L'art. 1455 c.c. stabilisce, quale regola di ordine generale, l'impossibilità di risolvere un contratto qualora l'inadempimento di una delle parti abbia “scarsa importanza”in relazione all'interesse concretamente perseguito dall'altra. Tale norma, come emerge dal caso in trattazione, risulta trovare applicazione anche in tema di locazioni di immobili ad uso diverso dall'abitativo. Qui, pertanto, presupposto per la risoluzione giudiziale del contratto causa inadempimento è la gravità di quest'ultimo. In proposito, sempre dalla formulazione dell'articolo in esame, si deduce che il concetto di gravità (rectius, non scarsa importanza) deve essere verificato avendo riguardo al comportamento di entrambe le parti nel quadro generale dell'esecuzione del contratto nonché dell'interesse che la parte ha all'esatto adempimento dell'obbligo contrattuale.
In altre parole, dalla formulazione della norma emerge che la gravità dell'inadempimento deve essere determinata considerando la posizione di entrambe le parti, quindi sia l'inadempimento di una che l'interesse all'adempimento dell'altra.
Alla luce di ciò si può, ad esempio, concludere per l'inammissibilità della risoluzione contrattuale quando l'inadempienza di una parte (ossia il mancato o ritardato pagamento, totale o parziale, del canone di affitto da parte del conduttore), pur provocando un danno al creditore (cioè il locatore), non impedisca la realizzabilità dell'intento perseguito dalle parti con il contratto. Ovvero, la gravità dell'inadempimento si avrà quando, per effetto di esso, apparirà notevolmente scemata l'utilità della prestazione per il creditore (cioè il locatore), in vista dello scopo che si era proposto stipulando il contratto originario. Per quanto riguarda in particolare la materia locativa in commento pare quindi potersi qui applicare un criterio ricavabile dall'art. 1564 c.c. in tema di somministrazione per cui, trattandosi di obbligazioni ad esecuzione continuata o periodica, l'inadempienza (per giustificare la risoluzione contrattuale) dovrà essere tale da menomare la sicurezza all'ottenimento delle successive prestazioni contrattualmente stabilite.
Alla luce delle precedenti considerazioni, l'art. 1455 c.c. sembra, quindi, ispirarsi al generale assunto della conservazione dei rapporti contrattuali nei casi in cui questi, pur potendo cadere per cause, legalmente previste, determinanti un pregiudizio attuale o potenziale di una delle parti, vedono il pregiudizio rimosso o evitato, oppure non più rilevante e, pertanto, per converso assicurato il normale svolgimento dei rapporti contrattuali.
Un principio, quello in argomento, che poggia a sua volta su di un altro assunto, quello della buona fede contrattuale di cui agli artt. 1367 e 1375 c.c., che trova già concreta espressione in numerose disposizioni del nostro ordinamento statuale. Non si deve, però, dimenticare che alle parti contraenti è data facoltà di stabilire contrattualmente che la violazione (o anche solo l'inesattezza o il ritardo) nell'adempimento di un dato obbligo (i.e. il pagamento del canone di locazione) sia da considerarsi come grave inadempimento. Pattuizione questa che da ritenersi valida ai sensi dell'art. 1322 c.c., dato tanto il carattere non cogente dell'art. 1455 c.c. quanto la formulazione dell'art. 1456 c.c., da cui si può dedurre che la clausola risolutiva espressa disinnesca automaticamente l'applicazione dell'art. 1455 c.c.
Nel caso in trattazione, tuttavia, non solo non si rileva la presenza di alcuna clausola risolutiva espressa all'interno del contratto locativo oggetto di vertenza ma, trattandosi di locazione di immobili ad uso strumentale, il giudizio sulla non scarsa importanza dell'inadempimento del convenuto non può nemmeno essere compiuto in via preventiva dal legislatore. Qualora si fosse trattato di locazione abitativa avrebbe invero trovato applicazione il combinato disposto degli artt. 5 e 55 l. n. 392/1978 per cui il mancato pagamento anche di una sola rata del canone locativo (per un importo superiore a due mensilità) costituisce presupposto tassativo dell'inadempimento, giustificante ipso facto la risoluzione contrattuale.
