Tanto tuonò che piovve. Ecco il primo procedimento penale nei confronti di una società per illeciti fiscali

Ciro Santoriello
19 Agosto 2022

La sentenza della Cassazione rappresenta la prima occasione di intervento della Corte di legittimità in ordine alla disciplina sanzionatoria nei confronti degli enti collettivi di cui al d.lgs. n. 231/2001 allorquando i vertici o i dipendenti della società abbiano commesso un illecito fiscale.
Massima

Sussiste la responsabilità della società con riferimento al reato presupposto rappresentato dal delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti nel caso in cui i dirigenti dell'impresa facciano uso di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera essendo irrilevante la circostanza che in tali ipotesi siano stati effettivamente sopportati i costi per il pagamento dei lavoratori.

Il caso

In fase di indagini una società era attinta da un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca in relazione ad un illecito fiscale commesso dai vertici dell'impresa. In particolare, agli amministratori dell'ente era contestato il delitto di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74/2000 giacché al fine di evadere l'IVA, avvalendosi di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti emesse da un consorzio a rilevanza esterna, simulando contratti di appalto invece di contratti di somministrazione di mano d'opera, nelle dichiarazioni IVA indicavano elementi passivi fittizi (IVA indetraibile) per un ammontare complessivo di oltre 20 milioni di euro.

La società ricorreva in cassazione sostenendo che, pur volendo ritenere false le fatture contestate, non vi sarebbe stata l'evasione dell'IVA in quanto la neutralità di questa imposta applicabile ai diversi contratti avrebbe reso indifferente, dal punto di vista del tributo fiscale, la qualificazione giuridica dei contratti stipulati con il consorzio, avendo la società indagata anticipato l'Iva che ha poi portato in detrazione, con la conseguenza che nessun vantaggio sarebbe stato ottenuto né avrebbe potuto in alcun modo essere ottenuto. In sostanza, si sostiene che l'indicazione in fattura di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura o prestato il servizio rileverebbe ai fini del reato di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 74/2000 soltanto nei casi, nella specie ritenuti dalla ricorrente non sussistenti, in cui la falsa indicazione incida sulla misura dell'aliquota e conseguentemente sull'entità dell'imposta che l'acquirente o il committente possa legittimamente detrarre, mentre nel caso di specie tutte le società avevano il medesimo regime Iva, sia che si ritenesse sussistente la fattispecie dell'appalto, sia che si configurasse quella della somministrazione di manodopera.

La questione

La sentenza della Cassazione rappresenta la prima occasione di intervento della Corte di legittimità in ordine alla disciplina sanzionatoria nei confronti degli enti collettivi di cui al d.lgs. n. 231/2001 allorquando i vertici o i dipendenti della società abbiano commesso un illecito fiscale.

Come è noto, gli illeciti fiscali sono stati inseriti fra gli illeciti presupposto della colpevolezza delle società con il d.l. n. 124/2019; in particolare, ai sensi del nuovo art. 25-quinquiesdecies d.lg. n. 231/2001 sono infatti previste per la persona giuridica le seguenti sanzioni:

a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 2, comma 1 d.lgs. n. 74/2000, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 2, comma 2-bis d.lgs. n. 74/2000, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall'art. 3 d.lgs. n. 74/2000, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 74/2000 la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'art. 8, comma 2-bis, d.lgs. n. 74/2000 la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall'art. 10 d.lgs. n. 74/2000, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;

g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall'art. 11 d.lgs. n. 74/2000, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote. Se l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo; inoltre, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'art. 9, comma 2, lettera c) (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d) (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e) (divieto di pubblicizzare beni o servizi) (Piva, Reati tributari e responsabilità dell'ente: una riforma nel (ancorché non di) sistema, in Sistemapenale.it; Bartoli, Responsabilità degli enti e reati tributari: una riforma affetta da sistematica irragionevolezza, ivi; Ronco, Reati tributari, in AA.VV. (a cura di Levis – Perini), Il 231 nella dottrina e nella giurisprudenza, Bologna 2021, 1057).

