Disciplina in materia di controlled foreign companies

02 Marzo 2023

La ratio della normativa antielusiva in tema di controlled foreign companies è quella di contrastare i fenomeni di delocalizzazione all'estero delle imprese nazionali, assumendosi, sostanzialmente, che gli utili prodotti da parte di società non residenti, poste in Stati o territori aventi fiscalità “privilegiata”, vengano imputati al partecipante italiano, come se la società fosse una società di persone “trasparente”. Il fine della norma è il contrasto all'abuso dello strumento societario in ambito internazionale attraverso il ricorso a società controllate di natura fittizia, prive di alcuna struttura realmente operativa nel territorio estero.
Massima

Viene quindi prevista la disapplicazione della normativa CFC quando venga provato l'esercizio di un'attività economica effettiva da parte della controllata estera. Il requisito dell'autonomia decisionale della controllata estera rispetto alla controllante residente in Italia non assume carattere decisivo ai fini dell'applicazione dell'esimente.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 36050/2022, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di disciplina sulle controlled foreign companies.

Nel caso di specie, la società contribuente aveva presentato istanza di interpello ai fini della disapplicazione della normativa Controlled Foreign Companies (CFC) di cui all'art. 167 del d.P.R. n. 917/1986, in relazione ai redditi prodotti, per l'anno 2008, da una propria controllata con sede in Malesia.

La Società aveva allegato documentazione diretta a dimostrare il requisito dell'esercizio di un'attività economica effettiva da parte della controllata malese, al fine di dimostrare l'esimente di cui all'art. 167, quinto comma, del TUIR.

L'Agenzia delle Entrate aveva espresso parere contrario alla disapplicazione della normativa CFC.

La società contribuente aveva allora impugnato il rigetto dell'istanza di interpello e il ricorso era stato accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale, con decisione poi anche confermata dalla Commissione Tributaria Regionale.

Il giudice di appello aveva in particolare rilevato che la normativa di riferimento faceva esclusivo riferimento all'effettivo svolgimento di un'attività commerciale, accompagnato da una struttura organizzativa idonea allo svolgimento dell'attività, mentre il riferimento all'autonomia decisionale, rivendicato dall'Agenzia, era contenuto nell'art. 73, comma 5-bis, del TUIR, applicabile solo nella fase dell'accertamento.

Il giudice di merito accertava dunque che la società malese era società dotata di autonoma struttura, realmente operativa nell'ambito territoriale di competenza, e riteneva tale fatto integrante presupposto sufficiente per la disapplicazione del regime CFC.

La questione

Avverso la sentenza l'Agenzia delle Entrate proponeva infine ricorso per cassazione, deducendo, per quanto di interesse, la violazione e falsa applicazione degli articoli 73 e 167 del d.P.R. 917/1986, ed evidenziando l'errore in cui era a suo avviso incorsa la Commissione Tributaria Regionale nel ritenere legittima la richiesta, formulata dalla contribuente, di disapplicazione della disciplina di cui all'art. 167 citato, escludendo la necessità di valutazione, anche in sede di interpello, del presupposto essenziale dato dall' “autonomia decisionale” della società controllata estera.

Con altra censura, poi, l'Amministrazione finanziaria censurava l'affermazione della sentenza impugnata secondo cui la società malese costituiva una società dotata di autonoma struttura realmente operativa nell'ambito territoriale di competenza, fatto che integrava il presupposto per la disapplicazione del regime CFC.

Secondo l'Agenzia delle Entrate, la sentenza, su tale punto, era contraddittoria con l'affermazione precedente, per cui l'autonomia decisionale della società controllata non avrebbe costituito elemento essenziale per l'applicazione dell'esimente di cui alla lettera a) del primo comma dell'art. 167 del d.P.R. n. 917/1986.

E, in ogni caso, sempre secondo la ricorrente, la sentenza era comunque priva di qualsiasi autentica motivazione circa l'apprezzamento della sussistenza dell'autonoma struttura della società estera, che, secondo la Commissione Tributaria Regionale, sarebbe stata perfino pacificamente riconosciuta dall'Amministrazione finanziaria, laddove, invece, la risposta dell'Agenzia delle Entrate all'interpello attestava esattamente il contrario.

La soluzione giuridica

Secondo la Suprema Corte, i motivi di impugnazione, strettamente connessi, potevano trattarsi congiuntamente e non meritavano accoglimento.

