Rileva la Corte Costituzionale che la disposizione censurata pone, in favore del fisco, una presunzione legale che muove dall'utilizzazione di «dati ed elementi» acquisiti a seguito di indagini finanziarie per fondare su di essi (o anche su di essi), sia che si tratti di «prelevamenti» (o prelievi), che di «importi riscossi» (cioè versamenti), relativi, come visto, gli uni e gli altri ad operazioni per importi superiori a euro 1.000,00 giornalieri e, comunque, a euro 5.000,00 mensili, le rettifiche delle dichiarazioni dei redditi, determinati in base alle scritture contabili, delle persone fisiche e non, di cui agli artt. 38, 39 e 40 dello stesso d.P.R. n. 600/1973, e gli accertamenti d'ufficio, di cui al successivo art. 41.
Si tratta di una presunzione a carattere relativo e non già assoluto, perché opera solo se il contribuente non offre la prova contraria, potendo questi in particolare dimostrare, alternativamente:
- che di tali dati ed elementi «ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta»;
- o che essi «non hanno rilevanza allo stesso fine»;
- oppure che i prelevamenti e gli importi riscossi «risult[a]no dalle scritture contabili»;
- o, infine, che gli stessi hanno un determinato «soggetto beneficiario», indicato puntualmente dal contribuente.
In mancanza di prova contraria, i prelevamenti e gli importi riscossi sono considerati ricavi e possono essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti per determinare il reddito imponibile nel regime delle imposte dirette.
La possibilità della prova contraria che può dare il contribuente, secondo la Consulta, assicura, in principio, la non arbitrarietà della presunzione legale in favore del fisco (come già peraltro ritenuto con la sentenza n. 225 del 2005), dato che il valore presuntivo assegnato dalla legge alle risultanze dei conti, con presunzione sempre suscettibile di prova contraria, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo di dette risultanze, relative a rapporti facenti capo al contribuente (cfr., Corte Cost., n. 260/2000).
La CTP rimettente, in particolare, non dubitava della legittimità costituzionale della presunzione quanto ai versamenti bancari ingiustificati, risultanti dai conti del contribuente, imprenditore individuale, essendo indubbio che essi, in mancanza di prova contraria, si presumono essere ricavi occulti ("in nero") dell'attività di impresa.
Il giudice a quo appuntava, invece, i suoi rilievi solo in riferimento ai prelevamenti ingiustificati, risultanti dai conti bancari dello stesso contribuente, rilevando come in tal caso la presunzione legale fosse in realtà duplice.
Anche di tale peculiarità, tuttavia, aveva già tenuto conto la Corte Costituzionale, che, con specifico riferimento alla presunzione scaturente da prelievi bancari ingiustificati, ha parlato di «doppia presunzione» (sentenza n. 225 del 2005) o di «doppia correlazione», tale per cui «in assenza di giustificazione deve ritenersi che la somma prelevata sia stata utilizzata per l'acquisizione, non contabilizzata o non fatturata, di fattori produttivi e che tali fattori abbiano prodotto beni o servizi venduti a loro volta senza essere contabilizzati o fatturati» (sentenza n. 228 del 2014).
La ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) della presunzione legale, fondata su dati di esperienza generalizzati secondo l'id quod plerumque accidit (sentenze n. 269 del 2017, n. 139 del 2010 e n. 346 del 1999), e l'esigenza del rispetto della capacità contributiva (sentenza n. 188/2018) richiedono dunque che una accentuazione così marcata del favor per il fisco sia comunque bilanciata da un regime della prova contraria da parte del contribuente, estesa ad ogni presunzione semplice (art. 2729 del codice civile) ed integrata dalla deducibilità del fatto notorio (art. 115, secondo comma, del codice di procedura civile).
In particolare, nel dichiarare la non fondatezza di analoga questione di legittimità costituzionale, la Corte (sentenza n. 225/2005) ha peraltro ritenuto che il contribuente possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati».
In seguito la stessa Corte Costituzionale (sentenza n. 228 del 2014), ponendo in comparazione la posizione dei contribuenti imprenditori con quella dei lavoratori autonomi e dei professionisti, ha sì ritenuto, quanto a questi ultimi, che tale «presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza, nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell'ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito», ma ha anche confermato, quanto ai primi, che la presunzione fondata sui prelevamenti bancari è «congruente con il fisiologico andamento dell'attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi».
Sulla scia di questa giurisprudenza la Consulta ribadisce quindi ora, ulteriormente, per un verso, la non manifesta irragionevolezza della «doppia presunzione» che dai prelevamenti bancari ingiustificati, eseguiti dall'imprenditore, inferisce costi e ricavi occulti e pertanto reddito imponibile, oggetto di rettifica e di accertamento da parte del fisco; presunzione che si iscrive nel più ampio contesto della normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari e sulla regolamentazione limitativa della circolazione del danaro contante al fine di contrastare l'evasione o l'elusione fiscale.
