I limiti di impignorabilità dell'art. 545 c.p.c. valgono anche nel processo penale (e la “prima casa”?)

Ciro Santoriello
26 Settembre 2022

Una recente pronuncia della Cassazione (Sezioni Unite Penali, n. 26252/2022) fa chiarezza sull'operatività, nel processo penale, dei limiti di impignorabilità previsti dal codice di procedura civile, all'art. 545 c.p.c.
Massima

I limiti di impignorabilità delle somme spettanti a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall'art. 545 c.p.c., si applicano anche alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato.

Il caso

In fase di indagini per il delitto di dichiarazione fraudolenta a mezzo di utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti ex art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 era disposto in capo a due indagati il sequestro di somma di denaro di €. 35.983,64 ciascuno, pari al triplo della pensione sociale.

Veniva richiesto la restituzione della suddetta somma richiamando (anche) la previsione di cui all'art. 545 c.p.c. ma l'istanza era rigettata in quanto, pur ritenendosi applicabili nel procedimento penale i limiti di pignorabilità e sequestrabilità previsti dall'art. 545 c.p.p., ne era esclusa l'operatività nella fattispecie in esame rilevando, per quanto di interesse in questa sede, che era generica la deduzione della provenienza delle somme depositate sui conti e che tali somme erano state corrisposte ad uno degli indagati quale amministratore di una società e, dunque, nell'ambito di un rapporto estraneo a quelli contemplati dall'art. 409, comma 3, c.p.c. per i quali operano i limiti di pignorabilità previsti dall'art. 545 c.p.c.. Medesima considerazione era formulata in sede di rigetto dell'appello cautelare successivamente interposto, escludendo l'operatività dei limiti previsti dall'art. 545 c.p.c., ora in termini assoluti, ora nel solo caso in cui le somme dovute a titolo di credito retributivo o pensionistico fossero siano state già versate all'avente diritto e si trovino, pertanto, confuse nel patrimonio mobiliare.

In sede di ricorso per cassazione si lamentava, per quanto di interesse in questa sede, la violazione dell'art. 545 c.p.c. laddove il provvedimento impugnato ne aveva ritenuto l'inapplicabilità tout court al sequestro preventivo, essendo invece detta norma diretta a garantire i diritti inalienabili della persona ed il c.d. "minimo vitale" quale regola generale dell'ordinamento processuale, tenuto conto poi, quanto al merito della posizione dei ricorrenti, della mancanza di cespiti diversi da quelli derivanti dall'attività svolta nell'azienda ed oggetto di sequestro.

Alla luce del contrasto sussistente in ordine a tale profilo, la questione era rimessa alle Sezioni Unite: la sezione semplice adita, infatti, aveva rilevato un contrasto ermeneutico concernente l'operatività dell'art. 545 c.p.c. in caso di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente avente ad oggetto trattamenti retributivi, pensionistici o assistenziali e quindi le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla seguente questione: "Se, e in quali eventuali termini, si applichino, alla confisca per equivalente ed al sequestro ad essa finalizzato, i limiti di impignorabilità delle somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a titolo di licenziamento, nonché quelle dovute a titolo di pensione, di indennità che tengano luogo di pensione o di assegno di quiescenza, previsti dall'art. 545 cod. proc. civ.".

La questione

L'art. 545 c.p.c., collocato nell'ambito della disciplina dell'espropriazione presso terzi (Libro III, Titolo II, Capo III, cod. proc. civ.), contempla limiti di diversa intensità alla pignorabilità dei crediti in considerazione della natura sia di questi ultimi che dei crediti "antagonisti". In particolare, il secondo comma dell'art. 545 c.p.c. prevede un regime di assoluta impignorabilità per i crediti volti a soddisfare esigenze vitali o particolari bisogni dell'esecutato (si tratta dei crediti aventi ad oggetto sussidi di povertà, maternità, malattia o funerali), mentre i restanti commi riguardano, invece, i crediti soggetti ad un regime di pignorabilità relativa nell'ambito del quale sono contemplati differenti condizioni e limiti in base alla specifica natura del credito o della somma da pignorare. Segnatamente, per quanto qui rileva, il terzo e il quarto comma prevedono un differente limite alla pignorabilità delle somme dovute a titolo di stipendio, di salario o di altre indennità relative al rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute a cause di licenziamento, contemplandosi una diversa soglia di pignorabilità correlata alla natura del credito azionato. Ove si tratti di crediti alimentari, tali somme sono, infatti, pignorabili nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o da un giudice da lui delegato; ove, invece, il credito azionato riguardi "tributi dovuti allo Stato" o ogni altro credito, tali somme sono pignorabili nei limiti di un quinto. La norma prevede, inoltre, al quinto comma, un innalzamento della quota pignorabile fino alla metà del complessivo ammontare del credito retributivo, in caso di concorso delle cause di credito.

