Beneficiario effettivo e treaty shopping

17 Novembre 2022

Il treaty shopping implica lo sfruttamento delle differenze nei trattati stipulati fra le varie nazioni, mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo (conduit) nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo. Può dunque fruire dei vantaggi garantiti dai trattati soltanto il «beneficiario effettivo», ossia il soggetto sottoposto alla giurisdizione dell'altro Stato contraente, che abbia l'effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefici convenzionali, o addirittura un fenomeno di non imposizione.
Massima

La prassi internazional-tributaria ha elaborato la nozione di beneficiario effettivo per contrastare quelle pratiche volte a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale ed impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping. Il treaty shopping implica lo sfruttamento delle differenze nei trattati stipulati fra le varie nazioni, mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo.

Può fruire dei vantaggi garantiti dai trattati soltanto il beneficiario effettivo, ossia il soggetto che abbia l'effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32911 del 08/11/2022, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di concetto di beneficiario effettivo, con particolare riferimento all'applicazione dei patti convenzionali internazionali.

Nel caso di specie, una società estera ricorreva avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, che ne aveva rigettato l'appello avverso la pronuncia di primo grado, che, a sua volta, ne aveva rigettato il ricorso avverso il silenzio–rifiuto formatosi su istanza di rimborso.

La società, con sede nei Paesi Bassi, avendo concesso un prestito ad una sua controllata italiana al 100 per cento, chiedeva all'Ufficio il rimborso delle ritenute alla fonte, eseguite dalla stessa controllata sugli interessi corrisposti dall'11 luglio 2011 al 24 febbraio 2012.

Formatosi il silenzio rifiuto sull'istanza, la società proponeva ricorso, che, come detto, la Commissione Tributaria Provinciale rigettava, con sentenza poi confermata anche in appello.

La Commissione Tributaria Regionale riteneva, in particolare, che la contribuente non avesse provato di essere la effettiva beneficiaria degli interessi passivi corrisposti dalla società controllata e che, a fronte delle specifiche affermazioni fatte dal giudice di primo grado, secondo cui doveva ritenersi una «società c.d. conduit», non avesse fornito prova contraria idonea.

La questione

Con un primo motivo di impugnazione la ricorrente denunciava quindi la violazione e falsa applicazione dell'artt. 26-quater del d.P.R. 29 settembre 1973 e dell'art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, censurando la sentenza nella parte in cui aveva ritenuto che fosse onere del contribuente provare la sussistenza dei requisiti di cui all'art. 26-quater, cit.

La società ricorrente assumeva che la norma invocata imponeva al contribuente l'esclusivo onere di presentare l'istanza di rimborso, corredata della dichiarazione e dell'attestazione ivi prevista e che spettava poi all'Ufficio, ove intendesse contestarla, disporre un supplemento di istruttoria, in assenza del quale si perfezionava il diritto al rimborso.

Con un secondo motivo di ricorso la società denunciava inoltre la violazione dell'art. 11, paragrafo 2, Convenzione Italia-Paesi Bassi, ratificata dalla legge 26 luglio 1993, n. 53, muovendo due diverse censure.

Con la prima, criticava nuovamente la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto che non avesse provato di essere la beneficiaria effettiva degli interessi corrisposti dalla società controllata, sebbene dovessero ritenersi sufficienti la dichiarazione e l'attestazione rilasciate ai sensi dell'art. 36-quater cit., essendosi così esaurito l'iter della domanda di rimborso e cristallizzato il thema decidendum della successiva fase contenziosa.

Con la seconda censura, subordinata, la ricorrente criticava poi la sentenza nella parte in cui aveva comunque ritenuto che non fosse stata provata la condizione di beneficiario effettivo degli interessi corrisposti dalla società controllata – ovvero che non avesse natura di «ente conduit» – essendo invece un istituto finanziario il vero beneficiario.

La soluzione giuridica

Secondo la Suprema Corte, il primo motivo di impugnazione e la prima censura di cui al secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente in quanto connessi, erano infondati.

Secondo la società contribuente, come visto, l'istanza di rimborso – una volta ritenuta completa – sarebbe stata «autosufficiente», potendo quindi il giudizio vertere solo sulla completezza della stessa.

Assumeva a tal proposito che, depositata l'istanza, debitamente compilata, spettava quindi all'Ufficio chiedere chiarimenti all'Amministrazione del paese estero; e che, in mancanza di tale supplemento di istruttoria, si perfezionava “tout court” il diritto ad impugnare il silenzio-rifiuto ed il dovere del giudice adito di pronunciarsi sulla mera correttezza e completezza dell'istanza.

Aggiungeva, infine, la società che la Commissione Tributaria Regionale era così incorsa in evidente extra petitum, ponendo indebitamente a carico del contribuente l'onere probatorio di produrre ulteriore documentazione.

Tanto premesso, i giudici di legittimità evidenziano che l'art. 38, comma 6, del d.P.R. n. 602/1973 prevede che i rimborsi delle imposte non dovute, ai sensi dell'art. 26-quater del d.P.R. n. 600/1973, sono effettuati entro un anno dalla presentazione della richiesta, la quale deve essere corredata dalla documentazione ivi prevista, o dalla successiva acquisizione degli elementi informativi eventualmente richiesti.