Ovviamente l'ente risulta poi esposto anche all'applicazione del sequestro e della confisca, diretta e per equivalente, del prezzo o profitto del reato tributario realizzato nell'interesse o a vantaggio dell'ente, superandosi così i limiti precedenti – individuati dalla decisione delle Sezioni Unite Gubert – che in caso di illecito fiscale commesso da amministratori o dirigenti di una persona giuridica consentivano il sequestro in capo all'ente del profitto del reato tributario, sub specie di risparmio d'imposta, solo se si trattava di confisca in via diretta (sul punto, Varraso, Le confische e i sequestri in materia di reati tributari dopo il "decreto fiscale" n. 124 del 2019, in Sistemapenale.it).

Quanto alla vicenda che ha dato origine alla presente decisione si tratta di una contestazione del delitto di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74/2000 in relazione alla presentazione di una dichiarazione fraudolenta a mezzo di utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti. In particolare, era stato riscontrato l'inserimento in dichiarazione di fatture attestanti costi sopportati dal contribuente in ragione della conclusione di contratti di appalto e servizi, quando invece quelle spese (che erano effettivamente state sostenute dalla società) facevano riferimento ad una illecita somministrazione di manodopera da parte dell'emittente: tale condotta, per giurisprudenza ormai costante, integra il reato di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74/2000, in concorso con la violazione dell'art. 18 d.lgs. n. 276/2003 (Cass. pen., sez. III, 15 luglio 2020, n. 20901; Cass. pen., sez. III, 5 giugno 2013, n. 24540; Cass. pen., sez. III, 15 luglio 2020, n. 20901).

Nella pronuncia in parola inoltre viene escluso che rilevi, per evitare la sussistenza del delitto, il principio della “neutralità dell'IVA” giusto il quale qualora il soggetto emittente la fattura per operazione inesistente abbia comunque versato l'imposta allo Stato sorgerebbe la detraibilità dell'imposta per il soggetto utilizzatore che ha pagato la fattura e corrisposto anticipatamente l'IVA, posto che in tali casi la perdita del gettito fiscale sarebbe pacificamente esclusa qualora l'emittente della falsa fattura abbia versato l'IVA allo Stato, derivando da ciò il diritto alla detrazione dell'IVA per l'utilizzatore che l'ha anticipatamente versata. Ribadendo quanto asserito in altra pronuncia (Cass. pen., sez. III, 30 marzo 2022, n. 11633), la Cassazione sostiene non vi è una contraddizione fra il principio secondo cui in presenza di operazioni inesistenti deve sempre ritenersi indetraibile l'IVA relativa alle stesse e l'obbligo per chiunque indichi l'IVA in una fattura di assolvere tale imposta anche in assenza di una qualsiasi operazione imponibile reale in quanto le due norme summenzionate non si applicano al medesimo operatore: è l'emittente di una fattura a essere debitore dell'IVA in essa indicata, mentre l'indetraibilità dell'IVA relativa a operazioni inesistenti è opponibile al destinatario di tale fattura.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato rigettato.

Dopo aver ritenuto sufficientemente argomentato il provvedimento impugnato nella parte in cui ricostruisce l'accaduto (specie con riferimento alla circostanza dell'omesso versamento dell'imposta dichiarata, da parte di numerose cooperative e consorzi di lavoratori accomunati dall'avere fornito la forza lavoro necessaria ai servizi di handling effettuati presso gli stabilimenti della ricorrente ed all'esistenza di un modello operativo in base al quale la società indagata non assumeva i lavoratori di cui necessitava per erogare i propri servizi ma, dopo essersi aggiudicata le commesse, erogava la prestazione impiegando la forza lavoro fornita da una serie di altri soggetti, attraverso la stipulazione di contratti che avevano la forma giuridica dell'appalto), la Cassazione ritiene corretto qualificare le fatture utilizzate in dichiarazione dall'ente colpito dal sequestro e relative ad i costi sostenuti per l'utilizzo di manodopera come soggettivamente inesistenti, sul rilievo che la prestazione era consistente, in realtà, non in un appalto ma in una somministrazione di lavoro e veniva fornita non dal consorzio emittente il documento fiscale ma dalle cooperative finali componenti il consorzio stesso ed in cui i lavoratori erano inquadrati. Conseguentemente, l'inesistenza soggettiva delle fatture, comportando l'indetraibilità dell'IVA esposta in dichiarazione, è stata ritenuta elemento integrante, tra gli altri, la fattispecie delittuosa ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000 (quale reato presupposto dell'incolpazione ex art. 25-quinquiesdecies d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) nei confronti della società e dei suoi manager.

