Il momento di esigibilità dell'IVA negli acconti sul prezzo di acquisto

28 Febbraio 2023

Con Ordinanza n. 1609/2023 del 19.1.2023, la Corte di Cassazione ha accolto l'originario ricorso della società contribuente, sostenendo che la restituzione di un acconto sul prezzo di una compravendita immobiliare, mai fatturato dal promissario venditore, ha natura meramente finanziaria, “non accedendo ad alcuna cessione imponibile”, e deve essere escluso da IVA dal momento che, in caso contrario, si determinerebbe “un'indebita alterazione del principio di neutralità” su cui si fonda il meccanismo di funzionamento dell'imposta unionale.
Massima

Nel principio di diritto espresso in ordinanza si afferma che, in tema di IVA, il versamento di un acconto sul prezzo in relazione ad un contratto preliminare di compravendita immobiliare costituisce operazione imponibile ed il promittente venditore è tenuto ad emettere la relativa fattura e ad esporvi l'IVA dovuta. Nel caso in cui la suddetta operazione venga meno, il promissario acquirente è tenuto alla necessaria rettifica, ai sensi dell'art. 26 del DPR 633/1972, nonché ad emettere la conseguente fattura relativa alla restituzione in suo favore della somma già versata, trattandosi di operazione imponibile di segno contrario rispetto alla prima.

Qualora, invece, l'originario versamento dell'acconto non sia stato assoggettato ad IVA, né l'Ufficio abbia proceduto tempestivamente ad accertamento, la restituzione della somma da parte del promittente venditore assume, ai fini IVA, natura meramente finanziaria e deve essere esclusa da imposta, pena la violazione del principio di neutralità dell'IVA.

Il caso

La vicenda nasce dall'emissione di due avvisi di accertamento notificati alla società Alfa, promissaria acquirente, con i quali veniva recuperata a tassazione l'IVA ritenuta da tale società dovuta e non versata in relazione alla restituzione di una somma, effettuata in due tranches, da parte della società Beta, promissaria venditrice, a seguito della risoluzione del contratto preliminare per la compravendita di un immobile.

Nell'ordinanza si legge che l'intera somma era stata originariamente versata dalla società Alfa nei confronti della Beta, a dire della prima, a titolo di caparra confirmatoria, a fronte della quale non vi era stata alcuna fatturazione da parte della promissaria venditrice.

A fronte di ciò l'Agenzia delle Entrate, la quale aveva omesso di contestare tempestivamente la mancata fatturazione dell'acconto, lasciando di fatto che l'operazione originaria si consolidasse nel senso della sua non imponibilità, dopo aver riqualificato come acconto sul prezzo il complessivo esborso, ritenne che anche la sua restituzione andasse soggetta ad IVA, con conseguente relativo recupero.

Il giudice d'appello, nel respingere il gravame della Alfa, ritenne corretta la qualificazione del pagamento originario, operata dall'Ufficio, quale acconto sul prezzo e non quale caparra confirmatoria, riferendo che non era credibile che il preliminare, mai prodotto in giudizio, fosse stato distrutto dalla società stessa, e non essendo altresì possibile desumere la valenza risarcitoria della relativa pattuizione.

Sostenne, inoltre, che la restituzione dell'acconto dovesse rientrare nel campo IVA e, dovendo assicurarsi la neutralità dell'imposta, risultava conseguentemente necessario fatturare anche l'operazione inversa di restituzione del prezzo.

La questione

La Corte premette che, nel caso esaminato, era palese che l'acconto, avente ad oggetto un fatto giuridico ben determinato quale la compravendita di un immobile, avrebbe dovuto essere assoggettato ad IVA da parte della promittente venditrice Beta con conseguente fatturazione, versamento all'Erario e detrazione da parte della cessionaria Alfa.

Al riguardo, condivisibilmente, ricorda che, ai sensi del c. 2 dell'art. 26 del d.P.R. 633/1972, qualora “un'operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione... viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l'ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o in conseguenza dell'applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente…”, è imposta al committente/cessionario la rettifica o la neutralizzazione dell'IVA (richiama Cass. n. 26894/2019) mediante annotazione nel registro IVA, spettando al cedente il diritto ad operare la detrazione dell'IVA conseguente a tale rettifica.

