La Consulta si pronuncia sull’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Corte Cost. n. 125/2022)
03 Agosto 2022
Massima
Va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 18, comma 7, secondo periodo, l. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), l. 28 giugno 2012, n. 92 limitatamente alla parola "manifesta".
Il requisito del carattere "manifesto" dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiesto per disporre la reintegra, è indeterminato, prestandosi a incertezze applicative e potendo condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento: di fatto, tale requisito demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e, per di più, priva di un plausibile fondamento empirico. Il caso
La fattispecie in esame riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO) comminato a un lavoratore il quale, successivamente impugnandolo, ne lamentava l'illegittimità dinanzi al competente Tribunale di Ravenna.
All'esito della fase sommaria del relativo procedimento, il giudice adito emetteva ordinanza con la quale annullava il licenziamento e disponeva la reintegrazione del dipendente; contro di essa, proponeva opposizione il datore di lavoro.
Considerate le doglianze del lavoratore nella fase che in questo modo si apriva, il Tribunale ordinario di Ravenna in funzione di giudice del lavoro, chiamato a valutare i presupposti della reintegrazione, nonché della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento comminato per GMO, decideva di sollevare questione di legittimità costituzionale sul dettato dell'art. 18, comma 2, della legge 20 maggio 1970, n. 300, così come modificato dall'art. 1, comma 42, lett. b), della Legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. “Legge Fornero”), nella parte in cui indica l'insussistenza manifesta quale carattere necessario per procedere alla reintegra del lavoratore, ove quest'ultimo riesca a darne prova in sede di giudizio. La questione
Il Tribunale di Ravenna riteneva necessario sollevare questione di legittimità costituzionale dinanzi la prospettata violazione, da parte della norma in esame, degli artt. 1, 3, 4, 24 e 35 della Carta fondamentale.
In particolare, il Giudice remittente evidenziava il carattere pretestuoso del dover dar prova dell'evidenza, intesa quale immediata verificabilità, dell'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, richiesta dal diritto vivente: il giudice a quo identificava ciò come un vulnus al principio di eguaglianza costituzionalmente garantito.
Penalizzante in tal senso sarebbe il fatto che, a differenza del licenziamento comminato per motivi economici, come affrontato nel caso di specie, la norma in esame non richiede il medesimo sforzo al lavoratore che sia stato colpito da un provvedimento espulsivo di natura disciplinare: quest'ultimo, infatti, è gravato dell'onere di provare la mera (non manifesta) insussistenza del fatto su cui detto provvedimento si stato basato.
La violazione diviene ancor più evidente – argomenta il Tribunale – allorquando si consideri che tale regime, particolarmente rigido, non viene imposto neppure nell'ambito dei licenziamenti collettivi, ove la reintegrazione viene concessa al dipendente che dimostri con successo il mancato rispetto dei criteri selettivi in virtù dei quali ricomprendere o meno un lavoratore tra i destinatari di tale provvedimento.
Il disposto dell'art. 3 Cost. soffrirebbe, pertanto, un ulteriore vulnus, causato dalla intrinseca illogicità dell'incerta applicazione del criterio individuato, poiché “carente di un preciso e concreto metro di giudizio”.
L'inosservanza del disposto costituzionale sarebbe, inoltre, integrata – stando alle doglianze del Tribunale di Ravenna – dall'illegittimità del bilanciamento tra i valori centrali del caso in esame, poiché la scelta finale del legislatore sarebbe ricaduta sull'alternativa più penalizzante per il lavoratore, da cui discenderebbe la potenziale compressione, irragionevole e sproporzionata, del diritto di agire in giudizio del dipendente.
In particolare, concorrerebbe a ciò l'inversione dell'onere della prova sancito nella norma discussa in danno al dipendente, cui viene infatti richiesto di dar prova relativa all'insussistenza manifesta di un fatto – pertanto, di natura negativa.
