Parole da dimenticare

Giovanni Cabras
26 Luglio 2022

La parola "fallimento" è stata soppressa dal Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza; si parlerà di liquidazione giudiziale (invece di fallito, semplicemente debitore). Così termina la storia di una parola, formatasi nel significato attuale, con il latino medievale, per indicare la situazione causata da chi non adempie ai propri debiti e viene sottoposto a perciò provvedimenti anche di carattere personale. L'Autore svolge alcune riflessioni sulla scelta terminologica del nostro Legislatore e sul Codice della crisi d'impresa, entrato in vigore lo scorso 15 luglio.

Dal 15 luglio 2022 in Italia non ci saranno più fallimenti.

Il codice della crisi di impresa ha soppresso tale parola, cancellandola dalla nomenclatura legislativa; bisognerà parlare di liquidazione giudiziale (invece di fallito, semplicemente debitore). Così termina la storia di una parola, formatasi nel significato attuale, con il latino medievale, per indicare la situazione causata da chi non adempie ai propri debiti e viene sottoposto a perciò provvedimenti anche di carattere personale.

Alla soppressione si è giunti dopo una campagna di stampa che, partendo dagli Stati Uniti, nella seconda metà del secolo scorso, ha ravvisato nella bankruptcy (derivata dall'italiano “bancarotta”) uno stigma, ossia l'attribuzione di qualità negative, una sorta di vergogna sociale, per chi vi incorra.

Insigni studiosi hanno compiuto indagini, anche empiriche, su quello stigma. In particolare, sembra che in base ad uno spoglio del quotidiano “New York Times” dal 1864 al 2002 gli articoli che par-lavano di bankruptcy vi associavano espressioni di dispregio per la persona che vi era incorsa.

La ragione, invero, non era lo stigma in sé di quella espressione; la vergogna non è in tutti i fallimenti, ma in quelli che finiscono nelle pagine dei giornali per essere causati da dolo e che portano alla rovina tante persone.

Nella Relazione di accompagnamento alla legge delega per il codice della crisi d'impresa è spiegato che si vuole «evitare l'aura di negatività e di discredito, anche personale, che storicamente a quella parola [fallimento] si accompagna; negatività e discredito non necessariamente giustificati dal mero fatto che un'attività d'impresa abbia avuto un esito sfortunato».

Invero, il legislatore italiano arriva tardi, quando il vento di quello stigma è cambiato.

Un grande tennista svizzero, Stan Wawrinka, porta tatuata sul braccio una citazione dello scrittore Samuel Beckett («Ever tried. Ever Failed. No matter. Try again. Fail again. Fail Better», ossia: "Hai sempre provato. Hai sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio), che sembra voler evidenziare il senso positivo delle sconfitte. Inoltre, si moltiplicano i manuali sull'arte del fallimento, visto come tappa per raggiungere il successo (il filosofo Charles Pépin, Il magico potere del fallimento, Garzanti, 2017; l'economista Francesca Corrado, Il fallimento è rivoluzione, Sperlig & Kupfer, 2019); c'è pure un romanzo, dello scrittore svizzero Andrea Fazioli (L'arte del fallimento, Guanda, 2016), e ci sono corsi appositi, segnalati su Internet, per imparare a fallire (in tutte le situazioni) con esiti fruttuosi.

Allora, una parola (il fallimento) è cancellata, proprio quando se ne sta cogliendo il senso positi- vo di opportunità e di capacità di riscattarsi.

Un valore importante oggi, quando la crisi, le crisi (e ce ne sono tante) colpiscono imprese e, in generale, l'intera umanità.

Ma la scelta terminologica del nostro legislatore non è la sola alquanto fuori tempo, siccome il progetto del codice della crisi d'impresa manca di un piglio veramente riformatore. E non c'è neppure quella rivoluzione solo di forma, di cui parlava Tancredi nelle belle pagine di “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa («Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»).

Sembra, piuttosto, una controriforma, per restaurare un disciplinato governo delle crisi d'impresa, sotto la protezione dell'autorità giudiziaria.

