La Corte Costituzionale conferma, con paletti, la legittimità delle presunzioni da accertamenti bancari

Giovambattista Palumbo
15 Marzo 2023

Non è manifestamente irragionevole la doppia presunzione che dai prelevamenti bancari ingiustificati, eseguiti dall'imprenditore, inferisce costi e ricavi occulti e pertanto reddito imponibile, oggetto di rettifica e di accertamento da parte del fisco.
Massima

Tale presunzione si iscrive nel più ampio contesto della normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del danaro contante al fine di contrastare l'evasione o l'elusione fiscale. Una accentuazione così marcata del favor per il fisco deve comunque essere bilanciata da un regime della prova contraria da parte del contribuente estesa ad ogni presunzione, anche semplice, potendo questi eccepire la incidenza percentuale dei costi relativi, che, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati.

Il caso

La Commissione Tributaria Provinciale di Arezzo aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nella parte in cui la stessa norma pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell'imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.

In punto di fatto, il giudice rimettente riferiva che l'Agenzia delle Entrate, a seguito di indagini finanziarie e, segnatamente, sulla scorta delle risultanze di conti correnti bancari recanti versamenti per euro 167.588,65 e prelevamenti per euro 117.958,35, entrambi non giustificati, aveva accertato, per l'anno 2013, una maggiore base imponibile di un imprenditore individuale sia per le imposte dirette che per l'IVA.

L'avviso di accertamento veniva impugnato dal contribuente, il quale deduceva che l'ufficio, nel rideterminare l'imponibile per la quantificazione delle imposte dirette, sommando i versamenti e i prelevamenti delle movimentazioni sui propri conti correnti, non aveva tenuto conto, se non in parte, delle giustificazioni dallo stesso fornite per superare la presunzione di cui all'art. 32 cit.

La Commissione Tributaria Provinciale evidenziava che la detta norma pone una presunzione relativa, che, in accordo con la giurisprudenza dominante, può essere superata solo mediante «prove rigorose, e non con presunzioni», per la quale i prelevamenti sul conto corrente, ove superino gli importi di euro 1.000,00 giornalieri e comunque di euro 5.000,00 mensili, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell'imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario.

Osservava inoltre il giudice a quo che analoghe questioni di legittimità costituzionale, con riferimento alla presunzione relativa ai prelevamenti, erano state sollevate già in passato e, tuttavia, la Consulta, con la sentenza n. 225 del 2005, le aveva dichiarate non fondate, ritenendo, per un verso, non manifestamente arbitraria la presunzione e, per un altro, non violato il principio di capacità contributiva, in ragione della possibilità di dedurre in via forfettaria i costi sostenuti per la produzione dei ricavi non dichiarati.

La stessa Corte Costituzionale, con la successiva sentenza n. 228 del 2014, aveva invece ritenuto fondate le analoghe questioni sollevate con riferimento all'estensione, per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della legge 30 dicembre 2004, n. 311, della presunzione di equiparazione dei prelievi ai compensi con riguardo ai professionisti, rilevando che l'attività degli stessi è caratterizzata dalla preminenza dell'apporto del lavoro proprio rispetto all'apparato organizzativo e che la previsione, per i medesimi professionisti, da parte del legislatore, di sistemi di contabilità semplificata rendeva difficile distinguere l'origine, correlata a spese per la vita personale o per l'attività professionale, delle spese effettuate dal contribuente.

La questione

Tutto ciò premesso, il giudice a quo, in punto di non manifesta infondatezza, per quanto di interesse, assumeva la possibile violazione, da parte della norma censurata, dell'art. 3 Cost., sul piano dell'intrinseca ragionevolezza, atteso che:

  • in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d'impresa quanto a spese personali, specie nell'ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato (come era anche il contribuente nel giudizio presupposto) per il regime di contabilità semplificata;
  • l'acquisizione di fattori produttivi, in ogni caso, avrà in ipotesi prodotto entrate che sono state contabilizzate, e quindi dichiarate, oppure, in caso contrario, già considerate nell'accertamento quali versamenti ingiustificati, con conseguente effetto di «duplicare la posta», se sommati i prelevamenti.