La Corte costituzionale, investita più volte della questione di legittimità costituzionale di tale norma, ha chiarito che la ratio sottesa all'art. 545 c.p.c. è quella di contemperare la protezione del credito con l'esigenza del lavoratore di avere, attraverso una retribuzione congrua, un'esistenza libera e dignitosa (Corte cost., sentenza n. 248 del 2015). Si è, infatti, affermato che la facoltà di escutere il debitore non può essere sacrificata totalmente, anche se la privazione di una parte del salario è un sacrificio che può essere molto gravoso per il lavoratore scarsamente retribuito; con l'art. 545 c.p.c. il legislatore si sarebbe dato carico di contemperare i contrapposti interessi, contenendo in limiti angusti la somma pignorabile "e graduando il sacrificio in misura proporzionale all'entità della retribuzione": chi ha una retribuzione più bassa, infatti, sarebbe colpito in misura proporzionalmente minore (VALLONE, L'impignorabilità di stipendi e pensioni versati su conto corrente: note a prima lettura del D.L. del 27 giugno 2015 n. 83, in Judicium, 2016, 5 agosto 2016; DI FRANCESCO, Le nuove norme sul pignoramento dello stipendio e della pensione, in Dir. Prat. Lav., 2016, 42).

Anche con riferimento agli emolumenti pensionistici, il settimo comma dell'art. 545, introdotto successivamente (CONTE, Sui limiti spazio-temporali dell'impignorabilità di retribuzioni e di pensioni: lacune della disciplina normativa, in Corr. Giur., 2011, 1145; CONTE, Contrasti giurisprudenziali in tema d'impignorabilità delle somme affluite su conto corrente bancario e provenienti da stipendi o pensioni, in Giur. It., 2013, 2323; FINOCCHIARO, Necessario assicurare condizioni di vita minime a tutti, in Guida Dir., 2015, 27, 65), persegue un analogo scopo di bilanciamento tra l'interesse del creditore e quello del debitore a preservare dall'azione esecutiva un minimo del trattamento pensionistico necessario alle sue esigenze di vita. La norma prevede, infatti, un regime "misto" per le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza: assoluto fino alla concorrenza della misura massima mensile dell'assegno sociale, aumentato della metà; e relativo, secondo la disciplina prevista dai commi 3, 4 e 5, per la parte eccedente tale ammontare. Con riguardo a tali trattamenti, la giurisprudenza di legittimità civile ha affermato che la impignorabilità parziale è posta a tutela dell'interesse di natura pubblicistica consistente nel garantire al pensionato i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita (art. 38 Cost.). Ne consegue che il pignoramento della pensione eseguito oltre i limiti consentiti è radicalmente nullo per violazione di norme imperative e la nullità è rilevabile d'ufficio senza necessità di un'eccezione o di un'opposizione da parte del debitore esecutato (Cass. civ., Sez. III, 22 marzo 2011, n. 6548).