Come già rilevato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, l'art. 38 cit. non prevede, tuttavia, che, in assenza di accertamenti, si consolidi il diritto del contribuente (cfr. Cass. 23/05/2019, n. 14044; Cass. 17/06/2016, n. 12557).

E tale soluzione è conforme a quanto affermato anche dalle Sezioni Unite, secondo cui, in tema di rimborso d'imposte, l'Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum (cfr., Cass., Sez. U, 15/03/2016, n. 5069).

È stato del resto anche chiarito che, diversamente da quanto ritenuto dalla ricorrente, in via generale, nel processo tributario, ove il contribuente impugni il silenzio rifiuto formatosi su un'istanza di rimborso, deve essere lui (parte attrice sostanziale) a dimostrare che, in punto di fatto, non sussiste nessuna delle ipotesi che legittimano il rifiuto.

L'Amministrazione finanziaria può, dal canto suo, difendersi «a tutto campo», non essendo vincolata ad una specifica motivazione di rigetto (cfr., Cass. 06/12/2018, n. 31626).

La seconda censura, di cui al secondo motivo, era invece inammissibile, in quanto non coglieva la ratio decidendi della sentenza impugnata.

La ricorrente criticava infatti la sentenza nella parte in cui si faceva dipendere il diniego alle richieste di cui all'istanza in ragione della mancata dimostrazione di essere la beneficiaria effettiva degli interessi corrisposti, e, quindi, di avere natura di ente conduit (essendo altro soggetto il vero beneficiario degli interessi), e si opponeva alla nozione di beneficiario effettivo elaborata dalla giurisprudenza, da intendersi in senso sostanziale, con esclusione, quindi, dei meri intermediari, ovvero di coloro che solo apparentemente sono i destinatari del pagamento, ma che, in realtà, si frappongono tra il pagatore e il percipiente.

Rilevava peraltro la società che, nel caso di specie, non ci sarebbe stato alcun vantaggio fiscale, in quanto l'intermediazione della controllante si era resa necessaria per accedere al mercato bancario.

Evidenzia tuttavia la Cassazione che, nella specie, la Commissione Tributaria Regionale aveva ben delineato la nozione di beneficiario effettivo, ripudiandone, correttamente, una nozione meramente formalistica.

Così facendo, i giudici di merito avevano fatto corretta applicazione dei principi affermati anche dalla Cassazione, che più volte ha delineato le caratteristiche del beneficiario effettivo, in relazione a dividendi, interessi e canoni, evidenziando che la prassi internazional-tributaria ha elaborato tale nozione per contrastare quelle pratiche volte proprio a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale ed impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche (illecite) di treaty shopping, con lo scopo di riconoscere la protezione convenzionale a contribuenti che, altrimenti, non ne avrebbero avuto diritto, o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole.

Il treaty shopping, conclude la Corte, implica dunque lo sfruttamento delle differenze nei trattati stipulati fra le varie nazioni, mediante la frapposizione di un soggetto residente in uno Stato terzo (conduit) nel flusso reddituale tra lo Stato della fonte e quello del beneficiario effettivo.

Può dunque fruire dei vantaggi garantiti dai trattati soltanto il «beneficiario effettivo», ossia il soggetto sottoposto alla giurisdizione dell'altro Stato contraente, che abbia l'effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito, realizzandosi altrimenti una traslazione impropria dei benefici convenzionali, o addirittura un fenomeno di non imposizione (cfr., Cass. 30/09/2019, n. 24287).

La società conduit, in sostanza, è un soggetto che si frappone nei rapporti tra erogante e beneficiario finale, come soggetto percipiente solo formalmente, laddove, invece, il beneficiario effettivo ha (rectius: deve avere) sia la titolarità che la disponibilità del reddito percepito e non è tenuto ad alcun trasferimento dello stesso a terzi (cfr., Cass. 10/07/2020, n. 14756).

Nel caso in esame, conclude la Corte, in linea con quanto già affermato dai giudici di secondo grado, era dunque onere della società contribuente provare in giudizio il “trattenimento ed autonomo impiego” degli interessi percepiti.

In mancanza di tale prova, difettava pertanto la dimostrazione di esserne la (effettiva) beneficiaria, essendo l'autodichiarazione resa del tutto insufficiente ai fini probatori e non essendo condivisibile l'assunto secondo cui il contenuto degli accordi sottesi all'operazione finanziaria, anche perché stipulati per atto pubblico, fosse di per sé sufficiente ad escludere la qualità di mero soggetto interposto, dato che nulla poteva desumersi da detti accordi e considerato che, comunque, la forma di atto pubblico era del tutto irrilevante.

Tali corrette e ben motivate argomentazioni, secondo la Cassazione, non erano state contestate dalla ricorrente, la cui censura mirava quindi, in realtà, ad una rivalutazione del ragionamento decisorio che aveva portato il giudice del merito a ritenere che la società contribuente non fosse il beneficiario effettivo degli interessi passivi corrisposti dalla società controllata.

