L'appalto può definirsi genuino anche nel caso in cui l'appaltatore utilizzi beni di proprietà del committente
05 Agosto 2022
Massima
L'utilizzo da parte dell'appaltatore di mezzi forniti dal committente configura la fattispecie d'interposizione fittizia di manodopera nel solo caso in cui sia di rilevanza tale da rendere marginale l'apporto dell'appaltatore.
Ne consegue che l'appalto sia genuino anche nell'ipotesi d'impiego di strumenti o beni del committente, purché sia in capo all'appaltatore l'organizzazione, il rischio d'impresa e l'esercizio dei poteri datoriali sui lavoratori impiegati nell'appalto.
Le dichiarazioni rilasciate dinnanzi alle commissioni di certificazioni dei contratti possono acquisire valore confessorio. Il caso
Il ricorrente, formalmente qualificato come appaltatore, si rivolge alla Corte di Cassazione dopo che i giudici di entrambi i giudizi di merito avevano rigettato domanda volta all'accertamento della simulazione del contratto d'appalto di servizi concernente la manutenzione ordinaria, la pulizia e la custodia dell'impianto sportivo del circolo tennis di parte resistente e la conseguente riqualificazione del rapporto in subordinato o, in subordine, collaborazione eterorganizzata dal committente ex art. 2 del D.lgs. 81/2015 e con le derivanti differenze retributive a suo favore.
La corte d'appello, nel confermare la sentenza di primo grado, aveva riconosciuto in capo al ricorrente il rischio d'impresa poiché disponeva dei mezzi necessari per l'esecuzione dell'appalto a prescindere dal parziale utilizzo di beni del circolo appaltante.
L'esistenza di un'organizzazione e del rischio d'impresa erano state, inoltre, confermate dall'utilizzo di un operaio eterodiretto dallo stesso appaltatore.
Nel ricorso in cassazione veniva evidenziato l'insussistenza degli indici di genuinità di appalto rinvenuti dai Giudici di II grado eccependo tra l'altro come il parziale uso di beni di proprietà del committente deponesse per la somministrazione illecita di manodopera. Le questioni
L'utilizzo di beni di proprietà del committente comporta in automatico la non genuinità dell'appalto?
Le dichiarazione rese dinnanzi alle certificazioni dei contratti hanno valore confessorio? Soluzioni giuridiche
Anche i Giudici della Corte di Cassazione respingono la tesi del ricorrente confermando integralmente la sentenza di II grado.
L'ordinanza in commento non fa altro che richiamare l'orientamento predominante in base al quale l'utilizzo di beni di proprietà del committente non implica necessariamente l'esistenza di un appalto non genuino.
Seppur in maniera molto sintetica, il Supremo Collegio rammenta quali siano gli elementi da verificare per accertare l'esistenza o meno di un appalto genuino.
Esso precisa che l'azienda appaltatrice deve essere dotata di un'effettiva autonomia organizzativa che si manifesta, in primis, nell'esercizio dei tipici poteri datoriali nei confronti dei lavoratori impiegati nell'appalto e deve assumersi il rischio d'impresa.
La Suprema Corte evidenzia come fosse stato accertato nei precedenti due gradi di merito che le parti si fossero avvalse di avvocati nella redazione del contratto e che lo stesso negozio fosse stato certificato da una commissione di certificazione.
Nella predetta procedura di certificazione il ricorrente aveva dichiarato di possedere beni e l'organizzazione necessaria per eseguire l'appalto commissionato, che avrebbe utilizzato un operaio, di lavorare per diversi committenti, di aver adempiuto agli obblighi sulla sicurezza sul luogo di lavoro e di aver pattuito un corrispettivo indipendentemente dal numero di lavoratori impiegati nell'appalto e dalle ore necessarie per eseguirlo.
La Suprema Corte ritiene corretta l'argomentazione della sentenza della Corte d'appello che ha ritenuto che il contenuto dell'istanza di certificazione abbia valore confessorio. Osservazioni
Come anticipato, l'orientamento in base al quale uno dei requisiti principali che distingue un appalto genuino da uno, invece, illegittimo sia che l'impresa appaltatrice organizzi autonomamente i propri dipendenti si è fortemente consolidato nella giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis Cass. Civ., Sez. lav. 27 marzo 2017, n. 7796, Cass. civ., 14 agosto 2019, n. 21413, Cass. Civ., sez. lav. 9 gennaio 2020, n. 251) a discapito di quello della proprietà dei mezzi di produzione, sia per l'effetto della dematerializzazione dell'impresa, sia per l'abrogazione dell'art. 3 l. 1369/1960 che vietava categoricamente l'utilizzo di strumenti e beni di proprietà del committente.
L'effettivo esercizio dei poteri datoriali acquisisce ancora maggiore rilevanza nei cd appalti leggeri, altresì definiti labour intensive, nei quali la genuinità dell'appalto può derivare esclusivamente da un'effettiva gestione dei lavoratori poiché in suddetti appalti l'opera o il sevizio commissionato si realizza pressoché tramite il lavoro, con un utilizzo residuale di beni o strumenti materiali.
L'importanza della gestione dei dipendenti ai fini della valutazione della liceità dell'appalto viene chiaramente enunciata, ad esempio, nella sentenza n. 14371 dell'8 luglio 2020.