Quanto ai rapporti dei limiti di pignorabilità già indicati con la confisca "per equivalente" ed il sequestro ad essa mirato, un primo orientamento (Cass. Pen., sez. VI, 16 aprile 2008, n. 25168) sostiene l'applicabilità tout court, al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, dei limiti predetti sulla base, fondamentalmente, della natura dell'art. 545 c.p.c. quale regola di carattere generale espressione dei diritti inalienabili della persona consacrati, in particolare, negli artt. 2 e 38 Cost., appartenendo a tale categoria gli emolumenti retributivi o pensionistici e gli assegni di carattere alimentare nella misura impignorabile prevista dalla norma. Si è sottolineata, in particolare, la necessità di una lettura costituzionalmente orientata delle norme in materia di sequestro preventivo finalizzate alla confisca volta ad assicurare l'operatività, anche in tali casi, dei medesimi limiti di sequestrabilità e pignorabilità di cui all'art. 545 cit., sebbene (a differenza dell'art.316 cod. proc. pen. in tema di sequestro conservativo) non richiamati espressamente, in quanto idonei a garantire al lavoratore un minimo vitale per le sue esigenze primarie (Cass. Pen., sez. III, 7 dicembre 2018, n. 17386; Cass. Pen., sez. III, 14 marzo 2019, n. 14606; Cass. Pen., sez. III, 8 gennaio 2020, n. 8822). Si è dunque escluso che la confusione delle somme, corrisposte a titolo di emolumenti retributivi o pensionistici, con il restante patrimonio immobiliare possa avere una valenza ostativa all'applicazione dei limiti, a condizione, però, che risulti attestata la causale dei versamenti, ovvero, in altri termini, sia certo che tali somme sono riconducibili ad emolumenti corrisposti nell'ambito del rapporto di lavoro o d'impiego.

Un secondo indirizzo, decisamente minoritario visto che si trova espresso in una sola pronuncia (Cass. Pen., sez. II, 2 ottobre 2019, n. 10655) afferma l'inapplicabilità dei limiti previsti dagli artt. 545 e 546 cod. proc. civ. La sentenza ha valorizzato, in primo luogo, la stretta attinenza delle norme processualcivilistiche in oggetto ai rapporti tra privati, sì che le stesse costituirebbero, a fronte dell'esigenza di considerare il contemperamento tra l'interesse del creditore e quello del debitore, una eccezione al principio generale della responsabilità patrimoniale. Le disposizioni riguardanti la confisca o il sequestro per equivalente, troverebbero, invece, fondamento nell'interesse pubblicistico volto a sanzionare una condotta illecita. La stessa sentenza peraltro individua, comunque, la possibilità del ricorso ad una forma di tutela per le situazioni di "privazione eccessiva" determinate dal sequestro penale da affidare, tuttavia, non alle norme processualcivilistiche ricordate, ma alla valutazione del caso concreto e di specifiche allegazioni difensive, sottolineando poi la rilevanza delle sole situazioni critiche di sussistenza, quale criterio selettivo analogo a quello contemplato dal considerando 18 della Direttiva sopra citata.

Infine, un terzo orientamento differenzia l'esito sulla base del criterio temporale della anteriorità o meno della corresponsione delle somme qualificate rispetto al momento di adozione del sequestro. Poiché, infatti, i limiti di pignorabilità di cui all'art. 545 c.p.c. attengono solo ai crediti vantati nei confronti del datore di lavoro, si è ritenuto legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente delle intere somme percepite dal lavoratore a titolo di credito di lavoro o di pensione solo allorché queste siano già confluite nella sua disponibilità e siano ormai confuse con il patrimonio mobiliare dello stesso, diversamente dovendo prevalere i limiti predetti per essere ancora le somme riconducibili alla nozione di crediti lavorativi.

La dottrina è in assoluta prevalenza nel senso di riconoscere l'applicabilità dell'art. 545 c.p.c. anche in sede penale (ALESCI, L'impignorabilità del bene tra procedimento penale ed esecuzione civile: le linee guida delle Sezioni Unite, in Proc. Pen. Giust., 2017, 1, 83; PEDACE, Fondi pensione e sequestro preventivo finalizzato alla confisca, in Dir. Pen. Proc., 2021, 357; MORANDI, Sull'applicabilità dei limiti ex art. 545 c.p.c. in sede penale, in Riv. Crit. Lavoro, 2011, 467).

