La posizione della Corte di giustizia UE in tema di acconto sul prezzo
Di rilievo le argomentazioni sviluppate della Corte di giustizia UE che in alcuni precedenti ha escluso l'assoggettamento ad IVA nei casi in cui pur essendoci il versamento di un “acconto” sul prezzo, motivando sulla base dell'assenza di una chiara e precisa individuazione degli elementi pertinenti del fatto generatore, ossia della futura cessione dei beni o della futura prestazione di servizi, non essendo questi noti né designati con precisione al momento dell'acquisto.
Argomentando circa il contenuto dell'art. 63 della Dir. IVA 112/2006 per il quale “il fatto generatore dell'imposta si verifica e l'imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi”, la Corte UE ha sostenuto che i due momenti del fatto imponibile e del fatto esigibile sono, di regola, ontologicamente uniti e non dissociabili sulla scorta della definizione normativamente data.
Ha poi evidenziato che il fatto generatore, l'esigibilità e l'obbligo di pagamento dell'IVA rappresentano tre tappe successive nel processo che conduce alla riscossione dell'IVA, nel senso che l'insorgenza dell'obbligo di pagamento dell'IVA presuppone che l'imposta suddetta sia divenuta esigibile, mentre tale esigibilità è a sua volta subordinata al previo verificarsi del fatto generatore (sulla necessità di distinguere tali tre nozioni v. C‑10/92, p. da 21 a 24).
Una “deroga”, però, la si rinviene nell'art. 65 della direttiva citata, la quale “retrocede” il solo fatto esigibile dell'IVA, con conseguente obbligo di fatturazione, ad un momento antecedente la cessione o la prestazione, non ancora verificatesi, nell'ipotesi di pagamento di acconti in danaro, ma anche in natura.
Se è vero che il successivo art. 66 della direttiva consente agli Stati membri di scindere il momento del fatto generatore da quello dell'esigibilità dell'imposta, consentendo di “posticipare” quest'ultimo e di ancorarlo o al pagamento del corrispettivo o al momento di fatturazione, va però anche sottolineato che una caratterizzazione più puntuale dei due momenti, come evidenziato dalla Corte UE in alcuni suoi precedenti, può rivelare sia ipotesi in cui l'esigibilità (e l'obbligo di fatturazione) venga in rilievo a prescindere dalla realizzazione effettiva di un'operazione (v. ad es. C-549/11, ed anche C-520/10 e C-419/02), sia ipotesi, al contrario, di assenza del momento esigibile pur a fronte del pagamento di un acconto sul prezzo.
In particolare, tale ultimo caso è stato affrontato dalla Corte UE nella causa BUPA Hospitals in C-419/02, in merito al rifiuto delle autorità fiscali del Regno Unito di autorizzare tale società, operante nel campo della gestione di strutture ospedaliere private, ad operare la detrazione dell'imposta pagata a monte su acconti versati per cessioni future da effettuarsi da parte di altre due società del gruppo BUPA.
Dal fatto, brevemente, emerge che alla BUPA Hospitals, in conformità ad una decisione della Corte di appello britannica, per diversi anni ha potuto cedere ad aliquota IVA zero medicinali e protesi ai pazienti degli ospedali da questa gestiti, permettendole in tal modo di recuperare l'imposta versata a monte sull'acquisto dei prodotti ricevuti dai propri fornitori per mezzo della detrazione d'imposta.
A seguito della decisione del Governo inglese di legiferare rapidamente per modificare la norma e rendere tali cessioni “esenti”, con conseguente esclusione in capo alla società interessata in termini di detrazione d'imposta, il gruppo BUPA decise di fare ricorso ad “accordi di pagamento anticipato” (v. p. 98 e ss. delle conclusioni dell'avv. gen. in C-419/02) stipulando contratti d'acquisto di notevoli quantità di beni e di servizi in previsione della modifica normativa, chiedendo altresì di beneficiare di uno sgravio dell'IVA versata a monte in corrispondenza del periodo durante il quale il pagamento era stato effettuato o una fattura emessa, anche se la cessione si sarebbe verificata in un esercizio contabile successivo.