Il complesso meccanismo ideato dagli indagati aveva comportato, da un lato, l'applicazione di tariffe "fuori mercato", che i fornitori della manodopera avevano potuto garantire all'ente committente solo attraverso l'omesso versamento delle imposte e/o dei contributi previdenziali, e, dall'altro, la possibilità per la committente di ricorrere alla forza lavoro con vantaggi in tema di flessibilità di gestione e di costi, che l'assunzione diretta delle maestranze non avrebbe consentito, nonché di utilizzare le fatture emesse dal Consorzio ai fini IVA, con ciò realizzando un'operazione riconducibile anche alla fattispecie dell'utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, consentendo di realizzare una evasione dell'imposta sul valore aggiunto. Quanto a quest'ultimo profilo, infatti, l'IVA dovuta dalla società indagata era neutralizzata dall'IVA che la stessa vantava a credito per le fatture emesse dalle cooperative e società fornitrici della manodopera, le quali in gran parte non avevano versato l'IVA dovuta sulle fatture emesse; l'ente indagato, dal canto suo, aveva portato in detrazione l'IVA addebitata al Consorzio per un importo complessivo a oltre € 20.000.000

Quanto alla mancata considerazione del principio di neutralità dell'IVA come lamentato dalla difesa, la Cassazione osserva come la corretta applicazione dell'Iva nell'interposizione di manodopera si ha solo quando, in conformità alla normativa che regola la materia, tra il committente e l'agenzia interinale/appaltatore/datore di lavoro terzo esiste una "reale" interposizione di manodopera. In caso contrario, ossia in presenza, come nella specie, di un comportamento elusivo nell'interposizione di manodopera, l'Iva è applicata indebitamente e, dunque, non è detraibile ai sensi dell'art. 19 d.P.R. n. 633/1972, proprio per il fatto che l'alterazione del meccanismo di riscossione dell'imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell'ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell'imposta sulle operazioni passive dell'imprenditore o del professionista (Cass. civ., sez. V, 20 maggio 2013, n. 16852. Nel senso che, in tema di divieto d'intermediazione di manodopera, in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalto di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile una prestazione dell'appaltatore imponibile ai fini IVA, Cass. civ., sez. V, 17 novembre 20201, n. 34876).

Ad ulteriore supporto argomentativo, la decisione in commento, oltre a richiamare la giurisprudenza civile, evidenzia come la giurisprudenza penale - sul presupposto dell'indetraibilità dell'Iva nei casi di illecita somministrazione di manodopera dissimulata da fittizi contratti di appalto e servizi - non abbia mai dubitato che l'indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anziché relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, non incide sulla configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta previsto dall'art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, il quale, nel riferirsi all'uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo (Cass. pen., sez. III, 2 marzo 2018, n. 30874), con la conseguenza che il delitto di frode fiscale ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000 è astrattamente configurabile nel caso di intermediazione illegale di manodopera, stante la diversità tra il soggetto emittente la fattura e quello che ha fornito la prestazione. Da ciò discende pure la configurabilità del concorso di reati fra la contravvenzione di intermediazione illegale di mano d'opera ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera (Cass. pen., sez. III, 26 giugno 2020, n. 20901; Cass. pen., sez. III, 14 marzo 2019, n. 31202 che ha ritenuto la configurabilità del delitto di frode fiscale nel caso della società utilizzatrice di fatture che, avendo quale oggetto sociale attività logistica nel settore dell'alta moda per noti marchi internazionali, aveva appaltato i servizi di facchinaggio e le prestazioni accessorie, quali pulizia, etichettatura dei capi, confezionamento ecc., a vari consorzi che, a loro volta, avevano assegnato tali attività alle cooperative facenti parte dei primi che operavano nei magazzini della società utilizzatrice presenti nel territorio nazionale).