Le soluzioni giuridiche

La questione relativa all'operatività dell'art. 545 c.p.c. è stata definita riconoscendo la rilevanza di tale previsione anche nell'ambito del procedimento penale.

L'orientamento che differenzia l'esito sulla base del criterio temporale della anteriorità o meno della corresponsione delle somme qualificate rispetto al momento di adozione del sequestro viene ritenuto non pertinente rispetto alla questione sollevata posto che i postulati da cui muove detto orientamento riguardano un piano diverso rispetto a quello comune ai due indirizzi contrapposti: mentre questi ultimi si riferiscono al profilo della applicabilità dei limiti processualcivilistici al sequestro penale, l'impostazione in parola fa riferimento alle modalità con cui opera l'art. 545 c.p.p. – prendendo in esame, peraltro, un profilo specificatamente disciplinato dal comma 8 dell'art. 545 c.p.c. specificamente dedicato proprio alle somme accreditate su conto corrente bancario o postale intestato al lavoratore e che prevede un regime di parziale impignorabilità, differenziato proprio in base al momento dell'accredito (se anteriore al pignoramento, dette somme possono essere pignorate solo per l'importo eccedente il triplo della pensione sociale; se, invece, l'accredito avvenga alla data del pignoramento o in data successiva, dette somme possono essere pignorate entro i limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e settimo comma, sopra esaminati, nonché dalle speciali disposizioni di legge).

Ferma dunque la rilevanza temporale del momento di accreditamento delle somme sul conto corrente secondo la previsione di cui al citato comma 8^ dell'art. 545 c.p.c., quest'ultima disposizione deve trovare applicazione anche nel processo penale considerando in primo luogo come tale normativa sia di diretta discendenza da principi di ordine costituzionale, in virtù della riconducibilità degli emolumenti retributivi sottesi ad un rapporto di lavoro pubblico e degli assegni di carattere alimentare a detto rapporto collegati nell'area dei diritti inalienabili della persona, tutelati appunto dall'art. 2 Cost.; di qui l'ulteriore affermazione secondo cui i valori costituzionalmente garantiti della dignità della persona, della solidarietà sociale ed economica, e del diritto del lavoratore ai mezzi indispensabili ad assicurare a sé stesso e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa, a presidio dei quali è posto il divieto di pignoramento dei crediti indicati dall'art. 545 cod. proc. cív., sono inviolabili e non possono essere pregiudicati nemmeno dalla possibilità della loro confisca in sede penale.

Si tratta di affermazioni presenti tanto nella giurisprudenza civile (Cass. Civ., sez. III, 22 marzo 2011, n. 6548) che nella giurisprudenza costituzionale, che ha rinvenuto l'elemento di equilibrio tra esigenze di tutela delle pretese dei creditori ed esigenze di salvaguardia delle posizioni retributive e pensionistiche non nella sottrazione alle pretese dei primi dell'intera somma spettante, ma solo di quella parte necessaria ad assicurare mezzi adeguati alle esigenze di vita dei pensionati, in conformità, appunto, al precetto dell'art. 38, comma 2, Cost.. Inoltre, l'esigenza di un bilanciamento tra la finalità di pubblico interesse perseguita con il provvedimento di sequestro o di confisca per equivalente e l'interesse del privato connesso ai citati valori costituzionalmente rilevanti, tale da consentire che nessuna delle due componenti prevalga sull'altra sì da renderla del tutto recessiva, trovi una legittimazione sia nella giurisprudenza della Corte EDU (si vedano le pronunce della Corte EDU, 13 maggio 2014, Paulet c. Regno Unito e 5 marzo 2019, Uzan e altri c. Turchia) sia nelle fonti sovranazionali (cfr. art. 52 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea in ordine alla necessità che, nel rispetto del principio di proporzionalità, possano essere apportate limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta. ivi inclusi, oltre il diritto di proprietà, il diritto alla sicurezza e all'assistenza sociale a norma dell'art. 34, solo laddove necessarie e rispondenti all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. Si vedano anche i considerando nn. 17, 18 e 41, sempre relativi alla necessità di proporzionalità della misura e alla esigenza di evitare una privazione eccessiva per l'interessato, della Direttiva 2014/42/UE in tema di riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca).