La Corte UE, condivisibilmente, osservava che “la pietra angolare degli accordi posti in essere dal gruppo BUPA risiede nella fatturazione dell'IVA all'atto del pagamento anticipato” di cui all'art. 10, n. 2, c. 2, della Sesta direttiva IVA 77/388, il chè richiedeva di esaminare se pagamenti anticipati come quelli della causa principale rientrassero o meno nel campo di applicazione della norma citata.
Osservava, quindi, che l'art. 10, n. 2, c. 2, della Sesta direttiva, ai sensi del quale nel caso di pagamento di acconti anteriori alla cessione di beni o alla prestazione di servizi l'IVA diventa esigibile all'atto della riscossione, a concorrenza dell'importo riscosso, costituisce una deroga alla previsione del primo comma di tale norma e, in quanto tale, deve essere oggetto di una interpretazione restrittiva.
Posto che il fatto generatore dell'IVA è definito dalla norma (art. 10, n. 1, lett. a)), come quel “momento” in presenza del quale si considerano realizzate le condizioni di legge necessarie per l'esigibilità dell'imposta, la quale può rivelarsi “nello stesso tempo o dopo l'avverarsi del fatto generatore ma, salvo disposizione contraria, non prima di questo”, e dato altresì che l'art. 10, n. 2, c. 2, prevede che, nel caso di versamento di un acconto, l'IVA sia esigibile senza che la cessione o la prestazione sia stata ancora effettuata, affinché l'imposta possa diventare esigibile occorre che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già conosciuti e che, nel momento del versamento dell'acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati (C-419/02, p. 48).
Al riguardo, nelle conclusioni in causa dell'avv. gen. M. Poiares Maduro (p. 100) si sostiene che “un mero pagamento in acconto per beni genericamente indicati in un elenco dal quale l'acquirente può scegliere in futuro uno o alcuni o nessuno di essi, in circostanze in cui l'acquirente può recedere dal contratto unilateralmente in qualsiasi momento e recuperare l'importo versato e ancora non speso, non è sufficiente a caratterizzare quel pagamento come acconto” nel senso previsto dal c. 2 dell'art. 10, n. 2, della Dir. 77/388.
Così ragionando, ha sostenuto l'esclusione dal campo di applicazione dell'IVA degli accordi di prepagamento sottoscritti dalla BUPA, “nella misura in cui possono essere sostanzialmente classificati dal giudice remittente come contratti di vendita futura”.
Alle medesime conclusioni la Corte UE è giunta anche in C-270/09, nel quale si discuteva intorno al corretto inquadramento ai fini dell'IVA di determinati servizi resi da una società inglese nell'ambito dell'acquisizione di diritti di godimento a tempo ripartito (timesharing) di alloggi per vacanze situati in complessi residenziali turistici ubicati nell'UE.
Tale società aveva creato un programma di opzioni (nell'ambito del prodotto di multiproprietà) e fondato un circolo avente come oggetto principale quello di garantire ai suoi membri il diritto di prenotare ogni anno alloggi vacanza ed altri vantaggi accessori per specifici periodi dell'anno, nel corso del periodo di trent'anni in base al regime stabilito nello statuto.
Non vi erano oneri di ingresso per diventare membro del sistema opzioni ed entrare nel circolo, tuttavia, al momento della domanda di adesione, ogni nuovo membro ordinario doveva acquistare dei punti-diritti, ed ai membri era riconosciuto ogni anno un credito in punti corrispondente ai loro punti‑diritti, convertibili con l'occupazione di alloggi e per periodi di loro scelta, entro il limite di valore dei loro punti, conversione però subordinata alla disponibilità dell'alloggio nel periodo di tempo e nella struttura ricettiva desiderati.