Conclude la decisione che contrariamente al dato puramente formale, tra la società utilizzatrice e le emittenti non erano stati instaurati appalti genuini, avendo la società fatto ricorso, in maniera sistematica, a moduli di gestione di tali rapporti in fase esecutiva che, di fatto, integravano delle ipotesi di somministrazione (illegale) di manodopera da parte delle cooperative, per il tramite del consorzio che si interponeva fittiziamente in tale rapporto. Tale meccanismo, dunque, aveva permesso alla società utilizzatrice di impiegare la manodopera messa a disposizione delle cooperative instaurando di fatto - attraverso l'elusione delle norme imperative in materia giuslavoristica - un rapporto in tutto assimilabile a quello di lavoro dipendente; con la conseguenza, sotto il profilo fiscale, che le fatture emesse dalle società consorziate erano da qualificare come oggettivamente inesistenti «in quanto, pur essendo state emesse avuto riguardo ad una prestazione "reale" - e cioè quella collegata alla somministrazione del lavoro - nel caso di specie, non è prevista ab origine la fatturazione (in quanto vietata ai sensi dell'art. 18 d.lgs. 276/2003), con la conseguenza che la società appaltante avrebbe inserito le relative fatture in contabilità, facendo figurare elementi passivi fittizi e detraendo IVA per tali operazioni». Si tratta di una conclusione in tema di indetraibilità dell'Iva conforme alla giurisprudenza penale di legittimità che, in conformità ai principi affermati dalla giurisprudenza tributaria, ha chiarito che, anche nel caso di emissione della fattura per operazioni soggettivamente inesistenti, viene a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione dell'Iva, costituita dall'effettuazione di un'operazione, giacché questa (riferendosi l'art. 19 comma 1 d.P.R. n. 633/1972 all'imposta relativa alle "operazioni effettuate") deve ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell'operazione non coincidano con quelli della fatturazione (cfr. Cass. civ., sez. V, 11 novembre 2011, n. 23626: la previsione dell'art. 21, comma 7 d.P.R. n. 633/1972, - secondo la quale, se vengono emesse fatture per operazioni inesistenti, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura - è esplicita nel senso di imporre il versamento dell'imposta, ma di precluderne la detrazione. La disposizione è, infatti, letta nel senso che il tributo viene ad essere considerato "fuori conto" e la relativa obbligazione, conseguentemente "isolata" dalla massa di operazioni effettuate, "estraniata", per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra Iva "a valle" ed Iva "a monte", che presiede alla detrazione d'imposta di cui all'art. 19 d.P.R. n. 633/1972. E ciò per il rilievo che il versamento dell'Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell'imposta, è evento dirompente, nell'ambito del complessivo sistema Iva. Il diritto alla detrazione dell'IVA non può infatti prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in particolare della fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell'impresa).

Osservazioni

Nella decisione non compare alcun riferimento alle problematiche connesse all'inserimento dei reati fiscali nel novero degli illeciti presupposto della responsabilità delle società e quindi, sotto questo aspetto, la rilevanza della decisione non è particolarmente rilevante. La circostanza dell'assenza nella decisione in commento di ogni riferimento alle tematiche proprio del d.lgs. n. 231/2001 – in particolare, il giudizio sull'assetto organizzativo dell'azienda – è però spiegabile richiamando una considerazione che era stata formulata al momento dell'entrata in vigore del d.l. n. 124/2019 ovvero che essendo gli illeciti fiscali indiscutibilmente frutto di una scelta della dirigenza aziendale ed espressione di una politica d'impresa, rispetto alla prevenzione degli stessi nullo o scarso rilievo avrà la predisposizione di un modello organizzativo, posto che il delitto viene intenzionalmente realizzato da chi quel modello aveva predisposto (evidentemente senza intenzione di prestarvi alcuna osservanza).