Ma, così facendo, la ricorrente, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mirava ad una inammissibile rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito (cfr., Cass. 04/07/2017, n. 8758).

Il motivo, infatti, per come formulato richiedeva, non l'analisi e l'applicazione delle norme, bensì l'apprezzamento delle prove, rimesso, come noto, alla valutazione del solo giudice di merito (cfr., Cass. 18/05/2022, n. 17744; Cass. 05/02 2019, n. 3340; Cass. 14/01/2019, n. 640; Cass.13/10/2017, n. 24155; Cass. 04/04/2013, n. 8315).

Osservazioni

La prassi internazional-tributaria, come visto, ha elaborato il concetto di "beneficiario effettivo" al fine di contrastare quelle pratiche volte a trarre profitto dalla autolimitazione della potestà impositiva statale (cfr., Cass., n. 24291 del 30/09/2019).

In particolare, in ambito OCSE, il concetto di "beneficiario effettivo" è comparso per la prima volta nel modello di Convenzione del 1977, negli artt. 10 e 11 (rispettivamente dedicati al regime di tassazione di dividendi ed interessi) e la prassi statuale si è quindi conformata a tale orientamento, adottando la clausola del beneficiario effettivo nei vari trattati poi sottoscritti.

Tale clausola generale dell'ordinamento fiscale internazionale è volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping.

La clausola dell'effettivo beneficiario si trova del resto in tutte le convenzioni più recenti e relative a Paesi di più intenso scambio con l'Italia.

E, d'altro canto, risponde alle finalità delle Convenzioni internazionali sia impedire che si avvantaggi del regime convenzionale un mero intermediario e sia consentire la fruizione dei benefici convenzionali da parte dell'effettivo titolare dei diritti, che sia residente nello Stato contraente, con la conseguenza, ad esempio, che il beneficiario effettivo dei dividendi, residente in uno Stato con il quale lo Stato della fonte abbia stipulato una Convenzione contro la doppia imposizione, può chiedere l'applicazione dei benefici convenzionali, anche se abbia percepito i dividendi stessi per il tramite di un soggetto interposto, al quale, in base al medesimo principio, tali benefici non possono invece essere riconosciuti.

Sempre sul tema, si evidenzia che il 26 febbraio 2019 sono state pubblicate le sentenze della Corte di Giustizia comunitaria sui c.d. “casi danesi”, concernenti fattispecie di abuso del diritto in tema di applicazione delle esenzioni previste dalla Direttiva “Madre-Figlia” (cause riunite C-116/16 e C-117/16) e dalla Direttiva “Interessi-Royalties” (cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16).

Tali sentenze, per quanto qui di interesse, segnano un ampliamento del concetto di abuso del diritto, in particolare sotto il profilo del concetto di “beneficiario effettivo”.

Nel ricordare il contesto normativo di riferimento, nelle sentenze citate, si richiama quanto indicato nel modello di convenzione fiscale dell'OCSE per evitare le doppie imposizioni, il quale appunta anche l'attenzione sulla possibilità di un uso illecito delle convenzioni stesse, ai fini di evasione fiscale, grazie a costruzioni giuridiche artificiose, sottolineando l'importanza della nozione di «beneficiario effettivo».

In occasione della revisione dei commentari avvenuta nel 2003, questi ultimi sono stati del resto integrati da osservazioni relative alle c.d. «società relais» (società interposte), vale a dire società che, sebbene formalmente titolari di redditi, dispongono nella pratica soltanto di poteri del tutto limitati, risultando essere semplici fiduciarie, o semplici amministratori agenti per conto delle parti interessate, di modo che esse non devono e non possono essere considerate quali beneficiari effettivi di tali redditi.

E il punto 12 dei commentari relativi all'articolo 10, nel testo risultante dalla revisione operata nel 2003, prevede, in particolare, che il termine “beneficiario effettivo” non è utilizzato in un'accezione ristretta e tecnica, bensì dev'essere esteso nel suo contesto alla luce dell'oggetto e dell'obiettivo della Convenzione, segnatamente per evitare le doppie imposizioni, nonché prevenire la frode e l'evasione fiscale.

In occasione poi di un'ulteriore revisione dei commentari, avvenuta nel 2014, sono state apportate altre precisazioni in ordine alle nozioni di «beneficiario effettivo» e di «società relais», laddove, al punto 10.3 di detti commentari, si legge che «esistono vari metodi per affrontare il problema delle società relais e, più in generale, i rischi di elusione fiscale, in particolare per mezzo di specifiche disposizioni anti-abuso nelle convenzioni, di regole generale anti-abuso, di regole volte a far prevalere la sostanza sulla forma, nonché delle regole di “sostanza economica”».

In conclusione, come conferma anche la sentenza in commento, il requisito del beneficiario effettivo deve essere sempre verificato in chiave sostanziale e non solo formale, essendo tale quel soggetto che beneficia economicamente degli interessi percepiti e che ha il potere di disporne liberamente la destinazione.

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