Tutto ciò, però, in presenza di un'originaria fattura emessa e registrata, la cui mancanza non rende possibile operare nel senso prescritto dalla norma citata.

In tal modo, continua la Corte, solo la restituzione del prezzo a titolo di acconto, opportunamente fatturato, avrebbe conservato natura “eguale e contraria” rispetto al pagamento originario, generando in capo alla promissaria acquirente l'obbligo di emissione della relativa fattura.

Viceversa, nel caso qui in commento, un eventuale fatturazione da parte della società Alfa con contestuale pagamento dell'IVA in rivalsa da parte della promissaria venditrice Beta, avrebbe alterato il meccanismo di neutralità dell'imposta, “oramai definitivamente segnata sia dal comportamento tenuto dalle parti in relazione all'originaria operazione, sia dalla conseguente inerzia dell'Ufficio”.

La soluzione giuridica

Il versamento dell'acconto sul prezzo finale con emissione della relativa fattura da parte del committente/cessionario in relazione ad un contratto di compravendita immobiliare, deve essere assoggettato ad IVA costituendo un'operazione imponibile, nella misura in cui, ai sensi del c. 4 dell'art. 6 del d.P.R. 633/1972, è previsto che l'operazione si consideri effettuata, limitatamente all'importo fatturato o pagato, alla data della fattura o a quella del pagamento (v. Cass. 2020/1961, nonché Cass. 2007/6487).

Solo in presenza di pagamento dell'acconto seguito da regolare fattura e qualora si avveri una delle cause di cui al c. 2 dell'art. 26 su citato, che consentono al cedente/prestatore di emettere la nota di variazione in diminuzione, al più tardi, entro la data di presentazione della dichiarazione IVA relativa all'anno in cui si è verificato il presupposto per operare detta variazione (v. Circ. E 1/2018 e Principio di diritto 5/2020), il cessionario/committente potrà essere tenuto ad operare la registrazione della variazione a norma degli artt. 23 e 24, fatto in ogni caso salvo il suo diritto alla restituzione dell'importo pagato al cedente/prestatore a titolo di rivalsa.

La Cassazione qui, condivisibilmente, evidenzia che il riferimento del c. 5 dell'art. 26 del d.P.R. 633/1972 all'art. 23 del medesimo decreto ha la funzione, in capo al cessionario/committente, di neutralizzare la registrazione dallo stesso compiuta nel registro degli acquisti a norma dell'art. 25 del decreto IVA, ciò al fine di rendere contabilmente evidente il venire meno del diritto alla detrazione di cui alla fattura registrata.

Il meccanismo contabile di cui al c. 2 dell'art. 26 citato “… mira, tra due soggetti passivi che non soggiacciono con riferimento alla medesima operazione a limitazioni del diritto alla detrazione, ad annullare, da un lato, l'originario debito di imposta del soggetto attivo dell'operazione e, dall'altro, l'originaria detrazione operata dal soggetto passivo. In capo al primo, a seguito dell'emissione della nota di variazione, sorge il diritto a detrarre dall' imposta dovuta, ai sensi del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, un importo pari a quello a suo tempo annotato a debito nel registro delle fatture di cui all'art. 23 ed oggetto della variazione; il secondo, al quale spettava il diritto alla detrazione per avere annotato a suo tempo nel registro degli acquisti l'Iva addebitatagli a titolo di rivalsa, è tenuto a compiere l'operazione inversa (v. Cass. 2019/26894).

La necessità che il cessionario/committente rettifichi la detrazione operata va in ogni caso coordinato sia con la Direttiva IVA 112/2006 per la quale “La detrazione operata inizialmente è rettificata quando è superiore o inferiore a quella cui il soggetto passivo ha diritto” (v. artt. 184 e 185), sia con la giurisprudenza unionale della Corte UE la quale, da ultimo nel caso World Comm Trading in C-684/18, ha ribadito che il meccanismo della rettifica previsto dalle norme ora citate costituisce parte integrante del sistema di detrazione dell'IVA e mira ad aumentare la precisione delle detrazioni così da assicurare la neutralità dell'imposta (v. anche C-107/13, p. 48 e 50).

