Responsabilità solidale dell'amministratore in mala fede per il mancato versamento dell'IVA della società

Gabriele Damascelli
05 Gennaio 2023

La Corte UE è stata chiamata a risolvere un delicato problema di giurisdizione teso a verificare l'estendibilità del perimetro di applicazione dell'IVA anche ad una persona che (amministratore di società) non riveste in alcun modo la qualità di soggetto passivo dell'IVA ai sensi della Direttiva.
Massima

Con sentenza del 13 ottobre 2022 nella causa C-1/21, la Corte di giustizia UE, nel caso di omesso pagamento del debito iva e relativi interessi (oltre le imposte dirette) da parte di una società bulgara a causa del comportamento del proprio amministratore che aveva aumentato in misura eccessiva il compenso dovutogli da parte della medesima società, così sottraendole valori patrimoniali, ha ritenuto il dipendente, nonostante non fosse un soggetto passivo IVA, solidalmente obbligato al pagamento del debito IVA (più interessi) a causa del suo comportamento in mala fede con cui ha di fatto reso la persona giuridica inadempiente al versamento dei propri debiti fiscali.

Il caso

La vicenda trae origine da un procedimento di recupero forzato di crediti pubblici, da parte del Fisco bulgaro nei confronti di una società, avente ad oggetto anche debiti IVA non corrisposti unitamente ai correlati interessi moratori, al termine del quale si evidenziava il recupero di soli euro 148.115 a fronte di debiti fiscali ancora dovuti dalla suddetta società pari ad euro 1.954.522.

Di fronte all'evidente difficoltà di recupero della debitoria rimanente in capo alla società, l'Amministrazione fiscale decideva di accertare l'amministratore di questa, il quale riferiva che la propria retribuzione, stabilita in un contratto di gestione concluso con la società ed aumentata da euro 1.543 ad euro 10.288, era giustificata dall'incremento degli introiti netti e del fatturato di tale società.

Sulla base della normativa interna bulgara che consentiva di estendere la responsabilità della società (per il mancato pagamento di imposte o contributi previdenziali obbligatori) all'amministratore o ad un membro dell'organo direttivo che avevano agito in malafede, sino alla concorrenza delle prestazioni erogate o della riduzione del patrimonio sociale, veniva emesso un avviso di accertamento con il quale si dichiarava l'amministratore responsabile in solido dei debiti pubblici della società per un importo pari ad euro 23.152 ed aventi ad oggetto l'imposta sulle persone fisiche, i contributi previdenziali nonché l'IVA ed i relativi interessi.

L'oggetto della contestazione all'amministratore si basava sul fatto che quest'ultimo aveva aumentato “a più riprese il proprio compenso senza poter fornire alcuna valida giustificazione di tale aumento” e con modalità, altresì, con conformi ai requisiti di legge, dal momento che i relativi importi erano trasferiti all'avvocato che agiva per conto della società, il quale a sua volta li versava sul conto corrente della moglie dell'amministratore, modalità che dimostravano la sua malafede.

Secondo la norma bulgara richiamata, la responsabilità solidale scattava qualora un amministratore o un membro dell'organo societario avesse, in maniera infedele, erogato prestazioni in natura o in denaro a carico del patrimonio societario, integranti una distribuzione dissimulata di utili o dividendi, o avesse trasferito beni patrimoniali societari a titolo gratuito o a prezzi considerevolmente inferiori a quelli di mercato, con conseguente riduzione del patrimonio e mancato pagamento di imposte.

Il giudice del rinvio, pur riconoscendo che era proprio a causa della riduzione del patrimonio societario (a concorrenza della somma accertata) che l'IVA ed i relativi interessi non erano stati pagati, si interrogava circa la compatibilità del meccanismo normativo interno di responsabilità solidale con il diritto dell'UE ed in particolare con l'art. 273 della Direttiva IVA 2006/112 (d'ora in avanti la Direttiva).

La questione

Si chiedeva, in particolare, se l'art. 9 della Convenzione TIF, in combinato disposto con l'art. 273 della Direttiva ostasse ad una norma interna (art. 19, par. 2, del DOPK) che consentiva di “istituire una responsabilità solidale relativa a un debito IVA in capo a una persona che non è assoggettata all'IVA e non è debitrice di tale imposta, ma “la cui condotta infedele ha determinato il mancato assolvimento di detta imposta da parte della persona giuridica soggetto passivo che ne è debitrice”.