A fondamento del dubbio di legittimità costituzionale, inoltre, la CTP rimettente sottolineava che, a differenza di quanto affermato dalla già citata sentenza n. 225 del 2005, la giurisprudenza di legittimità non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione, anche qualora l'Amministrazione finanziaria abbia operato un accertamento analitico-contabile.

La Corte Costituzionale, prima di esaminare le questioni sollevate, ritiene opportuno premettere, in estrema sintesi, il quadro di riferimento, normativo e giurisprudenziale, nel quale si colloca la disposizione censurata, ossia l'art. 32, primo comma, numero 2), del d.P.R. n. 600/1973, secondo cui «[i] dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell'art. 33, secondo e terzo comma, o acquisiti ai sensi dell'articolo 18, comma 3, lettera b), del decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504, sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli articoli 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell'ambito dei predetti rapporti od operazioni per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili».

Tale norma - che è stata in seguito oggetto di diversi interventi normativi e di giurisprudenza costituzionale - è stata inserita quale strumento per contrastare efficacemente fenomeni di evasione, in un contesto storico nel quale operava ancora il cosiddetto segreto bancario.

Sotto un primo profilo, rileva la Corte, la disposizione esprime una presunzione - non “colpita” dalle questioni di legittimità costituzionale in esame - ritenuta comunemente conforme all'id quod plerumque accidit, per la quale i versamenti sul conto corrente, salvo prova contraria del contribuente, ove non dichiarati o risultanti dalle scritture contabili, costituiscono ricavi "occulti" sottratti alla tassazione.

Veniva invece in rilievo, ai fini del giudizio in esame, sotto il profilo sia della violazione del canone di ragionevolezza che del principio di capacità contributiva, la previsione della norma laddove pone la presunzione secondo cui anche i prelevamenti sul conto, se non risultanti dalle scritture contabili dell'imprenditore e salvo che quest'ultimo ne indichi il beneficiario, costituiscono, per un pari importo, ricavi.

Nell'intento di contrastare più efficacemente gravi fenomeni di evasione, il legislatore ha in sostanza introdotto una sorta di duplice meccanismo inferenziale, in forza del quale se un imprenditore effettua un prelievo non risultante dalla contabilità lo stesso deve ritenersi compiuto per sostenere costi "occulti", che, a propria volta, hanno prodotto pari ricavi "occulti", salvo che il contribuente indichi il beneficiario del prelievo.

Alcune questioni afferenti la legittimità costituzionale, rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 53 Cost., della presunzione di equiparazione dei prelievi ai ricavi espressa dalla norma censurata, ricorda la Corte, sono già state esaminate nella citata sentenza n. 225 del 2005, laddove, nel dichiarare non fondate le questioni sollevate, è stata considerata, innanzitutto, la lamentata violazione dell'art. 53 Cost., rispetto alla quale è stata ritenuta sostanzialmente erronea la premessa interpretativa sulla quale si era fondata la Commissione tributaria rimettente, poiché, nell'ambito di un accertamento induttivo "puro", la giurisprudenza di legittimità aveva già chiarito che, in detta ipotesi, nel rideterminare i redditi con l'atto impositivo, gli uffici finanziari devono considerare, in conformità al principio di capacità contributiva, non solo i maggiori ricavi, ma anche l'incidenza percentuale dei costi relativi, da detrarre dall'ammontare dei prelievi non giustificati.

La medesima sentenza n. 225 del 2005 aveva poi escluso anche la dedotta lesione del canone di ragionevolezza, sottolineando la non manifesta arbitrarietà della previsione censurata, laddove assume, mediante una presunzione suscettibile di prova contraria, che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all'esercizio dell'attività d'impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile.

