La Cassazione ha da tempo chiarito che la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione e educazione della prole così come previsti dagli artt. 147 e 148 c.c.
- “determina un'immancabile ferita di quei diritti nascenti dal rapporto di filiazione, che trovano nella carta costituzionale (in part., articoli 2 e 30) e nelle norme di natura internazionale recepite nel nostro ordinamento un elevato grado di riconoscimento e di tutela”;
- di conseguenza, “non trova la sua sanzione, necessariamente e soltanto, nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia [ma può altresì] integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c., come reinterpretato alla luce dei principi enucleatati dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione nella nota decisione n. 26972 del 2008” (così Cass. n. 3079/2015).
Diremmo, dunque, che il discrimine tra danno da perdita del rapporto parentale e danno da abbandono non si manifesta sul piano sistematico, ma attenga piuttosto alla fenomenologia delle due fattispecie, le quali differiscono per due aspetti particolarmente significativi (oltre al fatto che, lo si ripete, il danno da abbandono è determinato non dall'illecito terzo ma dalla scelta del genitore medesimo).
In primo luogo, dovremmo intanto considerare come il danno da abbandono genitoriale, a differenza del danno parentale, non consista nella perdita di un rapporto effettivo (almeno nei limiti in cui il disinteresse del genitore si sia manifestato ininterrottamente sin dalla nascita, come appunto nel caso deciso dalla sentenza in commento). Ed è proprio muovendo da tale rilievo che il Tribunale di Napoli giunge ad affermare – come già anticipato - che il danno da mancato assolvimento dei doveri genitoriali è “ovviamente inferiore al danno da perdita del genitore cui si è affettivamente legati. Per quanto grave, infatti, possa essere la sofferenza subita dall'attrice (per le ragioni prima descritte) non è, in ogni caso, paragonabile a quella subita a causa del decesso”.
Potrebbe invero dibattersi sulla correttezza di una simile conclusione, atteso che gli effetti dell'abbandono sulla vita del figlio meriterebbero di essere valutati mediante un attento esame di tutte le circostanze allegate e provate dal danneggiato. D'altro canto, non vi è dubbio che le conseguenze derivanti dalla perdita di un rapporto effettivo siano qualitativamente differenti da quelle determinate dalla negazione di qualsivoglia relazione e già solo questo marca un primo e significativo elemento di discrimine tra il danno da abbandono genitoriale e il danno parentale.
In secondo luogo, noteremo come il danno da abbandono, a differenza di quello parentale (che consiste nella perdita “futura” del rapporto col de cuius), si atteggi piuttosto come un danno “passato”.
Ed infatti, se, da un lato, è possibile affermare che il danno da abbandono consiste “nelle ripercussioni personali e sociali derivanti dalla consapevolezza di non essere mai stato desiderato ed accolto come figlio” (così Cass. sez. 1, 22 novembre 2013, n. 26205) e che la sofferenza prodotta da tale consapevolezza potrebbe protrarsi anche a lungo nella vita del figlio, dall'altro, non potremmo neppure omettere di considerare che, sovente, la scelta di quest'ultimo di tutelare giudizialmente i propri diritti nei confronti del genitore venga assunta a distanza di molti anni quando la sofferenza determinata dall'abbandono è stata in qualche modo elaborata (nel caso deciso dal Tribunale di Napoli l'attrice si è determinata ad agire giudizialmente all'età di 52 anni).
Tale specifico aspetto è stato attentamente vagliato dalla Cassazione anche al fine di individuare il termine da cui inizia a decorrere la prescrizione del diritto risarcitorio (Cass. n. 11097/2020). E proprio in tal prospettiva la Suprema Corte ha chiarito che “la natura della condotta illecita, quanto meno nel caso in cui il disinteresse completo inizia dalla nascita del figlio, ha la peculiarità di ledere la formazione della personalità del figlio stesso, e quindi incidere sull'acquisizione della capacità di percepire correttamente e reagire conseguentemente. Occorre, infatti, per acquisirla che la vittima dell'abbandono si svincoli dall'incidenza percettiva e comportamentale del notorio istintivo desiderio filiale di un rapporto positivo con il genitore, per raggiungere una maturità personale compatibile con il coinvolgimento personale ed emotivo ad esso connesso”; laddove per “maturità personale” deve intendersi la capacità di “percepire la reale situazione a sé pregiudizievole e di assumere reattive decisioni di contrasto con la persona desiderata. Ovvero, accettare psicologicamente la illiceità della condotta del genitore e chiedere il risarcimento dei danni subiti quale figlio rifiutato del genitore che l'ha posta in essere”.