Le riforme alla legge fallimentare succedutesi dal 2005 al 2012 avevano cercato di rendere cen- trali gli accordi tra l'impresa debitrice ed i creditori; arbitri, questi ultimi, sulla sorte dell'impresa insolvente, essendo riservata a loro la decisione sulla soluzione concordataria della crisi, con un voto a maggioranza dei crediti destinati a non essere soddisfatti interamente. Una decisione maggioritaria non superabile in alcun modo, siccome il cosiddetto cram down nella finora vigente legge fallimentare opera solo all'interno delle classi di creditori (se non si raggiunge l'approvazione nel maggior numero di classi, ma comunque c'è la maggioranza complessiva dei crediti ammessi al voto).

Con il codice della crisi d'impresa non sarà più così.

Emblematico è il concordato semplificato, che l'impresa insolvente può proporre ai creditori, qualora non riesca a raggiungere accordi nella composizione negoziata della crisi.

È un concordato liquidatorio che può prevedere anche l'offerta di un terzo per l'acquisto dell'azienda o rami aziendali; ad esso non possono opporsi i creditori, qualora «la proposta non arreca pregiudizio ai creditori rispetto all'alternativa della liquidazione giudiziale e comunque assicura un'utilità a ciascun creditore».

In definitiva, l'ammissione del concordato è spostata dai creditori al tribunale e quelli sono co- stretti ad ingoiare il rospo, qualunque sia la proposta, purché vi sia la previsione – valutata come tale dal tribunale – di una loro soddisfazione in misura non inferiore alla liquidazione giudiziale.

Il codice della crisi d'impresa offre tanti “strumenti di regolazione della crisi”. Sembra un menù à la carte, con una ampia scelta, ma tutti gli strumenti hanno lo stesso sapore, quello di avere un carattere giudiziario.

Peraltro, la qualifica di pubblico ufficiale, confermata al curatore ed al commis- sario, è estesa dal codice della crisi al liquidatore concordatario. Segno del sempre maggiore rilevo pubblico nella gestione delle crisi d'impresa, sottratte alla dialettica tra debitore e creditori, per es- sere necessariamente oggetto di un provvedimento giudiziario, con la partecipazione pure del pub- blico ministero.

In tal modo si rafforza l'impianto pubblicistico delle procedure concorsuali, con un ritorno, in qualche misura, del “buon ordine” stabilito a suo tempo dalla legge n. 995/1930 (e confermato nel 1942 dalla legge fallimentare). Un ordine che era stato rivoluzionato dalle riforme del 2005-2012.

Il codice della crisi d'impresa (con i suoi 391 articoli, oltre ai tanti bis, ter e così via) è un vero corpus della materia concorsuale, con tutto lo scibile delle indicazioni comunitarie (la direttiva In- solvency) e dell'esperienza internazionale (specie di quella statunitense).

Sembrerebbe realizzarsi quello che due giuristi statunitensi (Henry Hansmann e Reinier Kraakman, The End of History for Corporate Law, 2000) avevano profetizzato per il diritto societario: la fine della sua evoluzione, per essersi raggiunta una sostanziale uniformità nella legislazione dei principali Paesi industrializza- ti.

Per il diritto concorsuale, invece, pur essendoci una apparente maggiore uniformità nei vari Paesi, persiste una sostanziale e profonda difformità. Il fatto è che si possono pure copiare istituti giuridici da un ordinamento all'altro, ma essi acquistano una valenza in concreto solo nel contesto di ciascun ordinamento.

Nel caso italiano, le norme pro-debitore e pro-impresa, che ci provengono essenzialmente dal Chapter 11 statunitense, sono servite in un menù con un impianto normativo fortemente giuridiziarizzato, sminuendosi così il valore dell'autonomia privata e del mercato, che era stato la cifra delle riforme intervenute nella legge fallimentare dal 2005 al 2012.

Quelle riforme non erano certo perfette (ed erano comunque dimezzate, avendo riguardato solo la legge fallimentare e non l'amministrazione straordinaria) e tanti aggiustamenti si erano resi necessari, ma avevano un preciso senso: valorizzare l'impresa nel momento della sua crisi, per ripor- tarla, ove possibile, nel mercato, nel rispetto dei suoi meccanismi e senza interferenze d'autorità. Comunque, le riforme erano perfettibile, ma non si è voluto far questo; per questo ritengo che si debba parlare di controriforma.

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