L'art. 32 del d.P.R. n. 600/1973, infine, nella parte in cui pone la presunzione di equiparazione tanto dei versamenti a redditi "occulti", quanto dei prelevamenti a ricavi non dichiarati, è stato modificato dal D.L. n. 193/2016, come convertito, che ha limitato - al duplice scopo di semplificare l'attività di accertamento e di agevolare i contribuenti nella complessa prova contraria da fornire a fronte delle movimentazioni di minore rilievo - l'operare della stessa ai soli prelevamenti per importi superiori a euro 1.000,00 giornalieri e, nel complesso, in ogni caso, a euro 5.000,00 mensili.

Tutto ciò premesso, secondo la Consulta, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Commissione Tributaria Provinciale non erano fondate, essendo possibile, nei termini di seguito indicati, un'interpretazione adeguatrice.

La soluzione giuridica

Rileva la Corte Costituzionale che la disposizione censurata pone, in favore del fisco, una presunzione legale che muove dall'utilizzazione di «dati ed elementi» acquisiti a seguito di indagini finanziarie per fondare su di essi (o anche su di essi), sia che si tratti di «prelevamenti» (o prelievi), che di «importi riscossi» (cioè versamenti), relativi, come visto, gli uni e gli altri ad operazioni per importi superiori a euro 1.000,00 giornalieri e, comunque, a euro 5.000,00 mensili, le rettifiche delle dichiarazioni dei redditi, determinati in base alle scritture contabili, delle persone fisiche e non, di cui agli artt. 38, 39 e 40 dello stesso d.P.R. n. 600/1973, e gli accertamenti d'ufficio, di cui al successivo art. 41.

Si tratta di una presunzione a carattere relativo e non già assoluto, perché opera solo se il contribuente non offre la prova contraria, potendo questi in particolare dimostrare, alternativamente:

  • che di tali dati ed elementi «ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta»;
  • o che essi «non hanno rilevanza allo stesso fine»;
  • oppure che i prelevamenti e gli importi riscossi «risult[a]no dalle scritture contabili»;
  • o, infine, che gli stessi hanno un determinato «soggetto beneficiario», indicato puntualmente dal contribuente.

In mancanza di prova contraria, i prelevamenti e gli importi riscossi sono considerati ricavi e possono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti per determinare il reddito imponibile nel regime delle imposte dirette.

La possibilità della prova contraria che può dare il contribuente, secondo la Consulta, assicura, in principio, la non arbitrarietà della presunzione legale in favore del fisco (come già peraltro ritenuto con la sentenza n. 225 del 2005), dato che il valore presuntivo assegnato dalla legge alle risultanze dei conti, con presunzione sempre suscettibile di prova contraria, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente (cfr., Corte Cost., n. 260/2000).

La CTP rimettente, in particolare, non dubitava della legittimità costituzionale della presunzione quanto ai versamenti bancari ingiustificati, risultanti dai conti del contribuente, imprenditore individuale, essendo indubbio che essi, in mancanza di prova contraria, si presumono essere ricavi occulti ("in nero") dell'attività di impresa.

Il giudice a quo appuntava, invece, i suoi rilievi solo in riferimento ai prelevamenti ingiustificati, risultanti dai conti bancari dello stesso contribuente, rilevando come in tal caso la presunzione legale fosse in realtà duplice.

Anche di tale peculiarità, tuttavia, aveva già tenuto conto la Corte Costituzionale, che, con specifico riferimento alla presunzione scaturente da prelievi bancari ingiustificati, ha parlato di «doppia presunzione» (sentenza n. 225 del 2005) o di «doppia correlazione», tale per cui «in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l'acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati» (sentenza n. 228 del 2014).

La ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) della presunzione legale, fondata su dati di esperienza generalizzati secondo l'id quod plerumque accidit (sentenze n. 269 del 2017, n. 139 del 2010 e n. 346 del 1999), e l'esigenza del rispetto della capacità contributiva (sentenza n. 188/2018) richiedono dunque che una accentuazione così marcata del favor per il fisco sia comunque bilanciata da un regime della prova contraria da parte del contribuente, estesa ad ogni presunzione semplice (art. 2729 del codice civile) ed integrata dalla deducibilità del fatto notorio (art. 115, secondo comma, del codice di procedura civile).

