Bancarotta patrimoniale: l'amministratore di diritto risponde per non avere impedito l'evento che aveva l'obbligo di impedire

Francesco Spina
27 Luglio 2022

In tema di bancarotta fraudolenta, l'amministratore di diritto risponde unitamente all'amministratore di fatto per non avere impedito l'evento che aveva l'obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l'amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali
Massima

Quando a capo di un'azienda vi sono contestualmente un amministratore di diritto ed un amministratore di fatto, nessuno dei due può esimersi dall'esercitare un ruolo di controllo e vigilanza, onde impedire che l'altro soggetto posto formalmente o in via di prassi al vertice dell'impresa ponga in essere condotte delittuose ai danni del patrimonio aziendale.

Il caso

Il caso in commento riguardava un imputato condannato in sede di appello per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale.

La contestazione concerneva una dissipazione dei beni sociali – conseguente alla stipula di un apparente accordo di lavorazione in conto terzi con una società riferibile ad alcuni degli imputati –, nonché la causazione del dissesto conseguente all'omissione sistematica del versamento degli oneri contributivi e tributari, proseguendo l'attività sociale e quindi la fase di liquidazione senza assumere i necessari provvedimenti.

Tutto quanto nonostante la perdita del capitale sociale e l'assunzione, da parte del patrimonio sociale, di un valore netto negativo.

Nel caso concreto entrambi i giudici di merito erano concordi nell'affermare la penale responsabilità dell'imputato, che aveva ricoperto il ruolo di amministratore, e poi di liquidatore, della fallita società di capitali.

In entrambi i giudizi la difesa dell'amministratore aveva evidenziato che egli era un mero prestanome, che non aveva concretamente partecipato alla gestione della società e neppure era stato posto in grado di percepire “segnali di allarme” in ordine alle condizioni in cui versava la società.

In particolare, la Corte d'Appello aveva osservato che tali argomenti erano stati già affrontati dal Tribunale, secondo il quale egli per età e preparazione, in quanto ragioniere ed inserito nel mondo del lavoro, era in grado di comprendere la situazione nella quale operava, nonché le responsabilità connesse alla sua carica.

Avverso tale decisione di secondo grado, l'imputato amministratore della fallita società proponeva ricorso per Cassazione lamentando che i giudici di merito non avessero considerato come egli fosse un mero prestanome, non avendo partecipato alla attività di gestione della fallita.

Ciò determinava la conseguente insussistenza del dolo, anche nella forma eventuale, non essendo stato posto in grado di percepire segnali di allarme in ordine alle condizioni in cui versava la società.

Tale ricorso era dichiarato inammissibile dal Collegio di legittimità, che riteneva corretta la conclusione del Tribunale, laddove aveva opinato che, stante il disinteresse che l'imputato aveva manifestato in relazione ai doveri connessi alla sua carica, fosse sussistente almeno il dolo eventuale.

A tal proposito la Corte di legittimità esplicitava il principio per cui, in tema di bancarotta fraudolenta, l'amministratore di diritto risponde unitamente all'amministratore di fatto per non avere impedito l'evento che aveva l'obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l'amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali (v. Cass. 12841/2022).

La questione giuridica

La questione giuridica sottesa al caso in esame, verteva nello stabilire se in tema di bancarotta fraudolenta, allorché si sia in presenza di un soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola accettazione del rischio che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo eventuale) risulti sufficiente per l'affermazione della penale responsabilità a seguito del fallimento della persona giuridica.

La soluzione

A mente dell'art. 43 c.p. il dolo eventuale si concretizza quando l'individuo non cerca di raggiungere l'evento criminoso, ma ritiene che sia seriamente probabile. In quest'ultimo caso, il soggetto, pur di non rinunciare all'azione e agli eventuali vantaggi, accetta che possa verificarsi l'evento dannoso.

Ricorre tale elemento soggettivo quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile, sebbene non certa, l'esistenza dei presupposti della condotta, ovvero il verificarsi dell'evento come conseguenza dell'azione e, pur di non rinunciare ad essa, accetta che il fatto possa verificarsi, decidendo di agire comunque (v. Cass. 43348/2014).

Per l'affermazione di sussistenza del dolo eventuale, si presuppone che l'agente abbia superato il dubbio circa la possibilità che la condotta cagioni anche un evento non direttamente voluto, ed abbia tenuto la condotta anche a costo di cagionare quell'evento, accettandone quindi il prospettato verificarsi.

All'opposto sussiste la colpa cosciente quando l'agente, pur prospettandosi la possibilità o probabilità del verificarsi di un evento non voluto come conseguenza della propria condotta, confidi tuttavia che esso non si verifichi (v. Cass. 30472/2011).

Ancora, l'art. 2639 c.c., rubricato «estensione delle qualifiche soggettive», introduce la nozione di amministratore di fatto, la quale presuppone l'esercizio in modo continuativo e significativo di poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione di amministratore.

In pratica, il Legislatore del D.Lgs. 61/2002, recependo la giurisprudenza maggioritaria, ha reso irrilevante la denominazione formale dell'incarico eventualmente rivestito, rispetto al contenuto reale dei poteri esercitati.

Il concetto di potere è riferito al ruolo svolto da chi autonomamente può indirizzare la società nelle proprie scelte, anche in concorso con altri soggetti di diritto.

L'amministratore di fatto, quindi, non deve necessariamente esercitare le sue funzioni in via esclusiva: egli può anche collaborare con l'amministratore di diritto.