In secondo luogo, la decisione in esame evidenza la rilevanza che ha assunto nell'ambito della disciplina in tema di sequestro il principio di proporzionalità, adeguatezza e gradualità in ossequi al quale si ritiene che il giudice debba dare adeguatamente conto della impossibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso una cautela alternativa meno invasiva, al fine di evitare un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata (da ultimo, con riferimento al sequestro preventivo a fini di confisca, ai sensi degli artt. 19, 25 e 53 del d.lgs. n. 231 del 2001, Cass. Pen., sez. VI, 11 gennaio 2022, n.13936 nonché Cass. Pen., sez. V, 22 marzo 2021, n. 17586), senza che possa ritenersi che il canone di proporzionalità esaurisca il suo rilievo nel mero divieto di attingere beni di valore superiore al profitto confiscabile stimato

Infine, anche l'argomento, prospettato dalla tesi che intende escludere l'operatività dell'art. 545 c.p.c. in sede penale, che sottolinea il valore "pubblicistico" degli interessi tutelati dalle norme penali, non appare conciliabile con quanto prevede, al quarto comma, lo stesso art. 545 c.p.c. che contempla il limite di pignorabilità nella misura di un quinto con riferimento ai "tributi dovuti allo Stato, alle province e ai comuni", quali crediti certo non assimilabili a rapporti di carattere privatistico ma aventi, invece, indubbia valenza di carattere pubblico. In un tale contesto, perciò, non può condurre a diverse conclusioni il mero mancato richiamo, nella disposizione dell'art. 321 c.p.p., ai "limiti" entro i quali la legge consente il pignoramento dei beni, testualmente presente, invece, nel comma 1 dell'art. 316 c.p.p. in tema di sequestro conservativo e valorizzato ai fini della propugnata impermeabilità del sequestro preventivo per equivalente alle disposizioni dell'art. 545 c.p.c., ciò tanto più in quanto un tale mancato richiamo appare invece del tutto spiegabile ove si abbia riguardo all'art. 104 disp. att. c.p.p. che, nel regolare l'esecuzione del sequestro preventivo, dispone che la stessa abbia luogo con riferimento ai beni mobili e ai crediti, nelle "forme prescritte dal codice di procedura civile per il pignoramento presso il debitore o presso il terzo in quanto applicabili". Infatti, tra le forme che vanno seguite in proposito rientrano, quanto al pignoramento presso terzi, anche quelle prescritte dall'art. 546 c.p.c. che, con riguardo agli obblighi del terzo pignorato, operano un testuale riferimento proprio alla necessaria osservanza dei "limiti previsti dall'articolo 545 e dalle speciali disposizioni di legge": di qui, dunque, per effetto del combinato disposto rappresentato dalla sequenza degli artt. 104 disp. att. cod. proc. pen., 546 cod. proc. civ. e 545 cod. proc. civ., la superfluità, all'interno dell'art.321 c.p.p., di un richiamo analogo a quello contenuto nell'art. 316 citato; nulla osta, dunque, a far rientrare, nella nozione di "ogni altro credito" (art. 545 cod. proc. civ.) pignorabile nella misura di un quinto - contemplata dalla norma quale clausola di chiusura - anche i crediti dello Stato derivanti dal "recupero" del profitto conseguente a violazione della legge penale ed esercitati tramite la confisca per equivalente e la misura del sequestro preventivo ad essa preordinata.

La decisione, poi, si conclude esaminando due ultimi aspetti. In primo luogo, viene ribadito che proprio la stretta correlazione tra natura dei crediti tutelati e limiti di pignorabilità stabiliti per legge comporta, evidentemente, quale necessario presupposto dell'applicabilità degli stessi anche nel campo cautelare penale, che risulti attestata la causale dei versamenti e che gli importi da sequestrare siano imputabili con certezza a detti titoli (Cass. Pen., sez. VI, 13 marzo 2019, n. 13422) e ciò si riflette anche sul piano degli oneri di allegazione e probatori incombenti sul soggetto interessato per cui, la mancata emersione della natura qualificata dei crediti oggetto del sequestro implica la inoperatività delle norme processualcivilistiche.