Da ciò, evidenziava il Tribunale di Ravenna, deriverebbe la manifesta violazione dell'art. 24 Cost. che, come noto, tutela il diritto inviolabile di ciascuno alla propria difesa.
Di contro, si è costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo che venissero dichiarate manifestamente infondate le questioni sollevate dal Tribunale di Ravenna.
L'Avvocatura generale dello Stato ha asserito, infatti, che il requisito della manifesta insussistenza risponda al generale obiettivo della L. n. 92/2012 di definire un mercato del lavoro dinamico, anche sulla base di rimedi come quello in esame, e che la differenza di trattamento tra il licenziamento comminato per ragioni economiche e quello intimato su base disciplinare sia dovuta alla profonda diversità intrinseca delle due situazioni, nonché delle connesse motivazioni poste alla base di tali provvedimenti.
Peraltro, continua l'Avvocatura, si tratta di un criterio che non potrebbe dirsi indeterminato, come lamentato dal Tribunale di Ravenna, poiché esso sarebbe da intendersi “sul piano probatorio come evidente assenza della giustificazione del recesso”. Le soluzioni giuridiche
Chiamata a decidere sul tema, la Corte Costituzionale ha accolto le argomentazioni del Tribunale di Ravenna, offrendo una logica ed efficace motivazione in tal senso, nonché approfondendo alcuni temi di discussione desumibili dalla quaestio ivi dibattuta.
Anzitutto, la Consulta ha ribadito il suo costante andamento confermando la tutela costituzionale di cui agli artt. 1, 4 e 35 Cost. del diritto del lavoratore a non essere licenziato ingiustamente, soprattutto in considerazione della scala valoriale in cui si colloca il lavoro, riconosciuto quale fondamento della Repubblica ai sensi dell'art. 1 Cost.
Tale diritto viene, altresì, difeso dalle norme che il legislatore è chiamato ad emanare al fine di organizzare un sistema di tutele in tal senso; quest'ultimo, tuttavia, pur disponendo di un ampio margine di libertà – hanno sottolineato i giudici costituzionali – è comunque sempre tenuto a rispettare i principi di eguglianza e ragionevolezza di cui alla nostra Carta fondamentale.
Tali principi – ha evidenziato la Consulta – vengono in effetti violati dalla norma in esame.
La Corte ha ricordato come il giudice sia chiamato ad effettuare una valutazione di mera legittimità – senza entrare nel merito della decisione datoriale – sul nesso causale tra l'andamento della produttività aziendale e il licenziamento del lavoratore la cui figura non sia più fruibile ai fini di tale attività interna.
Non è consentito alcun giudizio di merito in tal senso, anche in virtù del disposto dell'art. 30, co. 1, L. n. 183/2010, il quale prevede, a seguito delle modifiche apportate dalla L. n. 92/2012 (art. 1, co. 43), la possibilità che la sentenza che esprima una valutazione più penetrante da parte del giudice adito venga impugnata per violazione delle norme di diritto.
La giurisprudenza (di merito e di legittimità) aveva già in passato delimitato l'ampiezza della discrezionalità dei giudici sulla valutazione intrinseca della decisione datoriale (e, dunque, impedito al giudicante di poter assumere le vesti imprenditoriali e stabilire, nell'ignoranza contestuale in cui necessariamente questi si ritroverebbe, se la valutazione effettuata relativamente al recesso sia giustificata da una effettiva esigenza interna o meno).
Tale delimitazione è stata valutata dalla Consulta di per sé sufficiente a rendere l'elemento dell'insussistenza del fatto ben determinato e coerente con il sistema, appena descritto, relativo alla delimitata discrezionalità del giudice, e, dunque, ogni ulteriore precisazione in tal senso deve considerarsi irragionevole, poiché inasprisce inutilmente il regime probatorio di cui è onerato il dipendente.