Detto altrimenti, l'Avv. gen. Kokott, nelle proprie conclusioni nella causa in commento (p. 4), si chiedeva se una tale forma di responsabilità solidale legata ad una “condotta pregiudizievole per la società (una sorta di lesione del rapporto fiduciario) ricada nell'ambito di applicazione della direttiva IVA e quindi in quello del diritto dell'Unione per il solo motivo che, per effetto di tale condotta, la società non è stata in grado, inter alia, di pagare tempestivamente oppure per intero i propri debiti IVA e i relativi interessi”.

Il punto nodale, quindi, è la ricerca del limite di giurisdizione della norma UE nel caso di un “collegamento meramente indiretto con la riscossione dell'IVA”.

Ciò posto l'Avv. gen. Kokott, condivisibilmente, osserva come la Corte possa essere competente a pronunciarsi solo se la responsabilità dell'organo sociale, come prevista dalla norma interna, rappresenti diretta attuazione del diritto unionale ovvero diretta trasposizione della Direttiva IVA, dubitando di ciò nella misura in cui la norma interna preveda la solidarietà del debito fiscale prescindendo “sia dal tipo di imposta dovuta sia dalla qualità di soggetto passivo del debitore” e, quindi, indipendentemente dalla Direttiva.

È anche vero, osserva, che un'attuazione del diritto unionale si può ravvisare anche quando la norma interna sanzioni una violazione della Direttiva attuando l'obbligo, imposto dal TFUE (art. 325) agli Stati membri, di sanzionare in modo effettivo i comportamenti lesivi degli interessi finanziari dell'UE.

Così ragionando, la Corte UE ha quindi esaminato se la responsabilità del ricorrente (secondo la norma bulgara), fosse diretta all'adempimento di un obbligo imposto dal diritto unionale, derivante rispettivamente dall'articolo 325 TFUE, o dalla Convenzione TIF, o infine dall'art. 205 o dall'art. 273 della Direttiva.

Come si vedrà, la Corte UE, disattendendo le conclusioni dell'Avv. gen. Kokott nonchè la propria costante giurisprudenza in tema di soggettività passiva IVA di soggetti perone fisiche, ha concluso giustificando il meccanismo di responsabilità solidale per i debiti IVA sulla base dell'art. 273 direttiva.

La soluzione giuridica

Con la domanda di rinvio pregiudiziale, la Corte UE è stata quindi chiamata a risolvere un delicato problema di giurisdizione teso a verificare l'estendibilità del perimetro di applicazione dell'IVA anche ad una persona che (amministratore di società) non riveste in alcun modo la qualità di soggetto passivo dell'IVA ai sensi della Direttiva.

Circa l'applicabilità al caso in oggetto della Convenzione TIF, l'avvocato generale e la Corte “concordano” sulla circostanza che l'oggetto della convenzione riguarda la “lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale”, imponendo agli Stati membri di qualificare come illeciti penali le condotte costituenti frode e prevedendo, al contempo, correlate sanzioni penali “effettive, proporzionate e dissuasive”.

Data tale premessa la Corte, condivisibilmente, ha escluso l'applicabilità della convenzione al caso in oggetto, dal momento che la norma bulgara non qualifica quale illecito penale la condotta dell'organo societario che depaupera il patrimonio della società privandola di onorare i propri debiti fiscali né prevede al riguardo alcuna sanzione penale.

Circa l'eventuale applicabilità dell'art. 325 del TFUE, l'Avv. gen. Kokott osservava, analogamente a quanto espresso dalla Corte circa la Convenzione TIF, che la norma interna bulgara non era certo finalizzata a combattere attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'UE, quanto piuttosto a sanzionare un fenomeno di “indebita riduzione del patrimonio di una società”, la quale, semplicemente, non è più in grado di onorare i propri debiti con l'Erario.

Osservava al riguardo che il comportamento infedele dell'organo societario (attribuzione a sé stesso di un compenso eccessivo a carico del patrimonio della società) non qualificava alcuna attività illegale e non ledeva direttamente gli interessi finanziari dell'UE, tutt'al più poteva incidere sul mancato pagamento delle imposte solo indirettamente.

In tal modo la norma interna non sanzionava una frode unionale, “bensì una condotta infedele a danno della società (eventualmente una sorta di lesione del rapporto fiduciario)”, che non poteva rappresentare in alcun modo una diretta applicazione dell'art. 325 TFUE.