In tale pronuncia la Suprema Corte afferma che in tema d'interposizione nelle prestazioni di lavoro, l'utilizzo, da parte dell'appaltatore, di capitali, strumenti e beni di proprietà del committente costituisce una presunzione iuris et de iure d'interposizione fittizia nell'ipotesi in cui tali conferimenti abbiano un'importanza tale da rendere assente o ininfluente l'apporto e l'organizzazione dell'appaltatore nella gestione ed esecuzione dell'appalto.
Questo squiibrio tra il contributo materiale del committente e l'organizzazione messa a disposizione dell'appaltatore nell'esecuzione dell'appalto deve essere valutata dal Giudice anche in considerazione dell'oggetto dell'appalto medesimo.
La conseguenza di tale analisi alla quale è chiamato il Giudice nel valutare la genuinità o meno dell'appalto, comporta che la presunzione assoluta d'interposizione fittizia di manodopera non operi qualora vi sia un utilizzo da parte del committente per l'esecuzione dell'appalto commissionato di proprie risorse economiche notevoli oltre a quelle utilizzate per la retribuzione dei lavoratori in esso impiegati, proprie conoscenze specifiche e propri beni immateriali necessari per l'esecuzione dell'opera.
Emblematica in relazione all'affievolirsi dell'importanza della proprietà dei mezzi in un sistema produttivo che in ampi settori si è- o è per sua natura- fortemente dematerializzato è la sentenza del 9 gennaio 2020, n. 251.
In tale pronuncia la Suprema Corte ha ritenuto la legittimità dell'appalto in quanto sussistente la capacità organizzativa ed il rischio d'impresa in capo all'appaltatore nonostante l'utilizzo da parte di quest'ultimo di software di proprietà del committente e l'esistenza di una postazione fissa all'interno dei locali del committente.
Trattandosi di manutenzione di software, i Giudici della Suprema Corte hanno ritenuto la legittimità dell'appalto.
L'appaltatore, infatti, gestiva, seppur all'interno dell'impresa committente e sui software di quest'ultima, in piena autonomia l'oggetto dell'appalto che consisteva, per l'appunto, sia nell'attivata di manutenzione dei programmi che in quella di creazione di nuovi programmi per l'impresa appaltatrice.
Inoltre risultava appurata la presenza di un referente dell'appaltatrice nell'azienda committente che coordinava, sempre per conto dell'appaltatrice, l'attività di aggiornamento software e quella di programmazione.
Tale sentenza costituisce uno dei casi più lampanti in cui l'appalto è costituito dal know how dei dipendenti dell'appaltatore che operano su beni materiali dell'impresa committente, all'interno dei suoi locali e disponendo per giunta di postazioni fisse per poter operare.
Sempre detta sentenza ha il pregio anche di evidenziare come la legittimità dell'appalto nell'accezione della capacità organizzativa possa essere desunta anche dalla ramificazione sull'intero territorio dell'impresa appaltatrice e dall'esecuzione di innumerevoli contratti.
Tirando le fila del discorso, ai fini della valutazione della genuinità o meno di un appalto, la titolarità dei beni utilizzati nell'esecuzione dell'appalto può avere ancora una rilevanza nel caso di appalti cd pesanti.
Negli appalti cd leggeri la proprietà dei beni, invece, non è indice di genuinità o meno. In quest'ultimi l'altro indice rivelatore per la verifica della liceità dell'appalto rimane il cd rischio d'impresa (cfr. ex plurimis Cass. Civ., 26 ottobre 2018, n. 27213).
Se, dunque, l'ordinanza in commento non fa altro che confermare un orientamento che si può definire monolitico della Suprema Corte, meritano una breve riflessione le altre due argomentazioni richiamate nella motivazione dell'ordinanza e volte a confermare la sentenza di II grado.
La Suprema Corte evidenzia come entrambe le parti, nella stesura del contratto, fossero state assistite da legali e che il contratto fosse stato certificato. In relazione a quest'ultimo punto la Suprema Corte, seppur non esplicitamente, sembra confermare la rilevanza confessoria attribuita dalla Corte d'Appello alle dichiarazioni rese dall'appaltatore nella procedura di certificazione.
A parere di chi scrive occorre una valutazione più approfondita su quest'ultimo elemento. Posto che la presenza e l'assistenza di un legale per l'appaltatore lascia presupporre la genuinità del consenso prestato, bisogna ricordare come l'art. 80 co. 1 del D.lgs. 276/2003 preveda come motivo di d'impugnazione della certificazione del contratto la difformità tra programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione.
Nel caso di specie non parrebbe sussistere un'incongruenza tra il contenuto del contratto e la sua successiva esecuzione posto che la Suprema Corte ha rilevato come fosse stato accertato che il ricorrente si fosse avvalso di un proprio dipendente nell'esecuzione dell'appalto esercitando nei confronti di quest'ultimo il potere direttivo.
Ciononostante far discendere dalle dichiarazioni rese in sede di certificazione sic et simpliciter una rilevanza processuale a parere di chi scrive non pare possibile; la portata delle dichiarazioni rese in fase di certificazione deve essere valutata caso per caso e alla luce delle censure e delle prove presentate in giudizio dalle parti in merito alla successiva attuazione del rapporto certificato. |