In tal modo, osserva la Corte UE, il combinato disposto degli artt. 184 e 185 citati richiede che, quando il mutamento di uno degli elementi inizialmente presi in considerazione per il calcolo delle detrazioni rende necessaria una rettifica, il calcolo dell'importo di tale rettifica deve far sì che l'importo delle detrazioni eseguite corrisponda a quello a cui il soggetto passivo avrebbe avuto diritto se tale mutamento fosse stato considerato inizialmente” (v. C-186/15, p. 47).

Osservazioni

La posizione della Corte di giustizia UE in tema di acconto sul prezzo

Di rilievo le argomentazioni sviluppate della Corte di giustizia UE che in alcuni precedenti ha escluso l'assoggettamento ad IVA nei casi in cui pur essendoci il versamento di un “acconto” sul prezzo, motivando sulla base dell'assenza di una chiara e precisa individuazione degli elementi pertinenti del fatto generatore, ossia della futura cessione dei beni o della futura prestazione di servizi, non essendo questi noti né designati con precisione al momento dell'acquisto.

Argomentando circa il contenuto dell'art. 63 della Dir. IVA 112/2006 per il quale “il fatto generatore dell'imposta si verifica e l'imposta diventa esigibile nel momento in cui è effettuata la cessione di beni o la prestazione di servizi”, la Corte UE ha sostenuto che i due momenti del fatto imponibile e del fatto esigibile sono, di regola, ontologicamente uniti e non dissociabili sulla scorta della definizione normativamente data.

Ha poi evidenziato che il fatto generatore, l'esigibilità e l'obbligo di pagamento dell'IVA rappresentano tre tappe successive nel processo che conduce alla riscossione dell'IVA, nel senso che l'insorgenza dell'obbligo di pagamento dell'IVA presuppone che l'imposta suddetta sia divenuta esigibile, mentre tale esigibilità è a sua volta subordinata al previo verificarsi del fatto generatore (sulla necessità di distinguere tali tre nozioni v. C‑10/92, p. da 21 a 24).

Una “deroga”, però, la si rinviene nell'art. 65 della direttiva citata, la quale “retrocede” il solo fatto esigibile dell'IVA, con conseguente obbligo di fatturazione, ad un momento antecedente la cessione o la prestazione, non ancora verificatesi, nell'ipotesi di pagamento di acconti in danaro, ma anche in natura.

Se è vero che il successivo art. 66 della direttiva consente agli Stati membri di scindere il momento del fatto generatore da quello dell'esigibilità dell'imposta, consentendo di “posticipare” quest'ultimo e di ancorarlo o al pagamento del corrispettivo o al momento di fatturazione, va però anche sottolineato che una caratterizzazione più puntuale dei due momenti, come evidenziato dalla Corte UE in alcuni suoi precedenti, può rivelare sia ipotesi in cui l'esigibilità (e l'obbligo di fatturazione) venga in rilievo a prescindere dalla realizzazione effettiva di un'operazione (v. ad es. C-549/11, ed anche C-520/10 e C-419/02), sia ipotesi, al contrario, di assenza del momento esigibile pur a fronte del pagamento di un acconto sul prezzo.

In particolare, tale ultimo caso è stato affrontato dalla Corte UE nella causa BUPA Hospitals in C-419/02, in merito al rifiuto delle autorità fiscali del Regno Unito di autorizzare tale società, operante nel campo della gestione di strutture ospedaliere private, ad operare la detrazione dell'imposta pagata a monte su acconti versati per cessioni future da effettuarsi da parte di altre due società del gruppo BUPA.

Dal fatto, brevemente, emerge che alla BUPA Hospitals, in conformità ad una decisione della Corte di appello britannica, per diversi anni ha potuto cedere ad aliquota IVA zero medicinali e protesi ai pazienti degli ospedali da questa gestiti, permettendole in tal modo di recuperare l'imposta versata a monte sull'acquisto dei prodotti ricevuti dai propri fornitori per mezzo della detrazione d'imposta.