Quanto poi all'art. 205 della Direttiva, tale norma consente agli Stati membri, nelle situazioni di cui agli articoli da 193 a 200 e da 202 a 204 di tale Direttiva, che determinano i soggetti debitori dell'imposta ai sensi del titolo XI, capo 1, sezione 1 intitolato “Debitori dell'imposta verso l'Erario”, di prevedere che una persona diversa dal debitore dell'imposta sia tenuta in solido al pagamento dell'IVA.

Ciò posto, la Corte UE ricorda che (v. C‑4/20, ALTI, p. 28, C‑499/13, Macikowski, C‑499/10, Vlaamse Oliemaatschappij, p. 19 e segg., C‑384/04, Federation of Technological Industries e a., p. 25 e segg.) l'obbligazione sussidiaria (v. conclusioni Avv. gen. Kokott in C-4/20, p. 29) individuata dall'art. 205 mira a “garantire che l'Erario riscuota efficacemente l'IVA dalla persona più adatta alla luce della situazione in questione, in particolare quando le parti contrattuali non sono situate nello stesso Stato membro o quando l'operazione soggetta all'IVA riguarda operazioni la cui specificità rende necessaria l'identificazione di una persona diversa da quella di cui all'articolo 193 della direttiva”.

Mentre tale norma mira ad individuare la persona debitrice dell'IVA su una determinata operazione imponibile, al contrario il meccanismo di solidarietà della norma bulgara non solo fa emergere la responsabilità del soggetto “terzo” di tutto o di parte dei debiti IVA di una persona giuridica, “indipendentemente dalle operazioni imponibili di cui trattasi”, ma “limita” inoltre la debitoria IVA esclusivamenteall'importo della riduzione del patrimonio subito dalla persona giuridica a causa degli atti in malafede compiuti dalla persona designata come responsabile in solido”.

Per tali ragioni non è possibile ritenere applicabile neanche l'art. 205 della Direttiva.

Quanto infine all'art. 273 della medesima Direttiva, il quale dispone che “gli Stati membri possono stabilire altri obblighi che essi ritengano necessari ad assicurare l'esatta riscossione dell'IVA e ad evitare le evasioni”, la Corte lo ritiene applicabile sulla base del sillogismo per cui posto che l'art. 325, par. 1, TFUE, impone agli Stati membri di combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'UE, dal momento che la Dec. UE 2014/335 del Consiglio ricomprende tra le risorse proprie unionali anche l'IVA, allora può sostenersi un nesso diretto tra la riscossione delle entrate provenienti dall'IVA nell'osservanza del diritto dell'Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell'Unione delle corrispondenti risorse IVA”.

Pertanto, derivando dall'art. 273 della Direttiva, in combinato disposto con l'art. 325, par. 1, TFUE, l'obbligo per gli Stati membri di adottare le misure atte a garantire la riscossione integrale dell'IVA, il meccanismo di responsabilità solidale della norma bulgara contribuisce legittimamente al recupero dell'imposta, a prescindere dalla circostanza che “le persone rese responsabili in solido non sono esse stesse, in tale qualità, soggetti passivi dell'IVA”.

Aggiunge poi la Corte che l'obbligo di combattere l'evasione può esigere che uno Stato membro sanzioni persone non soggetti passivi che partecipano all'adozione di decisioni presso una persona giuridica soggetto passivo, pena la compromissione dell'effettività di tali misure, rientrando un meccanismo di solidarietà in oggetto “nel margine discrezionale di cui godono gli Stati membri nell'ambito dell'attuazione dell'articolo 273 della direttiva IVA”, senza che questo possa essere assimilato ad un sistema di responsabilità solidale oggettiva, incompatibile con il principio di proporzionalità.

Tali argomentazioni, però, non convincono sotto diversi aspetti.

La Corte non sembra spiegare in maniera coerente l'esistenza di una frode che consenta l'applicabilità congiunta dell'art. 325 TFUE e dell'art. 273 della direttiva, norma collocata nel capo 7 del titolo XI rubricato «Obblighi dei soggetti passivi e di alcune persone non soggetti passivi».

Tale norma consente agli Stati membri di individuare ulteriori obblighi per consentire l'esatta riscossione dell'IVA, nel “rispetto della parità di trattamento delle operazioni effettuate …. da soggetti passivi, attuando in tal modo una “riserva” solo in capo ai soggetti passivi IVA ed avente “la sua unica ragion d'essere nel caso in cui gli obblighi addizionali riguardino un (altro) soggetto passivo” (v. conclusioni Avv. gen. Kokott, p. 52), non potendosi del resto sostenere in alcun modo forme di disparità di trattamento tra operazioni nazionali e intracomunitarie in relazione a persone non soggetti passivi IVA.