Nelle locazioni diverse da quelle abitative invece la valutazione della non scarsa importanza dell'inadempimento è necessariamente rimessa - appunto ex art. 1455 c.c. - al potere discrezionale del giudice. Per cui, in caso di morosità nel pagamento del canone di locazione pattuito, “non può reputarsi automaticamente sussistente la gravità sol perché l'inadempimento incide su una delle obbligazioni primarie scaturenti dal contratto, dovendosi invece accertare la gravità in concreto (...)”. Compito dell'organo giudicante è cioè quello - in tal caso - di verificare l'effettiva idoneità della mora a sconvolgere l'intera economia del rapporto, con conseguente annullamento dell'interesse del locatore al prolungamento dello stesso.
Nello specifico, la valutazione che deve compiere il giudice va operata considerando sia il livello di apprezzabile incidenza dell'inadempienza sull'economia complessiva del rapporto contrattuale (c.d. parametro oggettivo), “(...) si da luogo ad uno squilibrio sensibile del sinallagma negoziale”(v. sentenza in commento), e sia la condotta realmente tenuta da entrambe le parti (c.d. parametro soggettivo) che, in relazione al caso specifico, può anche attenuare il giudizio sulla “non scarsa importanza” indipendentemente dall'importanza della prestazione (qual è il pagamento del canone di locazione) ritardata o ineseguita.
Ed è proprio sulla base della disamina combinata del duplice parametro sopra indicato che, nel caso in trattazione, il Tribunale romano era giunto a considerare non grave il mancato pagamento del canone locativo da parte del convenuto e quindi come elemento inidoneo a produrre l'esito della risoluzione contrattuale implicitamente contenuto nell'originaria istanza di convalida di sfratto presentata dalla parte attorea. Dall'analisi della documentazione prodotta in atti era, infatti, emerso un comportamento “bilanciato” da parte di entrambi i soggetti coinvolti. In altre parole, il giudice di merito aveva constatato, da un lato, una serie periodica di pagamenti effettuati dal convenuto a titolo di corresponsione (seppur parziale) del canone di affitto originariamente pattuito con il locatore e, dall'altro, la previsione, nel contratto locativo oggetto di vertenza, di una clausola (affetta da nullità) statuente un canone “scalettato” in favore della parte attrice.
Con tale ultima espressione deve intendersi, in particolare, la clausola con cui, in ambito locativo, viene pattuita l'iniziale predeterminazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni nell'arco dell'intero rapporto contrattuale. In proposito, come aveva rilevato il Tribunale romano, pur essendo “in facoltà delle parti di convenire preventivamente (...) un canone “determinato in misura crescente per distinte frazioni di tempo” (...), non essendo ciò vietato da alcuna della ridetta l. n. 431/1998” (Cass. n. 19045/2015), la clausola, nel contratto in esame, risultava viziata in quanto avente il solo scopo di eludere il limite quantitativo di cui all'art. 32, l. n. 392/1978. Essa costituiva cioè una forma di indicizzazione del canone atta al mero contrasto della svalutazione monetaria che, “per porsi in contrasto con il citato art. 32, viene colpita dalla sanzione di nullità prevista dall'art. 79, l. n. 392/1978” (Cass. civ., sez. VI/III, 23 giugno 2011, n. 13887).
Stante l'impossibilità nell'accoglimento dell'istanza di parte attrice, alla luce delle precedenti considerazioni, è da segnalare infine che, per l'organo giudicante, restava comunque assodato il tradizionale principio giurisprudenziale (ribadito chiaramente anche nel caso de quo) in tema di onere della prova gravante sulla parte che agisce in giudizio. Quest'ultima, infatti, deve provare il titolo costitutivo del rapporto e può limitarsi ad allegare l'inadempimento vantato, gravando quindi sulla controparte l'onere della prova contraria (Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533).