In secondo luogo, le Sezioni Unite penali esaminato il profilo inerente alla non assimilabilità ai crediti da lavoro o pensionistici degli emolumenti derivanti da incarico di amministratore di persone giuridiche, come sostenuto oltre che dalle Sezioni Unite civili, anche da Cass. Pen., sez. III, 18 gennaio 2021, n. 14250. I limiti di pignorabilità previsti dall'art. 545 cod. proc. civ. dunque non si applicano agli emolumenti percepiti dall'amministratore di una società di capitali in quanto questo soggetto e la società sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non può essere compreso in quelli previsti dal n. 3 dell'art. 409 cod. proc. civ., sicché i compensi ad essi spettanti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili appunto senza i limiti previsti dall'art. 545, comma 4, c.p.c.. Tale conclusione non presenta profili di illegittimità costituzionale giacché proprio la diversa natura dei crediti da rapporto di lavoro rispetto ai crediti discendenti da rapporto organico tra persona fisica ed ente appare giustificare il diverso trattamento (Corte cost., sentenza n. 248 del 2015, secondo cui la scelta del criterio di limitazione della pignorabilità e l'entità di detta limitazione rientrano nel potere costituzionalmente insindacabile del legislatore).

Osservazioni

La sentenza della Cassazione delle Sezioni Unite era assai attesa, posto che il tema della rilevanza in sede penale dei limiti di pignorabilità previsti dal codice di procedura civile è ormai assai rilevante, in ragione della circostanza che ormai nel nostro sistema penale la misura della confisca ha assunto una significativa centralità in chiave sanzionatoria, essendo tale istituto previsto in relazione ad una numerosissima serie di delitti (dai reati tributari ai delitti contro la pubblica amministrazione, dai reati societari alle diverse ipotesi di riciclaggio ecc.).

A commento della stessa vanno formulate due considerazioni.

In primo luogo, pur essendo condivisibile la conclusione cui giunge la decisione in parola, alla luce dell'attenzione che la stessa dedica ai diritti fondamentali del soggetto attinto dal provvedimento ablatorio, ci pare che la pronuncia contribuisca ad aumentare la confusione che circonda la natura e la ratio della confisca. La decisione in rassegna, infatti, presuppone che nel nostro ordinamento penale la confisca (ed in particolare quella prevista dal d.lgs. n. 74 del 2000 per i delitti tributari) sia finalizzata a garantire l'adempimento del debito gravante in capo all'imputato in ragione del delitto dallo stesso commesso (nel caso di delitti fiscali si tratta evidentemente del debito riconnesso al mancato pagamento dell'imposta) ed alla luce di ciò si ritiene che debba ritenersi operante anche in sede penale la previsione di cui all'art. 545 c.p.c. che realizza un adeguato equilibrio fra interesse del creditore ed esigenze ineludibili del debitore. Tuttavia, a partire dalla decisione della Corte costituzionale n. 97 del 2000 (relativa, peraltro, alla confisca “fiscale”) a tale misura si riconosce in maniera inequivocabile natura sanzionatoria, con il che giustificare l'operatività dell'art. 545 citato in considerazione di un rapporto di debito - credito è palesemente incongruo.

In secondo luogo, la decisione in rassegna risolve solo parzialmente le problematiche conseguenti ai rapporti fra disciplina in tema di impignorabilità di determinati beni e valori prevista in ambito civilistico e la disciplina penalistica in tema di confisca e sequestro preventivo. In particolare, rimane tuttora discussa la questione relativa alla sorte da riservare, in sede penale alla cd. “prima casa” del contribuente infedele condannato o indagato per illeciti fiscali. In proposito, l'art. 76, comma 1, D.P.R. n. 602 del 1973, in tema di riscossione delle imposte, prevede che “l'agente della riscossione: a) non dà corso all'espropriazione se l'unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso …., è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente; b) nei casi diversi da quello di cui alla lettera a), può procedere all'espropriazione immobiliare se l'importo complessivo del credito per cui procede supera centoventimila euro. L'espropriazione può' essere avviata se è stata iscritta l'ipoteca di cui all'articolo 77 e sono decorsi almeno sei mesi dall'iscrizione senza che il debito sia stato estinto".