Il requisito della manifesta insussistenza è stato inoltre valutato “indeterminato” dalla Consulta; ciò, in virtù delle numerose difficoltà, riscontrate nella prassi, nella dimostrazione di una “evidenza conclamata del vizio” che non fa che comportare incertezze applicative, con la conseguenza che i Tribunali, causa la genericità della definizione, ne danno interpretazioni che rilevantemente differiscono l'una dall'altra, acuendo le differenze decisionali in tale ambito e mancando di assicurare omogeneità alla tutela di situazioni tra loro simili.
Stando così le cose, ha evidenziato la Corte Costituzionale nella pronuncia in esame, il giudicante non può che giungere ad un “apprezzamento imprevedibile e mutevole”, in relazione al quale non vi è “alcuna indicazione utile a orientarne gli esiti”.
La discrezionalità di cui gode il giudicante, pertanto, non è garantita, poiché – come nel caso in argomento – la definizione di un concetto fondamentale per addivenire a decisioni sui singoli casi di specie (in quello in esame, la manifesta insussistenza) non viene indirizzata, né contenuta da parametri “attendibili e coerenti” e che, pertanto, non consentono di applicare degli schemi entro cui estrinsecare una decisione che sia il più possibile costante e che, invece, finisce per essere “sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico”.
L'irragionevolezza della norma si estrinseca ulteriormente ove si consideri l'assenza di un nesso tra la natura manifesta dell'insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento comminato per giustificato motivo oggettivo e un disvalore dello stesso: ha precisato in questo senso la Corte Costituzionale che non è ulteriormente illegittimo il provvedimento espulsivo la cui base fattuale venga provata manifestamente insussistente laddove, invece, il fatto che un dipendente fornisca prova di tale insussistenza che non sia agevolmente accertabile in giudizio produrrà – nel caso dei licenziamenti disciplinari – lo stesso risultato.
Non accentua, in altre parole, la gravità del licenziamento l'essere esso basato su un fatto manifestamente insussistente e, pertanto, la tutela riconosciuta al dipendente nel caso in cui esso venga dichiarato illegittimo, non deve risentire del carattere manifesto o meno di tale elemento.
Peraltro, tale prospettiva ne acuisce l'irragionevolezza, soprattutto ove si consideri che la ricerca della manifesta insussistenza del fatto in esame spesso richieda una disamina più specifica e ulteriore rispetto alla normale attività istruttoria svolta in costanza di un procedimento: ciò – ha evidenziato la Consulta – “ne complica taluni passaggi”, con il risultato finale di vanificare l'obiettivo della rapidità cui la L. n. 92/2012 dichiaratamente mirava. Una tale complicazione, dunque, non può che generare “uno squilibrio tra i fini enunciati e i mezzi in concreto prescelti”. Osservazioni
A valle delle motivazioni offerte dalla Consulta e della conseguente illegittimità costituzionale della disposizione analizzata, non si può non constatare come la stessa avrà certamente un impatto di rilievo sui procedimenti relativi all'impugnazione di licenziamenti comminati per motivi oggettivi.
È pacifico, infatti, che in esito a tale pronuncia l'onere probatorio in capo al lavoratore sia sensibilmente meno gravoso, non essendo questi più tenuto a dimostrare l'immediata evidenza dell'inesistenza del fatto posto alla base del provvedimento espulsivo per poter richiedere la tutela reintegratoria.
A latere di tale decisione, risultano, poi, di interesse alcune ulteriori statuizioni della Corte in merito a tematiche collaterali a quella oggetto di remissione.
In particolare, la stessa si premura di confermare – coerentemente con i propri precedenti sul punto – che il legislatore debba sì assicurare l'adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, ma che al riguardo la reintegrazione non costituisca «l'unico possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali.
Inoltre, avallando un consolidato orientamento delle corti di legittimità, la Consulta si premura di chiarire che non rientrino nell'area della tutela reintegratoria le ipotesi di mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile. |