A seguito della decisione del Governo inglese di legiferare rapidamente per modificare la norma e rendere tali cessioni “esenti”, con conseguente esclusione in capo alla società interessata in termini di detrazione d'imposta, il gruppo BUPA decise di fare ricorso ad “accordi di pagamento anticipato” (v. p. 98 e ss. delle conclusioni dell'avv. gen. in C-419/02) stipulando contratti d'acquisto di notevoli quantità di beni e di servizi in previsione della modifica normativa, chiedendo altresì di beneficiare di uno sgravio dell'IVA versata a monte in corrispondenza del periodo durante il quale il pagamento era stato effettuato o una fattura emessa, anche se la cessione si sarebbe verificata in un esercizio contabile successivo.

La Corte UE, condivisibilmente, osservava che “la pietra angolare degli accordi posti in essere dal gruppo BUPA risiede nella fatturazione dell'IVA all'atto del pagamento anticipato” di cui all'art. 10, n. 2, c. 2, della Sesta direttiva IVA 77/388, il chè richiedeva di esaminare se pagamenti anticipati come quelli della causa principale rientrassero o meno nel campo di applicazione della norma citata.

Osservava, quindi, che l'art. 10, n. 2, c. 2, della Sesta direttiva, ai sensi del quale nel caso di pagamento di acconti anteriori alla cessione di beni o alla prestazione di servizi l'IVA diventa esigibile all'atto della riscossione, a concorrenza dell'importo riscosso, costituisce una deroga alla previsione del primo comma di tale norma e, in quanto tale, deve essere oggetto di una interpretazione restrittiva.

Posto che il fatto generatore dell'IVA è definito dalla norma (art. 10, n. 1, lett. a)), come quel “momento” in presenza del quale si considerano realizzate le condizioni di legge necessarie per l'esigibilità dell'imposta, la quale può rivelarsi “nello stesso tempo o dopo l'avverarsi del fatto generatore ma, salvo disposizione contraria, non prima di questo”, e dato altresì che l'art. 10, n. 2, c. 2, prevede che, nel caso di versamento di un acconto, l'IVA sia esigibile senza che la cessione o la prestazione sia stata ancora effettuata, affinché l'imposta possa diventare esigibile occorre che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già conosciuti e che, nel momento del versamento dell'acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati (C-419/02, p. 48).

Al riguardo, nelle conclusioni in causa dell'avv. gen. M. Poiares Maduro (p. 100) si sostiene che “un mero pagamento in acconto per beni genericamente indicati in un elenco dal quale l'acquirente può scegliere in futuro uno o alcuni o nessuno di essi, in circostanze in cui l'acquirente può recedere dal contratto unilateralmente in qualsiasi momento e recuperare l'importo versato e ancora non speso, non è sufficiente a caratterizzare quel pagamento come acconto” nel senso previsto dal c. 2 dell'art. 10, n. 2, della Dir. 77/388.

Così ragionando, ha sostenuto l'esclusione dal campo di applicazione dell'IVA degli accordi di prepagamento sottoscritti dalla BUPA, “nella misura in cui possono essere sostanzialmente classificati dal giudice remittente come contratti di vendita futura”.

Alle medesime conclusioni la Corte UE è giunta anche in C-270/09, nel quale si discuteva intorno al corretto inquadramento ai fini dell'IVA di determinati servizi resi da una società inglese nell'ambito dell'acquisizione di diritti di godimento a tempo ripartito (timesharing) di alloggi per vacanze situati in complessi residenziali turistici ubicati nell'UE.

Tale società aveva creato un programma di opzioni (nell'ambito del prodotto di multiproprietà) e fondato un circolo avente come oggetto principale quello di garantire ai suoi membri il diritto di prenotare ogni anno alloggi vacanza ed altri vantaggi accessori per specifici periodi dell'anno, nel corso del periodo di trent'anni in base al regime stabilito nello statuto.

Non vi erano oneri di ingresso per diventare membro del sistema opzioni ed entrare nel circolo, tuttavia, al momento della domanda di adesione, ogni nuovo membro ordinario doveva acquistare dei punti-diritti, ed ai membri era riconosciuto ogni anno un credito in punti corrispondente ai loro punti‑diritti, convertibili con l'occupazione di alloggi e per periodi di loro scelta, entro il limite di valore dei loro punti, conversione però subordinata alla disponibilità dell'alloggio nel periodo di tempo e nella struttura ricettiva desiderati.