In particolare, nel dichiarare la non fondatezza di analoga questione di legittimità costituzionale, la Corte (sentenza n. 225/2005) ha peraltro ritenuto che il contribuente possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati».

In seguito la stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 228 del 2014), ponendo in comparazione la posizione dei contribuenti imprenditori con quella dei lavoratori autonomi e dei professionisti, ha sì ritenuto, quanto a questi ultimi, che tale «presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza, nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell'ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito», ma ha anche confermato, quanto ai primi, che la presunzione fondata sui prelevamenti bancari è «congruente con il fisiologico andamento dell'attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi».

Sulla scia di questa giurisprudenza la Consulta ribadisce quindi ora, ulteriormente, per un verso, la non manifesta irragionevolezza della «doppia presunzione» che dai prelevamenti bancari ingiustificati, eseguiti dall'imprenditore, inferisce costi e ricavi occulti e pertanto reddito imponibile, oggetto di rettifica e di accertamento da parte del fisco; presunzione che si iscrive nel più ampio contesto della normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del danaro contante al fine di contrastare l'evasione o l'elusione fiscale.

Per altro verso, ribadisce però altresì che, affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), l'interpretazione adeguatrice richiede che il contribuente imprenditore possa comunque sempre articolare la prova contraria presuntiva e, in particolare, eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005).

In questa più mirata prospettiva della idoneità dei prelevamenti bancari ingiustificati a costituire prova di ricavi occulti, la CTP rimettente, come visto, richiamava però la giurisprudenza di legittimità, indicata come prevalente, che parrebbe negare la possibilità per il contribuente imprenditore di offrire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici.

In realtà, rileva la Corte, la giurisprudenza di legittimità ben riconosce la facoltà del contribuente di fornire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici.

La richiamata giurisprudenza ha solo precisato - e qui si innestava il malinteso interpretativo che ha ingenerato i dubbi della CTP rimettente - che la possibilità per il contribuente di fornire, mediante presunzioni semplici, la prova contraria, rispetto alla presunzione legale di cui all' art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non esonera il giudice - peraltro in conformità alle regole generali ritraibili dall'art. 2729 c.c. - dalla precisa individuazione dei dati noti dai quali dedurre quelli ignoti, dalla verifica degli indizi offerti dal contribuente in relazione ai movimenti bancari riscontrati e dalla valutazione della gravità, precisione e concordanza degli stessi.

Si richiede, in definitiva, potremmo aggiungere, naturalmente, che le prove, ancorché presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice.

Del resto, aggiunge la Corte Costituzionale, nel caso in cui si tratti di accertamento induttivo “puro”, per impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, per la generalizzata inattendibilità della stessa) deve sempre riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria. E anzi è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi (cfr., Corte di cassazione, sezione quinta tributaria, ordinanza 29 settembre 2017, n. 22868 e sentenza 28 novembre 2014, n. 25317).

La fattispecie che aveva originato l'incidente di legittimità costituzionale riguardava tuttavia un accertamento analitico-contabile, che, come noto, si caratterizza per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare), e dall'esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come, per l'appunto, le risultanze delle movimentazioni bancarie.

In tali casi proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole "poste" della stessa, implicano che, ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola di cui all'art. 109 TUIR, in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l'onere della prova è a carico del contribuente (cfr., Cass., n. 7025 del 2018).

Però, nell'esaminare la questione della deducibilità dei costi anche a fronte di un accertamento analitico contabile compiuto mediante indagini bancarie, secondo la Consulta, occorre comunque considerare che la disposizione censurata consente all'Amministrazione finanziaria di avvalersi di una presunzione che, quanto all'equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi, come detto, sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch'essi, dalla contabilità dell'imprenditore.