Diverse pronunce hanno ritenuto che tale disposizione segni un principio di impignorabilità assoluta della cd. prima casa del soggetto debitore verso l'erario (Cass., sez. III, 5 luglio 2016, n. 3011; Cass., sez. III, 15 gennaio 2018, n. 22581),sostenendo che il principio deve valere – al pari di quanto si è ritenuto con riferimento al sequestro preventivo ed ai pignoramenti della retribuzione del debitore – anche nel processo penale, nel cui ambito altrimenti verrebbe aggirata la disposizione posta a tutela del diritto costituzionale di abitazione. A tale conclusione la Cassazione è pervenuta evidenziando come la prevista non confiscabilità della prima casa risponda alla medesima ratio che ammette il pignoramento del solo quinto delle retribuzioni spettanti al debitore sicché, come si ritiene che «in tema di sequestro preventivo funzionale alla successiva confisca per equivalente ex art. 322-ter cod. pen., deve riconoscersi valore di regola generale dell'ordinamento processuale al divieto di sequestro e pignoramento di trattamenti retributivi, pensionistici ed assistenziali in misura eccedente un quinto del loro importo al netto delle ritenute, stante la riconducibilità dei predetti trattamenti - nella residua misura dei quattro quinti del loro importo netto - nell'area dei diritti inalienabili della persona, tutelati dall'art. 2 della Costituzione» (Cass., sez. II, 16 aprile 2015, n. 15795), non vi è ragione per non pervenire ad analoga conclusione anche con riferimento alla confisca della prima casa.

Altre decisioni, invece, hanno sostenuto che il principio della impignorabilità è riferibile esclusivamente all'azione di riscossione coattiva dell'Amministrazione finanziaria, non operando di contro in ambito penalistico, essendo quindi possibile per l'autorità giudiziaria disporre, prima il sequestro e poi la confisca per equivalente, dell'abitazione dell'indagato (Cass., sez. III, 11 marzo 2020, n. 8995; Cass., sez. III, 23 maggio 2019, n. 22581). A tale conclusione si perviene innanzitutto evidenziando come il limite posto dal legislatore all'espropriazione immobiliare non riguarda la "prima casa", ma "l'unico immobile di proprietà del debitore" e “si tratta di un concetto evidentemente diverso da quello di "prima casa", perché ha a che vedere con la consistenza complessiva del patrimonio del debitore e non semplicemente con la qualificazione del singolo immobile oggetto di pignoramento”. La distinzione ha significativa importanza sul piano pratico giacché impone a quanti vogliono contestare la confisca o il sequestro di un proprio immobile alla luce della disciplina in tema di espropriazione immobiliare di dimostrare di non essere proprietario di altri immobili rispetto a quello oggetto del provvedimento ablatorio. In secondo luogo, con argomentazione relativa ai soli reati fiscali, si evidenzia come si debba distinguere fra il profitto del reato (che deve essere oggetto della confisca) e debito verso il fisco, il primo consistente solo nell'importo corrispondente all'importo dell'imposta evasa, il secondo invece ricomprendente, oltre all'imposta evasa, anche gli interessi e le sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito: ciò significa che quando, in ambito penale, viene sequestrato l'immobile del contribuente infedele (sia o meno l'unico di cui lo stesso dispone) non si agisce per andare a satisfare le ragioni creditorie del Fisco (tant'è che non vengono considerati, nel debito del privato, interessi e le sanzioni dovute all'erario), ma si agisce solo per privare il responsabile dell'illecito del profitto ottenuto con la commissione del reato.

C'è da sperare, dunque, che anche su tale aspetto intervengano le Sezioni Unite a fare chiarezza, magari evitando di richiamare considerazioni inerenti alla natura del rapporto debitori non molto pertinenti rispetto al caso di specie.

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