Il giudice del rinvio chiedeva quindi alla Corte di valutare sotto il profilo dell'IVA le prestazioni di servizi fornite dalla società sotto forma di attribuzione di punti‑diritti ai soci del circolo.

La Corte, condivisibilmente, richiamando un passaggio argomentativo dell'avv. gen. Trstenjak (p. 74 e ss. delle conclusioni) ha ragionato cercando di individuare il “se” ed il “quando” dell'esistenza del nesso sinallagmatico tra le controprestazioni del socio membro e della società proprietaria degli alloggi, ai fini dell'onerosità della prestazione e quindi del suo assoggettamento ad IVA.

La Corte, pur osservando che “i punti cui hanno diritto i titolari di «punti-diritti» riflettono il valore di un soggiorno in una determinata unità abitativa o di altri servizi forniti dalla società, pur costituendo in un certo senso il mezzo di pagamento che i clienti utilizzano, in particolare, per pagare l'acquisizione di un diritto di godimento temporaneo di un'unità abitativa”, ha evidenziato (richiama C-37/08, p. 29) che, tuttavia, l'intento finale del cliente non è già quello di raccogliere punti, bensì “di usufruire temporaneamente di un'unità abitativa o di ottenere altri servizi selezionati in un momento successivo”.

Per i clienti l'acquisto in sé dei punti-diritti nell'ambito del programma di opzioni non può avere alcun valore intrinseco, non essendo questo l'obiettivo del cliente, dovendosi invece considerare “l'acquisizione di siffatti diritti nonché la conversione dei punti quali operazioni preliminari realizzate allo scopo di poter aspirare ad un diritto di godimento temporaneo di un'unità abitativa, di un soggiorno in un albergo o di un altro servizio”.

Il socio/acquirente dei punti-diritti, quindi, riceve la controprestazione della società, prevista a seguito del suo pagamento iniziale, solo al termine di detta conversione, nel corso e per effetto della quale egli sarà in grado di individuare il tempo ed il luogo in cui trascorrere le proprie vacanze, previa disponibilità dell'alloggio individuato, rivelando, così, solo in quel momento e non già prima, quel “nesso diretto” fra il servizio fornito dal prestatore ed il controvalore ricevuto (v., tra i tanti, C-102/86, p. 11 e 12, nonché C-16/93, p. 14).

Di conseguenza il momento di esigibilità dell'imposta (art. 63 della Dir. IVA) emergerebbe solo al momento della conversione dei punti-diritti in precedenza acquisiti e non anche prima, men che meno qualificando come “acconto” il loro acquisto (art. 65 della Dir. IVA), retrocedendo tale “momento” alla fase di acquisto, posto che (v. p. 75 delle conclusioni dell'avv. gen.) affinché l'imposta possa diventare esigibile in una tale circostanza occorre che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già conosciuti e che, nel momento del versamento dell'acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati, escludendo da IVA gli acconti versati per cessioni di beni o per prestazioni di servizi non ancora chiaramente individuate (v. C-419/02, p. 50, nonché C-549/11, p. 28 e ss).

Ciò, altresì, perché il cliente al momento dell'acquisto dei punti-diritti non è in grado di conoscere con precisione le unità abitative o gli altri servizi disponibili nel corso di un determinato anno né quale sia il valore in termini di punti di un soggiorno in tali unità abitative o di tali servizi, creandosi in tal modo una “situazione di incertezza”, tanto più che è la società a stabilire il punteggio in graduatoria degli immobili, il che implica che la scelta del cliente è a priori limitata agli immobili che sono alla sua portata ed alla luce dei punti di cui dispone (p. 29 della sentenza e 76 delle conclusioni).

In base a tali argomentazioni è stata correttamente esclusa la possibilità di qualificare tali acquisti quali acconti da assoggettare ad IVA, in difetto dei requisiti essenziali ai fini dell'esigibilità dell'imposta.

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