Secondo la Suprema Corte, i motivi di impugnazione, strettamente connessi, potevano trattarsi congiuntamente e non meritavano accoglimento.
L'ultima censura, intanto, era inammissibile, in quanto non conferente rispetto al decisum.
Dalla lettura complessiva della sentenza impugnata era infatti agevole rilevare che la CTR, in realtà, aveva ben compreso che, nel merito, l'Agenzia delle Entrate aveva contestato che la Società avesse dimostrato che la controllata estera aveva una effettiva autonomia strategica e decisionale, ma gli stessi giudici avevano comunque ritenuto tale requisito (dell'autonomia gestionale) irrilevante ai fini della disapplicazione del regime CFC, anche considerato che entrambe le disposizioni citate dall'Agenzia - art. 167, comma 5, del TUIR e art. 5, comma 3, del D.M. n. 429/2001 - fanno riferimento esclusivamente all' “effettivo svolgimento di un'attività commerciale, accompagnato da una struttura organizzativa idonea”.
In altri termini, rileva la Cassazione, la Commissione Tributaria Regionale aveva rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate non perché aveva dato per pacifico il requisito dell'autonomia decisionale, ma perché, alla luce del quadro normativo di riferimento, lo aveva ritenuto irrilevante.
In definitiva, quindi, il fatto ritenuto provato dalla CTR era che la controllata malese fosse una società realmente operativa nell'ambito territoriale di competenza.
Ciò posto, e fermo restando l'accertamento in fatto, per come congruamente motivato dal Giudice di appello, secondo la Corte, anche la prima censura sopra evidenziata andava comunque disattesa, perché infondata.
Rilevano a tal proposito i giudici di legittimità che la ratio della normativa antielusiva di cui all'art. 167 del d.P.R. 27 dicembre 1986 n. 917 è quella di contrastare i fenomeni di delocalizzazione all'estero delle imprese nazionali, assumendosi, sostanzialmente, che gli utili prodotti da parte di società non residenti, poste in Stati o territori aventi fiscalità “privilegiata”, vengano imputati al partecipante italiano, come se la società fosse una società di persone “trasparente”.
A tal fine, il quinto comma del citato articolo 167, nel testo vigente ratione temporis, prevedeva, ai fini della disapplicazione di tale regime di tassazione “per trasparenza”, alternativamente, due esimenti.
In particolare, per quello che qui specificamente interessava, alla lettera a) veniva espressamente prevista la disapplicazione della normativa CFC se il soggetto residente avesse dimostrato che la società o altro ente residente svolgeva un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento.
Secondo la Cassazione, appariva evidente, dal mero tenore testuale della norma, l'intento del legislatore di contrasto all'abuso dello strumento societario in ambito internazionale attraverso il ricorso a società controllate di natura fittizia prive di alcuna struttura realmente operativa nel territorio estero, prevendendosi, di contro, la disapplicazione della normativa CFC allorquando fosse provato l'esercizio di un'attività economica effettiva da parte della controllata estera, mediante la produzione di documentazione che dimostrasse l'esistenza di un fenomeno di delocalizzazione reale dell'impresa.
In tale contesto, il requisito dell'autonomia decisionale della controllata estera rispetto alla controllante residente in Italia non assumeva dunque carattere decisivo ai fini dell'applicazione dell'esimente, in quanto estraneo a un'interpretazione sia strettamente letterale che teleologica della norma che la prevede.
Rileva a tal proposito la Corte che è infatti la stessa normativa CFC a presupporre, quale sua condizione applicativa, l'esistenza di un determinato rapporto di controllo tra la controllante italiana e la controllata estera (art. 167 cit., secondo comma), con la conseguenza che un'interpretazione che ritenesse tale presupposto anche condizione necessaria dell'ipotesi di disapplicazione sarebbe stata illogica e contraddittoria.
Alla luce di tali considerazioni, concludeva la Cassazione, la ricostruzione del quadro normativo di riferimento e l'interpretazione datane dalla CTR (nel senso che, ai fini dell'esimente di cui al quinto comma dell'art. 167 del d.P.R. n. 917/1986, non era necessaria anche l'autonomia gestionale della controllata estera) erano in linea con la ratio legis e trovavano anche, conferma nella giurisprudenza comunitaria (v. CGUE sentenza 12.09.20016, causa C-196/04) e di legittimità (vedi, tra le altre, Cass., 16.12.2015, n. 25281), le quali, in tema di contrasto all'abuso dello schermo societario in ambito internazionale, hanno, sempre, dato rilievo alle mere costruzioni di puro artificio, mentre, di contro, hanno escluso l'applicazione della misura impositiva antielusiva nel caso in cui, da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è comunque impiantata nello Stato di stabilimento e vi eserciti attività economiche effettive.