Furto di un bene di modico valore: il dipendente licenziato deve essere reintegrato
22 Luglio 2022
Massima
Nell'ambito dei rapporti tra previsioni della contrattazione collettiva e fatti posti a fondamento di licenziamenti ontologicamente disciplinari la consolidata giurisprudenza di questa Corte esclude che le previsioni collettive si configurino quale fonte vincolante in senso sfavorevole al dipendente; l'esistenza di una nozione legale di giusta causa (e di giustificato motivo soggettivo) comporta che il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta rientri nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito, attività da svolgere avuto riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, in relazione alla quale la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce solo uno dei possibili parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell' art. 2119 c.c.
(Nel caso di specie è stata confermata l'illegittimità del licenziamento del dipendente accusato di aver mangiato uno snack di € 0,70 sul proprio posto di lavoro senza aver provveduto al preventivo pagamento). Il caso
Una società ricorre in Cassazione dopo che sia il Tribunale di I grado che la Corte d'appello di Catania avevano accertato l'illegittimità del licenziamento di un cassiere, dipendente di un supermercato, reo di aver compiuto un furto di un bene aziendale. La condotta del lavoratore attinto dal licenziamento consisteva nell'aver mangiato, sul luogo di lavoro, uno snack in esposizione del valore di € 0,70 senza averlo preventivamente pagarlo.
La Corte D'appello, nel confermare la sentenza di I grado di reintegrazione ai sensi dell'art. 18 comma 4 l. 300/1970, non aveva considerato dirimente per la decisione lo scarso valore del bene, bensì altri elementi.
Il lavoratore, come risultava dalla stessa contestazione disciplinare, non aveva attuato condotte volte a celare il fatto che stesse mangiando uno snack.
Egli, infatti, si trovava in cassa, quindi sulla sua postazione di lavoro e, a testimonianza di quanto descritto, era stato subito scoperto dal datore.
Lo stesso lavoratore, nella fase disciplinare, non aveva negato il fatto e lo aveva imputato ad una sua leggerezza e ad un calo ipoglicemico.
Gli altri due precedenti disciplinari del dipendente erano di natura eterogenea e non costituivano un indice sintomatico della pervicacia del lavoratore nell'ignorare i suoi doveri fondamentali.
Nel ricorso in Cassazione la società evidenziava come la Corte avesse violato l'art. 229 del CCNL commercio in relazione all'art. 30 del collegato lavoro e agli artt. 2016 e 2109 C.c.
Sosteneva, infatti, come il summenzionato articolo del CCNL, applicato al contratto individuale del lavoratore, stabilisse il licenziamento come sanzione disciplinare nel caso di appropriazione di beni aziendali. La questione
Il Giudice è vincolato alle previsioni dei contratti collettivi volte a stabilire quali condotte legittimino il licenziamento per giusta causa oppure può discostarsene? Le soluzioni giuridiche
La Corte respinge il ricorso confermando la sentenza della Corte d'Appello che aveva disposto la reintegrazione del lavoratore.
Nell'ordinanza rileva come sia consolidato il suo orientamento secondo il quale la giusta causa di licenziamento sia una nozione legale e che il Giudice possa discostarsi dalle previsioni dei contratti collettivi che, come noto, non hanno valore di legge a causa della mancata attuazione della seconda parte dell'art. 39 della Costituzione (sul punto cfr ex plurimis Cass. Civ. sent.12 novembre 2021 n. 33811; Cass. Civ., sent. 1° dicembre 2014, n. 25380).
Di conseguenza il Giudice può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca una giusta causa, anche se qualificato come tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.
In altre parole, vertendosi in materia disciplinare, va sempre in concreto esaminata la gravità dell'infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
La dinamica oggettiva dei fatti, l'assenza di condotte volte ad occultare la consumazione dello snack, la stessa ammissione in sede disciplinare della condotta contestata ed, in ultimo, lo scarso valore economico del bene oggetto di appropriazione sono elementi che accertano la sproporzione tra condotta e sanzione.
L'ordinanza riprende un filone sviluppatosi all'interno della Suprema Corte. Essa, infatti, conferma quanto deciso in precedenza dalla Cass., Sez. lav., 17 luglio 2015, n. 15058 in un caso del tutto analogo.
Anche in quel caso gli Ermellini avevano confermato la sentenza del 28 marzo 2012 della Corte D'appello di Genova.
La stessa Corte d'appello di Genova aveva, a sua volta, suffragato la pronuncia del Tribunale di La Spezia che aveva dichiarato illegittimi, perché sproporzionati, i licenziamenti disciplinari intimati da una società che gestiva supermercati nei confronti di tre dipendenti, rei di aver consumato beni alimentari all'interno di un suo supermercato senza averli preventivamente pagati. Per questo motivo aveva condannato la società che gestiva il Supermercato alla reintegrazione dei dipendenti licenziati sempre ex art. 18 comma 4 dello Statuto dei lavoratori. Osservazioni
Se è vero che l'ordinanza conferma l'orientamento ampiamente maggioritario in base al quale il Giudice può discostarsi dalla nozione di giusta causa e giustificato motivo stabilita dalla contrattazione collettiva, occorre rimarcare che l'assenza di vincolatività non significhi irrilevanza di quanto stabilito dalle parti sociali.
