass., 23 giugno 2008, n. 17033) la situazione patrimoniale iniziale oggetto di raffronto va pur sempre depurata delle poste dell'attivo la cui valorizzazione si giustifichi esclusivamente in una prospettiva di continuità aziendale (avviamento, immobilizzazioni immateriali, ammortamenti). Inoltre le rettifiche operate sul primo bilancio, quali tipicamente quelle effettuate per correggere omesse svalutazioni di voci attive finalizzate ad occultare una perdita, vanno ripetute anche nei successivi bilanci posti in comparazione (ad es. un credito inesigibile, eliminato come tale dalla situazione patrimoniale iniziale, va eliminato anche dalla situazione patrimoniale successiva). Ancora, poiché anche attività di mera liquidazione implicano costi e oneri ineliminabili, che in quanto tali non possono però imputarsi a titolo di danno, nel determinare la differenza tra i patrimoni netti non può tenersi conto di tutti quei costi che sarebbero stati affrontati anche nel caso di pronta messa in liquidazione (dipendenti che sarebbero comunque rimasti in forza; canoni di locazione dei locali nel periodo strettamente necessario per la disdetta, canoni di leasing, costi per prestazioni professionali necessarie anche nella fase di liquidazione e così via).

Nel caso in esame, avendo la Corte territoriale correttamente applicato il criterio dei netti patrimoniali operando le riclassificazioni e lo scorporo delle voci sopra indicate, il motivo di impugnazione proposto dai ricorrenti viene respinto.

Infine, quanto alle doglianze dei ricorrenti afferenti al ritenuto mancato raggiungimento della prova della responsabilità dei sindaci, la Cassazione richiama il principio di diritto secondo cui, ove i componenti dell'organo di controllo abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta gestoria illecita contraria alla corretta gestione dell'impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all'oscuro dagli amministratori o di avere essi assunto la carica dopo l'effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorché, assunto l'incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l'attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori (Cass., 12 luglio 2019, n. 18770).

Non ritenendo bastevoli, per ritenere adempiuto l'obbligo gravante sui sindaci di attivarsi per impedire i danni da non corretta gestione societaria, la circostanza di aver costoro mostrato perplessità rispetto agli atti compiuti dall'amministratore e di averli segnalati allo stesso per porvi rimedio, la cassazione conferma anche la sussistenza della responsabilità solidale dei sindaci.

Sotto questo profilo, però, la decisione della S.C. non pare in linea con altri precedenti arresti di legittimità ove, ai fini della sussistenza della responsabilità dell'organo di controllo, viene ritenuto necessario anche l'accertamento del nesso causale tra l'omissione dei sindaci e il danno, aspetto questo affatto esaminato nella sentenza in nota.

Va ricordato al riguardo che affinché possa configurarsi la responsabilità solidale dei sindaci di cui all'art. 2407 c.c. per fatto omissivo proprio da correlarsi alla condotta degli amministratori, è necessario dimostrare – al pari di ogni concorso omissivo nel fatto illecito altrui – l'inosservanza al dovere di vigilanza ed altresì tutti gli elementi costitutivi della suddetta fattispecie di responsabilità, compreso il nesso causale.

In particolare, in più occasioni la Corte di Cassazione non ha mancato di affermare che “I doveri di controllo imposti ai sindaci sono certamente contraddistinti da una particolare ampiezza, poiché si estendono a tutta l'attività sociale, in funzione della tutela e dell'interesse dei soci e di quello, concorrente dei creditori sociali (Cass. n. 2772-99). Di modo che ad affermare la responsabilità può ben essere sufficiente l'inosservanza del dovere di vigilanza”; purtuttavia, “Come in tutti i casi di concorso omissivo nel fatto illecito altrui, è però altrettanto certo che la fattispecie dell'art. 2407 c.c. richiede la prova di tutti gli elementi costitutivi del giudizio di responsabilità. E quindi: (i) dell'inerzia del sindaco rispetto ai propri doveri di controllo; (ii) dell'evento da associare alla conseguenza pregiudizievole derivante dalla condotta dell'amministratore…; (iii) del nesso causale, da considerare esistente ove il regolare svolgimento dell'attività di controllo del sindaco avrebbe potuto impedire o limitare il danno” (citata in massima Cass., Sez. I, 11 dicembre 2020, n. 28357; in termini vedi anche Cass.Civ., 27 maggio 2013, n. 13081; Cass.Civ., 29.10.2013, n.24362).

A tale ultimo proposito, la Corte precisa, quindi, che l'omessa vigilanza è causa del danno se, in base ad un ragionamento ipotetico, l'attivazione del controllo avrebbe ragionevolmente evitato o limitato il danno.

In buona sostanza, l'omissione costituirà fonte di responsabilità ex art. 2407 c.c. qualora risulti dimostrato che il danno che vi consegue non si sarebbe verificato se i sindaci avessero adeguatamente vigilato, ovvero se avessero tenuto un comportamento diverso e più diligente nell'esercizio dei loro doveri.

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