A riprova di ciò vi è che, in tutti i precedenti della Corte UE nei quali è stato ritenuto applicabile l'art. 273 della Direttiva IVA (v. C‑583/20, EuroChem Agro Hungary, p. 25, C‑935/19, Grupa Warzywna, p. 24, C‑712/17, EN.SA., C‑534/16, BB construct, p. 22, C‑101/16, Paper Consult, p. 55, C‑576/15, Maya Marinova, p. 42, C‑80/11 e C‑142/11, Mahagében, p. 54), le parti private dei procedimenti pregiudiziali erano soggetti passivi IVA.

Come osservato dall'Avv. gen Kokott (conclusioni p. 57 in C-1/21) nella misura in cui la direttiva IVA, “in linea di principio, non trova applicazione a persone non soggetti passivi dell'IVA”, di conseguenza l'art. 273 non sarà traslabile in capo a persone fisiche al solo fine di “assicurare il gettito dell'IVA ed evitare l'evasione”.

Del resto è la medesima Corte UE ad avere, nel tempo, escluso l'applicabilità della Direttiva alle persone non soggetti passivi d'imposta in relazione ai quali non era riscontrabile il requisito dell'economicità dell'attività esercitata piuttosto che quello dell'indipendenza per l'assenza del rischio economico d'impresa.

Da ultimo ad esempio, in C-420/18, si chiedeva alla Corte UE se un membro del consiglio di vigilanza di una fondazione potesse esercitare un'attività economica in modo indipendente, ai sensi della Direttiva IVA e, di conseguenza, potesse essere qualificato come soggetto passivo dell'IVA.

La Corte, ribadendo che l'art. 10 della Direttiva precisa che la condizione che l'attività economica sia esercitata in modo indipendente esclude dall'imposizione i lavoratori dipendenti ed altre persone vincolate al datore da un contratto di lavoro subordinato, ha riconosciuto il carattere economico dell'attività a fronte della stabilità della retribuzione percepita negli anni, disconoscendo di contro il requisito dell'indipendenza dell'attività.

Ciò perché, pur in assenza di vincoli di subordinazione (date le condizioni di lavoro poste al consiglio di vigilanza), è stato escluso, alla luce dell'articolo 9 della Direttiva, l'esercizio dell'attività in nome proprio, per proprio conto e sotto la propria responsabilità, e con assunzione del relativo rischio economico, come del resto risultava dallo statuto della fondazione (v. anche C-165/17, Morgan Stanley, p. 35, C-154/08, Commissione/Spagna, p. 107, C-355/06, Van der Steen, p. da 24 a 26, C-210/04, FCE Bank, p. da 35 a 37).

Per analoghe ragioni la Corte, in C-276/14, ha rintracciato la presenza del requisito dell'economicità ma non anche dell'indipendenza dell'attività svolta da parte di un Comune che svolgeva le missioni affidategli in forza di una legge nazionale e mediante numerose unità iscritte al bilancio comunale nonché aziende territoriali pubbliche (scuole, istituti culturali, ispettorati distrettuali e polizia).

Lì occorreva verificare se tali unità si trovassero in rapporto di subordinazione nei confronti del Comune o se esercitassero le attività economiche in maniera indipendente al fine dell'assoggettamento ad IVA.

La Corte, sottolineando che al fine di valutare la presenza del requisito dell'indipendenza nell'esercizio delle attività economiche potevano essere applicati gli stessi criteri di valutazione sia alle persone pubbliche che alle persone private, osservava che tali unità, in quanto prive di un proprio patrimonio, non rispondevano dei danni provocati dalle loro attività, ricadendo la responsabilità solo sul Comune.

Osservazioni

In conclusione, che si sia trattato, nel caso in questa sede in commento, di overruling piuttosto che di distinguishing da parte della Corte UE, e ciò al fine di liberarsi dall'obbligo di seguire il precedente (v. in argomento v. V. Nucera, “Sentenze pregiudiziali della Corte di Giustizia e ordinamento tributario interno”, Padova, 2010, pagg. 124 e ss.; v. anche M. Serio e G. Criscuoli, “Nuova introduzione allo studio del diritto inglese”, Milano, 2021, pagg. 285 e ss., nonché R. Cross e J. W. Harris, “Precedent in English Law”, Oxford University Press, 1991), sfugge comunque come i giudici abbiano potuto ritenere assimilabile nella “giurisdizione” IVA un soggetto persona fisica il cui comportamento, seppur in malafede, ha comportato solo indirettamente il mancato versamento dell'imposta all'Erario.