Ebbene, da tali cristallini passaggi consegue non solo che il dies a quo della prescrizione dev'essere individuato “nel momento in cui la vittima della condotta di abbandono genitoriale è pervenuta nelle concrete condizioni di esercizio del diritto risarcitorio quali sopra ampiamente illustrate”, ma altresì che le conseguenze dell'illecito – al momento in cui l'azione risarcitoria viene esercitata – potrebbero addirittura ritenersi esaurite.
Così identificati gli elementi di discrimine tra le due fattispecie, occorre dunque comprendere se e in quali termini le circostanze di cui alla nuova tabella milanese possano rilevare al fine di graduare il risarcimento del danno da abbandono.
Ebbene, intanto è da escludersi fermamente che nella fattispecie di nostro interesse possano trovare applicazione le circostanze di cui alle lettere c) ed e), atteso che - a fronte di una provata convivenza e/o di una relazione caratterizzata da particolare intensità e qualità - non si potrebbe certo discorrere di abbandono. Tant'è che il Tribunale di Napoli, come anticipato, si è limitato ad un'applicazione parziale della nuova tabella valorizzando le sole circostanze a), b) e d) (ovvero: età del padre e della figlia al momento della nascita di quest'ultima nonché esistenza della madre che ha allevato l'attrice).
D'altro canto, la soluzione approntata dalla sentenza in commento non convince.
Si consideri, infatti, come tutte le circostanze contemplate dalla nuova tabella (ivi comprese quelle previste dalle lettere a), b) e d) costituiscano i fatti noti da cui è possibile inferire - in via presuntiva – l'entità della sofferenza che il congiunto patirà in futuro per la perdita del de cuius.
In particolare, si osservi come il punteggio di cui alle circostanze a) e b) venga attribuito in funzione decrescente rispetto dell'età della vittima primaria e della vittima secondaria, in modo da parametrare il risarcimento a quella che sarebbe stata la presumibile durata del rapporto parentale in assenza di illecito. Al contrario, lo si è detto, il danno da abbandono è piuttosto rappresentato dalle conseguenze non patrimoniali patite dal figlio nel periodo che è realmente intercorso tra l'abbandono e l'effettivo raggiungimento della “maturità personale” che gli consente di “accettare psicologicamente la illiceità della condotta del genitore”.
Date tali premesse, è dunque evidente che ai fini della liquidazione del danno da abbandono:
- l'età del genitore (circostanza a) potrebbe risultare pressoché irrilevante (salvo il caso di genitorialità talmente tardiva da poter comunque escludere che il figlio avrebbe potuto confidare sulla presenza del genitore per tutto il periodo del suo sviluppo psicofisico);
- quanto alla circostanza b), occorrerebbe tener conto dell'età del figlio non solo al momento dell'abbandono ma altresì a quello dell'effettivo raggiungimento della “maturità personale” sopra richiamata (in modo da poter misurare il periodo in cui il danno si è effettivamente manifestato nella vita del figlio).
L'unica circostanza che – per come valorizzata nella nuova tabella di Milano – potrebbe rilevare anche ai fini della liquidazione del danno da abbandono genitoriale è la “sopravvivenza” (nel nostro caso sarebbe più corretto discorrere di “presenza” o “esistenza”) di altri congiunti quale, appunto, l'altro genitore e/o eventuali fratelli.
Nondimeno, proprio in ragione della particolarissima fenomenologia del danno da abbandono, noteremo come – nella fattispecie in esame - l'assenza di altri familiari (e in particolare dell'altro genitore) possa produrre conseguenze ancor più gravi sullo sviluppo psicofisico del figlio e, pertanto, tale circostanza meriterebbe comunque di assumere un rilievo ben maggiore nella liquidazione del danno.