L'ultima censura, intanto, era inammissibile, in quanto non conferente rispetto al decisum.

Dalla lettura complessiva della sentenza impugnata era infatti agevole rilevare che la CTR, in realtà, aveva ben compreso che, nel merito, l'Agenzia delle Entrate aveva contestato che la Società avesse dimostrato che la controllata estera aveva una effettiva autonomia strategica e decisionale, ma gli stessi giudici avevano comunque ritenuto tale requisito (dell'autonomia gestionale) irrilevante ai fini della disapplicazione del regime CFC, anche considerato che entrambe le disposizioni citate dall'Agenzia - art. 167, comma 5, del TUIR e art. 5, comma 3, del D.M. n. 429/2001 - fanno riferimento esclusivamente all' “effettivo svolgimento di un'attività commerciale, accompagnato da una struttura organizzativa idonea”.

In altri termini, rileva la Cassazione, la Commissione Tributaria Regionale aveva rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate non perché aveva dato per pacifico il requisito dell'autonomia decisionale, ma perché, alla luce del quadro normativo di riferimento, lo aveva ritenuto irrilevante.

In definitiva, quindi, il fatto ritenuto provato dalla CTR era che la controllata malese fosse una società realmente operativa nell'ambito territoriale di competenza.

Ciò posto, e fermo restando l'accertamento in fatto, per come congruamente motivato dal Giudice di appello, secondo la Corte, anche la prima censura sopra evidenziata andava comunque disattesa, perché infondata.

Rilevano a tal proposito i giudici di legittimità che la ratio della normativa antielusiva di cui all'art. 167 del d.P.R. 27 dicembre 1986 n. 917 è quella di contrastare i fenomeni di delocalizzazione all'estero delle imprese nazionali, assumendosi, sostanzialmente, che gli utili prodotti da parte di società non residenti, poste in Stati o territori aventi fiscalità “privilegiata”, vengano imputati al partecipante italiano, come se la società fosse una società di persone “trasparente”.

A tal fine, il quinto comma del citato articolo 167, nel testo vigente ratione temporis, prevedeva, ai fini della disapplicazione di tale regime di tassazione “per trasparenza”, alternativamente, due esimenti.

In particolare, per quello che qui specificamente interessava, alla lettera a) veniva espressamente prevista la disapplicazione della normativa CFC se il soggetto residente avesse dimostrato che la società o altro ente residente svolgeva un'effettiva attività industriale o commerciale, come sua principale attività, nel mercato dello Stato o territorio di insediamento.

Secondo la Cassazione, appariva evidente, dal mero tenore testuale della norma, l'intento del legislatore di contrasto all'abuso dello strumento societario in ambito internazionale attraverso il ricorso a società controllate di natura fittizia prive di alcuna struttura realmente operativa nel territorio estero, prevendendosi, di contro, la disapplicazione della normativa CFC allorquando fosse provato l'esercizio di un'attività economica effettiva da parte della controllata estera, mediante la produzione di documentazione che dimostrasse l'esistenza di un fenomeno di delocalizzazione reale dell'impresa.

In tale contesto, il requisito dell'autonomia decisionale della controllata estera rispetto alla controllante residente in Italia non assumeva dunque carattere decisivo ai fini dell'applicazione dell'esimente, in quanto estraneo a un'interpretazione sia strettamente letterale che teleologica della norma che la prevede.

Rileva a tal proposito la Corte che è infatti la stessa normativa CFC a presupporre, quale sua condizione applicativa, l'esistenza di un determinato rapporto di controllo tra la controllante italiana e la controllata estera (art. 167 cit., secondo comma), con la conseguenza che un'interpretazione che ritenesse tale presupposto anche condizione necessaria dell'ipotesi di disapplicazione sarebbe stata illogica e contraddittoria.

Alla luce di tali considerazioni, concludeva la Cassazione, la ricostruzione del quadro normativo di riferimento e l'interpretazione datane dalla CTR (nel senso che, ai fini dell'esimente di cui al quinto comma dell'art. 167 del d.P.R. n. 917/1986, non era necessaria anche l'autonomia gestionale della controllata estera) erano in linea con la ratio legis e trovavano anche, conferma nella giurisprudenza comunitaria (v. CGUE sentenza 12.09.20016, causa C-196/04) e di legittimità (vedi, tra le altre, Cass., 16.12.2015, n. 25281), le quali, in tema di contrasto all'abuso dello schermo societario in ambito internazionale, hanno, sempre, dato rilievo alle mere costruzioni di puro artificio, mentre, di contro, hanno escluso l'applicazione della misura impositiva antielusiva nel caso in cui, da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi, risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è comunque impiantata nello Stato di stabilimento e vi eserciti attività economiche effettive.