Si precisa, infatti, che quanto stabilito dalla contrattazione collettiva costituisce comunque un parametro, ma non l'unico, per valutare la legittimità del licenziamento disciplinare.
La stessa Suprema Corte, nella sentenza del 19 agosto 2020 n. 17321, ha precisato come la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisca uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell' art 2119 c.c. Inoltre il Giudice deve comunque ampiamente motivare la scelta di discostarsi da quanto stabilito dalla contrattazione collettiva (Cass Civ., sez. lav., ord. 16 aprile 2018, n. 9396).
L'operazione che deve svolgere il Giudice anche nel caso di condotte riconducibili alle cause di licenziamento tipizzate dalla contrattazione collettiva è se effettivamente, ai sensi dell'art 2119 c.c., la condotta del lavoratore sia stata talmente grave da interrompere il vincolo fiduciario impedendo la prosecuzione anche in via provvisoria del rapporto.
Se, in sintesi, esiste la possibilità per il Giudice di discostarsi dalla tipizzazione delle condotte costituenti giusta causa stabilita dal contratto collettivo, dall'altra parte non può derogare in peius alla previsione negoziale che stabilisca per una determinata condotta una sanzione di tipo conservativo.
Se le parti sociali hanno stabilito una sanzione di tipo conservativo per una determinata condotta, questa non può costituire la giustificazione di un licenziamento disciplinare (Cass. Civ., sez. lav. ,n. 11027 del 5 maggio 2017).
Si tratta, infatti, di una condizione di maggior favore per il lavoratore prevista dall'art. 12 della legge 604/1966.
In tali casi il Giudice deve dichiarare l'illegittimità del licenziamento senza dover analizzare la gravità del fatto.
Taluni contratti collettivi, tuttavia, prevedono che i casi di maggiore gravità possano comportare la sanzione espulsiva.
Solo in questa ipotesi il Giudice può e deve valutare se il fatto sia stato di tale rilevanza da giustificare la risoluzione del rapporto (Cass. Civ., sez. lav., 17 giugno 2011, n.13353).
Sussiste un unico precedente della Suprema Corte in cui è stato rilevata la legittimità del licenziamento nonostante la contrattazione collettiva prevedesse esclusivamente per la condotta contestata una sanzione conservativa del posto del lavoro (Cass. civ. sez. lav., 7 maggio 2015, n.9223).
In tale pronuncia viene stabilito che qualora il ccnl non preveda esplicitamente l'esclusione del licenziamento come sanzione per determinate condotte, gli stessi fatti, nel caso siano connotati da una grave offensività, possono giustificare il licenziamento.
In ultimo, riagganciandosi alla tipologia della condotta oggetto dell'ordinanza in commento, pare necessario soffermarsi sulla questione della rilevanza o meno del valore del bene del quale si sia appropriato il lavoratore al fine di valutare la legittimità o meno del licenziamento disciplinare.
Sono tre gli orientamenti sviluppatisi all'interno della Suprema Corte in tema di furto di beni aziendali.
Il primo ritiene necessario prendere in considerazione il valore economico del bene oggetto di appropriazione da parte del dipendente. Nella sentenza 6764 del 12 aprile la Suprema Corte ha confermato la sentenza della Corte D'appello di Milano che aveva dichiarato nullo un licenziamento di un lavoratore che si era appropriato di rondelle del valore di € 2,90.
L'orientamento che riprende tale sentenza fa leva sul principio di offensività del fatto, di chiara, quindi, matrice penalistica. Il furto di un bene di modico valore può comportare l'assenza di offensività della condotta e, sempre a livello penalistico, l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p.
Dall'altra parte esiste un orientamento che evidenzia come non si debba considerare il valore del bene appropriato, ma la gravità della condotta a livello anche etico.
La sottrazione di un bene è sempre in grado di ledere l'elemento fiduciario in relazione al corretto adempimento delle mansioni nella prosecuzione del rapporto.
Secondo tale approdo giurisprudenziale anche un furto di un bene di modico valore costituisce la prova che il lavoratore non è in grado di rispettare le regole e gli obblighi di diligenza e fedeltà che caratterizzano il rapporto di lavoro (Cass. Civ., sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25186).
La sintesi dei due orientamenti sin qui esposti è quella proposto dall'ordinanza in commento nel quale il valore commerciale del bene può rilevare al fine del vaglio della legittimità del licenziamento intimato.
Tuttavia detto fattore può essere considerato come scriminante solo se corroborato da altri elementi quali l'assenza di precedenti specifici e che l'appropriazione sia avvenuta, per così dire, “alla luce del sole”, senza accorgimenti da parte del lavoratore volti a nascondere quanto commesso.
In presenza di dette circostanze la condotta del dipendente è inidonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, motivo per cui non esistono i presupposti di cui all'art. 2119 c.c. per risolvere il rapporto (Cass. Civ., sez. lav., 12 ottobre 2017, n. 24014). |