Il giudice del rinvio chiedeva quindi alla Corte di valutare sotto il profilo dell'IVA le prestazioni di servizi fornite dalla società sotto forma di attribuzione di punti‑diritti ai soci del circolo.
La Corte, condivisibilmente, richiamando un passaggio argomentativo dell'avv. gen. Trstenjak (p. 74 e ss. delle conclusioni) ha ragionato cercando di individuare il “se” ed il “quando” dell'esistenza del nesso sinallagmatico tra le controprestazioni del socio membro e della società proprietaria degli alloggi, ai fini dell'onerosità della prestazione e quindi del suo assoggettamento ad IVA.
La Corte, pur osservando che “i punti cui hanno diritto i titolari di «punti-diritti» riflettono il valore di un soggiorno in una determinata unità abitativa o di altri servizi forniti dalla società, pur costituendo in un certo senso il mezzo di pagamento che i clienti utilizzano, in particolare, per pagare l'acquisizione di un diritto di godimento temporaneo di un'unità abitativa”, ha evidenziato (richiama C-37/08, p. 29) che, tuttavia, l'intento finale del cliente non è già quello di raccogliere punti, bensì “di usufruire temporaneamente di un'unità abitativa o di ottenere altri servizi selezionati in un momento successivo”.
Per i clienti l'acquisto in sé dei punti-diritti nell'ambito del programma di opzioni non può avere alcun valore intrinseco, non essendo questo l'obiettivo del cliente, dovendosi invece considerare “l'acquisizione di siffatti diritti nonché la conversione dei punti quali operazioni preliminari realizzate allo scopo di poter aspirare ad un diritto di godimento temporaneo di un'unità abitativa, di un soggiorno in un albergo o di un altro servizio”.
Il socio/acquirente dei punti-diritti, quindi, riceve la controprestazione della società, prevista a seguito del suo pagamento iniziale, solo al termine di detta conversione, nel corso e per effetto della quale egli sarà in grado di individuare il tempo ed il luogo in cui trascorrere le proprie vacanze, previa disponibilità dell'alloggio individuato, rivelando, così, solo in quel momento e non già prima, quel “nesso diretto” fra il servizio fornito dal prestatore ed il controvalore ricevuto (v., tra i tanti, C-102/86, p. 11 e 12, nonché C-16/93, p. 14).
Di conseguenza il momento di esigibilità dell'imposta (art. 63 della Dir. IVA) emergerebbe solo al momento della conversione dei punti-diritti in precedenza acquisiti e non anche prima, men che meno qualificando come “acconto” il loro acquisto (art. 65 della Dir. IVA), retrocedendo tale “momento” alla fase di acquisto, posto che (v. p. 75 delle conclusioni dell'avv. gen.) affinché l'imposta possa diventare esigibile in una tale circostanza occorre che “tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già conosciuti e che, nel momento del versamento dell'acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati, escludendo da IVA gli acconti versati per cessioni di beni o per prestazioni di servizi non ancora chiaramente individuate” (v. C-419/02, p. 50, nonché C-549/11, p. 28 e ss).
Ciò, altresì, perché il cliente al momento dell'acquisto dei punti-diritti non è in grado di conoscere con precisione le unità abitative o gli altri servizi disponibili nel corso di un determinato anno né quale sia il valore in termini di punti di un soggiorno in tali unità abitative o di tali servizi, creandosi in tal modo una “situazione di incertezza”, tanto più che è la società a stabilire il punteggio in graduatoria degli immobili, il che implica che la scelta del cliente è a priori limitata agli immobili che sono alla sua portata ed alla luce dei punti di cui dispone (p. 29 della sentenza e 76 delle conclusioni).
In base a tali argomentazioni è stata correttamente esclusa la possibilità di qualificare tali acquisti quali acconti da assoggettare ad IVA, in difetto dei requisiti essenziali ai fini dell'esigibilità dell'imposta.