Osservazioni

Ai sensi dell'art. 167, comma 1, del TUIR, se un soggetto residente in Italia detiene il controllo di un'impresa, società o altro ente residente o localizzato in stati o territori a regime fiscale privilegiato, i redditi conseguiti dal soggetto estero partecipato sono imputati ai soggetti residenti in proporzione alle partecipazioni detenute e tassati in capo a questi ultimi in via separata, indipendentemente dalla loro percezione (c.d. regime Cfc).

Tali disposizioni si applicano peraltro anche per le partecipazioni in soggetti non residenti per i redditi derivanti da loro stabili organizzazioni assoggettate ai citati regimi fiscali privilegiati.

Secondo quanto disposto dal comma 4 dell'art. 167 del TUIR, gli Stati o territori con regime fiscale privilegiato sono individuati con decreto del Ministro delle Finanze, facendosi in questo caso riferimento al D.M. 21 novembre 2001, nel quale sono disciplinate tre diverse fattispecie:

  • L'art. 1, che individua gli Stati e territori che sono considerati sempre e comunque a fiscalità privilegiata;
  • L'art. 2, che elenca una serie di Stati e territori qualificati come paesi a fiscalità privilegiata, con l'esclusione di talune specifiche società che non beneficiano di regimi di tassazione agevolata;
  • L'art. 3, che elenca una serie di Stati e territori che non sono da considerare nel loro complesso come paradisi fiscali, eccezion fatta per talune tipologie di società che, in virtù dell'esercizio di determinate attività, usufruiscono di regimi fiscali privilegiati.

Il comma 2 del citato art. 1 equipara infine alle società elencate nel comma 1 dello stesso articolo, quelle insediate negli Stati e territori che beneficiano di regimi fiscali agevolati, sostanzialmente analoghi a quelli riportati nel predetto primo comma, in virtù di accordi o provvedimenti della locale amministrazione finanziaria.

Tanto premesso, l'interpretazione della pronuncia in commento in merito a cosa si debba esattamente intendere per costruzione di puro artificio è stata fatta propria anche dall'Amministrazione finanziaria nei propri documenti di prassi (v. Circolare n.18/E del 27.12.2021), emessi a seguito dell'entrata in vigore dall'articolo 4 del d.lgs. 29 novembre 2018 n. 142 (Decreto ATAD), attuativo della Direttiva UE 2016/1164 (Direttiva ATAD), recante norme di contrasto alle pratiche di elusione fiscale attuate a livello transnazionale, che, nell'introdurre modifiche all'art.167 TUIR ha lasciato immutata l'esimente di cui alla lettera a) del comma 5.

Si evidenzia inoltre che, con la modifica dell'ultimo periodo del comma 5 dell'art. 167 del TUIR, è stato poi eliminato l'obbligo di interpello, ex art. 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, ai fini della disapplicazione della disciplina CFC (controlled foreign companies) in caso di partecipazioni in imprese estere controllate.

Tale obbligo è stato sostituito dalla mera facoltà, per il socio di controllo residente nel territorio dello Stato, di presentare interpello ai sensi dell'art. 21 della Legge n. 413/1991, al fine di ottenere il preventivo parere dell'Amministrazione finanziaria in merito alla disapplicazione della stessa normativa.

È stato così operato un sostanziale allineamento con quanto disposto dall'articolo 110, comma 11, del medesimo Testo unico in merito alla indeducibilità dei costi derivanti da operazioni con soggetti residenti o localizzati in paradisi fiscali, facendo sì che la dimostrazione delle esimenti previste nel comma 5 dell'articolo 167 del TUIR possa avvenire, a scelta del contribuente, in via preventiva, oppure successivamente, in fase di eventuale controllo.

In quest'ultima ipotesi, la norma stabilisce che l'avviso di accertamento di imposta o maggiore imposta non può comunque essere notificato se prima non viene concesso al contribuente un termine di 90 giorni per presentare le prove utili a dimostrare che, nella specie, ricorra una delle esimenti di legge.

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