In realtà, il quadro non pare così semplice, per ragioni legate, a diverse problematiche in tema di interpretazione delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs. n. 74/2000 che in altra sede avevamo evidenziato come essere di rilievo nell'ambito della responsabilità delle società per illeciti fiscali (Santoriello, La nuova responsabilità delle società per i reati tributari, in Riv. Guardi Fin, 2020, 963). Intendiamo riferirci alle incertezze che circondano l'interpretazione giurisprudenziale dei reati di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione infedele, con particolare riferimento ai temi dell'inesistenza della operazione documentata da fatture, dei costi non inerenti, dell'abuso del diritto, della nozione di operazione simulata, ecc.

Il tema è evidentemente troppo complesso per essere esaminato in questa sede (in proposito sia consentito il riferimento a Santoriello, Abuso del diritto e conseguenze penali, Torino 2018), ma quel che si vuol dire è che in ragione di alcune interpretazioni giurisprudenziali – con riferimento, ad esempio, a scelte di transfer pricing, esterovestizione, sale and lease back, ecc. -, è ben possibile che scelte di pianificazione fiscale particolarmente “aggressive” (per intenderci, passibili di essere qualificate come comportamenti di elusione) possano essere qualificate come condotte di evasione con conseguente possibile contestazione alla società dell'illecito di cui all'art. 25-quinquiesdecies d.lgs. n. 231/2001 (laddove l'eventuale incertezza circa il soggetto che ha effettivamente elaborato la politica fiscale della società sarà irrilevante per le ragioni che si sono dette sopra).

Non da trascurare poi è il possibile (ma in alcuni casi forse anche inconsapevole) coinvolgimento dell'ente in vicende di interposizione fittizia ovvero allorquando la negoziazione interessa in effetti due soli soggetti ma nella vicenda viene fatto comparire un terzo il cui intervento è funzionale all'ottenimento di un illecito vantaggio fiscale. Questo è quanto si verifica nelle cd. frode carosello, situazione in cui nelle quali il soggetto estraneo – l'interposto – è di regola rappresentato da una società “cartiera” la quale acquista merce dal fornitore comunitario senza applicazione dell'Iva per poi rivenderla sottocosto ad un destinatario UE, che può così lucrare sul mancato pagamento dell'imposta sul valore aggiunto da parte del soggetto interposto. È da sempre pacifico in giurisprudenza che la fatturazione che intercorre fra il soggetto interposto e il successivo destinatario della prestazione rappresenti falsamente l'accaduto e ciò in quanto il fornitore intracomunitario cede la merce (non al singolo interposto come documentato all'Erario, ma) direttamente al destinatario finale: in sostanza, a fronte della corretta rappresentazione dell'operazione economica come corrente fra il venditore ed effettivo importatore dei beni in Italia se ne fornisce all'Amministrazione finanziaria una diversa, nella quale compare un'operazione economica asseritamente intercorsa fra esportatore UE e soggetto interposto, operazione che in realtà non ha affatto luogo: in tali circostanze si ritiene da sempre configurabile il reato di cui all'art. 8 d.lgs. n. 74/2000 a carico dell'interposto nonché quello di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74/2000 a carico dell'effettivo cessionario dei beni o beneficiario della prestazione (Cass. pen., sez. III, 23 marzo 2011, n. 11670), il quale ottiene il vantaggio di acquistare beni ad un prezzo minore in quanto cedutogli da un soggetto che non verserà l'iva.