Ai fini della qualificazione dell'amministratore di fatto, quindi, è sufficiente lo svolgimento di alcune attività tipiche dell'incarico.

È necessaria però la continuatività e significatività per poter estendere la responsabilità a soggetti che non ricoprono formalmente alcuna qualifica, non essendo necessario l'esercizio di “tutti” i poteri del soggetto di fatto, ma di un'apprezzabile attività di gestione, condotta in maniera non episodica od occasionale.

La nozione di continuità va individuata nell'esercizio di atti tipici protratti nel tempo, con ripetitività e sistematicità, che si possa qualificare come inserimento nell'attività dell'impresa. Di conseguenza, sono esclusi i soggetti che compiono singoli atti di gestione e/o sporadiche “intromissioni” nelle scelte sociali.

Va peraltro osservato che la continuità è volta, anche, ad evitare che i vertici decisionali, attraverso un “abuso” di deleghe, possano assicurarsi l'impunità. Ulteriore requisito per l'individuazione dell'amministratore di fatto è l'esercizio in modo significativo dei poteri tipici.

Non assumono pertanto rilievo le mere mansioni esecutive, di scarsa rilevanza o di natura accessoria, bensì le operazioni fondamentali tipiche dell'organo amministrativo e dei poteri dallo stesso esercitati. A differenza della durata, più agevole da accertare, la significatività deve considerare l'intensità dell'attività svolta, ossia quando esprima concretamente i poteri decisionali e deliberativi tipici dell'amministratore di diritto. I due requisiti (continuità e significatività) devono sussistere contemporaneamente: atti soltanto episodici escludono la responsabilità.

Per qualificare un amministratore di fatto è necessario, quindi, l'esercizio di un insieme di atti coordinati, riconducibili all'organizzazione e gestione della società. È evidente, però, che proprio per la volontà di non apparire quale amministratore ufficiale dell'ente, i poteri saranno esercitati indirettamente, ossia in via mediata per il tramite dell'amministratore di diritto, o direttamente in conseguenza di una delega espressamente rilasciata da chi ne ha la facoltà. Si pensi ad esempio alla gestione di un conto corrente: l'amministratore di diritto è l'unico normalmente ad avere la delega di firma, ma potrebbe operare su specifica indicazione dell'amministratore di fatto.

Ciò posto e tornando al caso in esame, a seguito del fallimento della società di capitali sono stati rinviati a giudizio amministratore di fatto e di diritto della stessa.

Quest'ultimo, quale prestanome, in entrambi i gradi di merito è stato ritenuto responsabile per il delitto di bancarotta fraudolenta, per aver omesso di controllare e impedire l'operato degli amministratori di fatto.

Nel corso dell'istruttoria dibattimentale è emerso che effettivamente l'imputato non aveva mai gestito la società e che egli aveva comunque accettato di fungere da prestanome, per poi disinteressarsi completamente delle vicende della società, nonostante la grave situazione in cui essa versava.

A detta della difesa del prestanome, il disinteresse dell'amministratore di diritto si era palesato nella totale assenza di partecipazione alla attività di gestione della fallita con conseguente insussistenza del dolo, anche nella forma eventuale, non essendo stato posto in grado di percepire segnali di allarme in ordine alle condizioni in cui versava la società.

Tale tesi è stata disattesa in entrambi i gradi merito sottolineandosi la qualifica di ragioniere dell'imputato, inserito nel mondo del lavoro ed in grado di rendersi conto delle responsabilità connesse alla sua carica.

Peraltro, egli era divenuto amministratore in un periodo in cui la società già versava in condizioni così gravi da rendere non credibile la sua affermazione secondo la quale egli non aveva consapevolezza della situazione finanziaria dell'impresa.

Avverso tale decisione è stato proposto ricorso in Cassazione, poi dichiarato inammissibile.

Le conclusioni della Suprema Corte di Cassazione

A detta della Suprema Corte l'amministratore di diritto risponde, unitamente all'amministratore di fatto, per non avere impedito l'evento che aveva l'obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l'amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali, la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di ricoprire formalmente la carica di amministratore(v. Cass. pen. 5.4.2022 n. 12841).

Per la Suprema Corte, così come sostenuto dai giudici di merito, in casi di tale genere deve essere ritenuto sussistente almeno il dolo eventuale e di conseguenza affermata la responsabilità dell'imputato.

Secondo la Cassazione, a tale stregua non sarebbe decisivo l'accertamento della autenticità della firma apposta ai documenti venuti in rilievo, poiché la responsabilità dell'amministratore avrebbe dovuto essere confermata anche laddove fosse stato accertato che la firma da lui apparentemente apposta al contratto era apocrifa.

In altre parole, anche nella denegata ipotesi in cui la suddetta ricostruzione prospettata dalla difesa si fosse rivelata fondata, la assunzione della carica di amministratore aveva consentito all'amministratore di fatto della fallita di proseguire una gestione scellerata della società.

Dunque, nonostante l'imputato fosse consapevole delle responsabilità connesse alla carica e del dovere di controllare l'operato dell'amministratore di fatto e di impedire la commissione ad opera di quest'ultimo di fatti di bancarotta, attraverso il totale disinteresse per la amministrazione della società aveva fornito un contributo causale di rilievo alla commissione dei fatti per i quali si procedeva.

Ha evidenziato la Cassazione che la responsabilità non poteva dedursi nel caso di specie dal solo fatto dell'accettazione di ricoprire formalmente la carica di amministratore, ma tuttavia, allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la mera consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l'accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l'affermazione della responsabilità penale.

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