In una tale fattispecie, quindi, tanto che il metodo di accertamento sia analitico-induttivo, quanto induttivo cosiddetto "puro", finirebbe effettivamente con il violare i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva un sistema nel quale fosse consentito alla stessa Amministrazione dimostrare, in virtù di un meccanismo inferenziale di secondo grado, che i prelievi del contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi "occulti", dai quali sono stati prodotti ricavi "occulti", pari ai prelievi in questione, senza che sia possibile la deduzione dei costi sostenuti dall'imprenditore per produrre tali ricavi, secondo una prova contraria per presunzioni offerta (anche) da quest'ultimo.

Da una parte, infatti, da tale sistema deriverebbero esiti irragionevoli, perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvalerebbe chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità, ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile, o ha posto in essere gravi condotte, quale l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.

D'altra parte, la presunzione in esame, quanto ai prelievi bancari recuperati a reddito d'impresa quali ricavi "occulti", si porrebbe in contrasto con il principio della capacità contribuiva, poiché, in mancanza di alcuna deduzione di costi, come desumibile in via presuntiva, per esempio anche con riferimento alle "medie" elaborate dall'Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, finirebbe per tassare, in parte, una ricchezza inesistente (ex plurimis, sentenze n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143/1995, n. 179/1985 e n. 200/1976).

In conclusione, la disposizione censurata in tanto si sottraeva alle censure mosse dalla CTP rimettente in quanto si interpretasse nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi "occulti", scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005).

La Consulta smentisce in sostanza quell'orientamento della Cassazione, secondo cui la considerazione dell'incidenza percentualizzata dei costi corrispondenti alla ricostruzione dei ricavi è applicabile alla rettifica induttiva e non anche a quella fondata su indagini bancarie (cfr., Cass.,n. 1658 del 19 gennaio 2022, Cass. n. 24422 del 05 ottobre 2018, Cass. n. 28580 del 18 ottobre 2021).

Osservazioni

Al di là della specifica sentenza e del caso processuale ivi trattato, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.

Qualora l'accertamento effettuato dall'Amministrazione finanziaria si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l'onere probatorio dell'Amministrazione è soddisfatto, secondo quanto disposto dall' art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti, determinandosi un'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono prive di rilevanza fiscale (cfr., Cass. nn. 22179/2008, 18081/2010, 15857/2016, 4829/2015).

E ciò vale anche in tema di IVA, al fine di superare la presunzione di imponibilità delle operazioni confluite nelle movimentazioni bancarie posta a carico del contribuente dall'art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. n. 633/1972 (cfr., Cass. n. 21303/2013).

La presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari non è peraltro riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dall'art. 38 del d.P.R. n. 600/1973, riguardante l'accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2 (Cass., n. 24402 del 05/08/2022).

Con riguardo agli accertamenti bancari e al regime probatorio a questi collegato, è stato ormai chiarito che, se è vero che devono essere indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli pagamenti, con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi, è allora sicuramente anche vero che, a fronte dell'analiticità nella deduzione del mezzo di prova, o comunque delle allegazioni difensive da parte del contribuente, debba corrispondere una speculare analiticità, da parte del giudice, nell'esaminare quanto dedotto e documentato (cfr., Cass., Ordinanza n. 30786 del 28/11/2018, Cass., n. 15217 del 12/09/2012; Cass., n. 1418 del 22/01/2013; Cass., n. 6595 del 15/03/2013; Cass., n. 20668 del 01/10/2014).

La presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla, in sostanza, soprattutto nei casi di attività di impresa, ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga del conto corrente bancario per effettuare rimesse e prelevamenti inerenti all'esercizio dell'attività imprenditoriale.

Il contribuente può comunque fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici (per la tesi più rigorosa, secondo cui il contribuente, nel fornire la prova contraria, non può invece ricorrere a presunzioni, vedi però Cass., 24 luglio 2012, n. 13035; Cass. 6 ottobre 2010, n. 20735; Cass. 5 dicembre 2007, n. 25365), da sottoporre, in ogni caso, ad attenta verifica da parte del giudice (cfr., Cass., 30 novembre 2011, n. 25502).