Non è raro però che la società accusata di aver utilizzato la falsa fattura mediante i rapporti (inesistenti) con il soggetto interposto si difenda asserendo di non essere consapevole della fittizietà della interposizione e di aver dunque agito in piena buona fede, magari acquistando i beni da fornitore italiano proprio perché la società estera non vendeva direttamente i beni sul territorio nazionale. Per fronteggiare il rischio di tali accuse, dalla società ritenute infondate, è opportuno che il modello organizzativo – alla luce della analisi storica della pericolosità fiscale dell'ente e del tipo di attività esercitata (se essa imponga o meno il contatto con numerosi fornitori e clienti) – verifichi se sia il caso o meno di introdurre procedure aventi ad oggetto in particolare la scelta del fornitore ed il dovuto controllo sul cliente (con particolare riferimento alla questione dell'inesistenza soggettiva, sia dal lato passivo, sia dal lato attivo) e l'analisi dei prezzi di acquisto e di vendita (ai fini dell'analisi del “rispetto” del criterio del valore normale, per evitare acquisti o vendite sottocosto).

In secondo luogo, l'introduzione del delitto di dichiarazione fraudolenta fra i reati presupposto della responsabilità dell'ente deve indurre gli amministratori ad un'ulteriore valutazione inerente operazioni cd. infragruppo e nelle quali di frequente la giurisprudenza rinviene una ipotesi di interposizione fittizia. Il problema nasce dalla circostanza, cui si è fatto sopra cenno, che secondo una giurisprudenza ormai pacifica l'inesistenza di un'operazione commerciale – e quindi la falsità delle fatture e della documentazione fiscale inerente la stessa – può sussistere pure quando le prestazioni concordate dalle parti risultino materialmente eseguite ma al contempo tali negozi contrattuali non presentino alcuna logica economica ed imprenditoriale e siano diretti solo a far ottenere al contribuente un vantaggio fiscale non spettantegli: come si legge in una decisione, il meccanismo fraudolento presente nelle frodi carosello «funziona sia se il trasferimento dei beni sia reale che fittizio; ciò che conta è che la società italiana importatrice che si assume il debito IVA sia votata all'insolvenza, cioè trattenga l'IVA senza versarla e consenta di "spalmare" i benefici sugli altri protagonisti del "carosello"; quando vengono conclusi una pluralità di negozi giuridici con il solo intento di far maturare un rilevante debito d'IVA in capo ad una persona giuridica – con conseguenti vantaggi economici per le altre aziende coinvolte nei traffici commerciali – nella consapevolezza che la stessa non provvederà a versare all'erario le somme dovute, si è senz'altro in presenza di operazioni inesistenti, anche se le prestazioni obbligatorie previste nei contratti sono state effettivamente poste in essere» (Cass. pen., sez. V, 10 marzo 2016, n. 19460). D'altronde, ha aggiunto la Cassazione in un'altra pronuncia, l'inesistenza delle operazioni documentate nelle fatture che si assumono false non necessita che i sottostanti negozi siano simulati in senso civilistico poiché «anche ciò che giuridicamente è effettivo può essere senz'altro fraudolento, se sul piano economico non vi è stata affatto l'operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto e ciò per la semplice ed intuitiva ragione che, nell'ipotesi di un accordo tra A e B per far figurare come realmente avvenute operazioni in realtà inesistenti, la cosa non cambia imbastendoci sopra un negozio giuridico formalmente ineccepibile. Se A vuole far figurare costi mai sostenuti, inventandosi che B si è occupato a titolo oneroso della pulizia dei locali della sua sede, ben potrebbe nascondere la frode conservando tra la propria documentazione fiscale sia le fatture che un falso contratto stipulato con l'impresa di pulizie: quel che conta non è che esista la conseguenza giuridica del contratto, vale a dire il diritto di A ad ottenere quella prestazione da B, ma il fatto materiale - rilevando appunto l'operazione economica, non l'eventuale negozio a quella sotteso - che la prestazione vi sia stata davvero» (Cass. pen., sez. III, 16 gennaio 2013, n. 36859).

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