Per altro verso, ribadisce però altresì che, affinché la presunzione in esame risulti compatibile anche con il principio di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), l'interpretazione adeguatrice richiede che il contribuente imprenditore possa comunque sempre articolare la prova contraria presuntiva e, in particolare, eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005).
In questa più mirata prospettiva della idoneità dei prelevamenti bancari ingiustificati a costituire prova di ricavi occulti, la CTP rimettente, come visto, richiamava però la giurisprudenza di legittimità, indicata come prevalente, che parrebbe negare la possibilità per il contribuente imprenditore di offrire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici.
In realtà, rileva la Corte, la giurisprudenza di legittimità ben riconosce la facoltà del contribuente di fornire la prova contraria anche mediante presunzioni semplici.
La richiamata giurisprudenza ha solo precisato - e qui si innestava il malinteso interpretativo che ha ingenerato i dubbi della CTP rimettente - che la possibilità per il contribuente di fornire, mediante presunzioni semplici, la prova contraria, rispetto alla presunzione legale di cui all' art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non esonera il giudice - peraltro in conformità alle regole generali ritraibili dall'art. 2729 c.c. - dalla precisa individuazione dei dati noti dai quali dedurre quelli ignoti, dalla verifica degli indizi offerti dal contribuente in relazione ai movimenti bancari riscontrati e dalla valutazione della gravità, precisione e concordanza degli stessi.
Si richiede, in definitiva, potremmo aggiungere, naturalmente, che le prove, ancorché presuntive, siano sempre sottoposte a verifica dal giudice.
Del resto, aggiunge la Corte Costituzionale, nel caso in cui si tratti di accertamento induttivo “puro”, per impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, per la generalizzata inattendibilità della stessa) deve sempre riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria. E anzi è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi (cfr., Corte di cassazione, sezione quinta tributaria, ordinanza 29 settembre 2017, n. 22868 e sentenza 28 novembre 2014, n. 25317).
La fattispecie che aveva originato l'incidente di legittimità costituzionale riguardava tuttavia un accertamento analitico-contabile, che, come noto, si caratterizza per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare), e dall'esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come, per l'appunto, le risultanze delle movimentazioni bancarie.
In tali casi proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole "poste" della stessa, implicano che, ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola di cui all'art. 109 TUIR, in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l'onere della prova è a carico del contribuente (cfr., Cass., n. 7025 del 2018).
Però, nell'esaminare la questione della deducibilità dei costi anche a fronte di un accertamento analitico contabile compiuto mediante indagini bancarie, secondo la Consulta, occorre comunque considerare che la disposizione censurata consente all'Amministrazione finanziaria di avvalersi di una presunzione che, quanto all'equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi, come detto, sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch'essi, dalla contabilità dell'imprenditore.
In una tale fattispecie, quindi, tanto che il metodo di accertamento sia analitico-induttivo, quanto induttivo cosiddetto "puro", finirebbe effettivamente con il violare i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva un sistema nel quale fosse consentito alla stessa Amministrazione dimostrare, in virtù di un meccanismo inferenziale di secondo grado, che i prelievi del contribuente-imprenditore sono serviti per sostenere costi "occulti", dai quali sono stati prodotti ricavi "occulti", pari ai prelievi in questione, senza che sia possibile la deduzione dei costi sostenuti dall'imprenditore per produrre tali ricavi, secondo una prova contraria per presunzioni offerta (anche) da quest'ultimo.
Da una parte, infatti, da tale sistema deriverebbero esiti irragionevoli, perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvalerebbe chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità, ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile, o ha posto in essere gravi condotte, quale l'omessa presentazione della dichiarazione dei redditi.
D'altra parte, la presunzione in esame, quanto ai prelievi bancari recuperati a reddito d'impresa quali ricavi "occulti", si porrebbe in contrasto con il principio della capacità contribuiva, poiché, in mancanza di alcuna deduzione di costi, come desumibile in via presuntiva, per esempio anche con riferimento alle "medie" elaborate dall'Amministrazione finanziaria per il settore di riferimento, finirebbe per tassare, in parte, una ricchezza inesistente (ex plurimis, sentenze n. 156 del 2001, n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143/1995, n. 179/1985 e n. 200/1976).
In conclusione, la disposizione censurata in tanto si sottraeva alle censure mosse dalla CTP rimettente in quanto si interpretasse nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi "occulti", scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall'ammontare dei prelievi non giustificati» (sentenza n. 225 del 2005).
La Consulta smentisce in sostanza quell'orientamento della Cassazione, secondo cui la considerazione dell'incidenza percentualizzata dei costi corrispondenti alla ricostruzione dei ricavi è applicabile alla rettifica induttiva e non anche a quella fondata su indagini bancarie (cfr., Cass.,n. 1658 del 19 gennaio 2022, Cass. n. 24422 del 05 ottobre 2018, Cass. n. 28580 del 18 ottobre 2021).