Legittimamente utilizzabili nel processo le informazioni ottenute in sede amministrativa senza prevedibile rilevanza penale

Marco Cramarossa
Maddalena Napolano
18 Aprile 2023

Il terreno sul quale si confrontano e si scambiano i mezzi istruttori di prova in ambito amministrativo e penale è segnato dalla necessaria esigenza di cautela e di tutela dei diritti del contribuente indagato. In questo perimetro, spesso molto articolato, si inserisce la vicenda processuale di cui si è occupata la Corte di Cassazione nella sentenza n. 9083, depositata il 3 marzo 2023, riguardante un imprenditore individuale dichiarato colpevole in entrambi i precedenti gradi di merito per occultamento di documenti contabili (ex art. 10 d.Lgs. n. 74/2000).
Massima

Le informazioni e la documentazione legittimamente acquisite da un'Autorità nazionale richiedente per finalità esclusivamente amministrative, purché non prevedibilmente rilevanti in ambito penale già all'atto della richiesta, potranno poi essere utilizzate nel processo senza la necessità di rogatoria per ottenere nuovamente gli stessi dati già ricevuti, sebbene in un procedimento di diversa natura.

Il caso

La condanna, confermata (si anticipa) dai giudici di legittimità, traeva fondamento dall'acquisizione in sede penale della documentazione (i.e. fatture) pervenuta all'Agenzia delle Dogane e dei Monopoli per il tramite di Paesi terzi, Svizzera e Inghilterra nello specifico, che avevano fatto accertare in capo al contribuente verificato l'esistenza di rapporti commerciali non dichiarati con società straniere, così da acclarare il reato di occultamento di documentazione, in modo da non consentire la ricostruzione del reddito e del volume di affari, al fine di evadere tanto le imposte dirette quanto quella sul valore aggiunto.

La difesa ha posto l'accento, in particolare, sulla impossibilità di utilizzare sia le informazioni che i relativi documenti provenienti dal procedimento amministrativo, atteso che l'utilizzo degli stessi sarebbe subordinato al rispetto dell'art. 26 del Modello Ocse (Exchange of information), ovvero la Convenzione Ocse-Consiglio d'Europa riguardante la reciproca assistenza in materia tributaria per l'accertamento e la riscossione delle imposte, che, distinguendo con chiarezza l'ambito amministrativo (fiscale) da quello penale, richiede una rogatoria internazionale per la loro acquisizione in sede penale.

Il ricorso, pur ritenuto ammissibile dalla Corte, è stato però considerato infondato.

La questione

Muovendoci nel perimetro appena tracciato, segnato - a parere della difesa dell'imputato - da una significativa limitazione di garanzie, l'attenta analisi dell'iter normativo e logico seguito dalla Corte nella disamina delle questioni rilevanti consente una migliore comprensione dell'approdo giuridico cui la stessa è pervenuta.

Con il primo motivo di ricorso, come in parte già anticipato, la difesa ha prospettato la violazione degli artt. 191, 546, 626 e 729 c.p.p., nonché dell'art. 26 del Modello Ocse. In particolare, quanto a quest'ultimo aspetto, è stata eccepita la violazione delle norme in materia di cooperazione nello scambio di informazioni tra le Amministrazioni fiscali dei Paesi UE e in tema di rogatoria internazionale, con specifico riguardo all'acquisizione delle prove nell'ambito di indagini fiscali condotte all'estero, nonché all'utilizzabilità delle stesse nel processo penale instauratosi successivamente nel nostro Paese.

Con il secondo motivo di ricorso, invece, veniva contestata la reale natura della condotta di reato, con particolare riguardo alla mancanza di prova rispetto a quale delle due condotte, tra occultamento (reato permanente) e distruzione (reato istantaneo) di documenti e di scritture contabili, sarebbe stata effettivamente accertata a carico del ricorrente, con le dovute differenze quanto ai rispettivi termini di prescrizione. Aspetto che, invece, secondo la Cassazione, il giudice di appello avrebbe ben valorizzato, considerato che l'imputato non avrebbe offerto alcun elemento positivo a dimostrazione di un'eventuale distruzione della documentazione richiesta, imponendo di riconoscere integrata l'unica condotta da cui emergevano adeguati e coerenti presupposti, ossia l'occultamento della documentazione, con le relative conseguenze in tema di prescrizione del reato.

Riprendendo le fila della parte motivazionale che in questa sede maggiormente interessa, ovvero quella riguardante lo scambio di informazioni fiscali utilizzabili nel processo penale, i giudici di legittimità si aprono a una riflessione, più o meno condivisibile, fondata sul combinato disposto delle varie norme che disciplinano lo scambio d'informazioni e la cooperazione amministrativa nella lotta alle frodi fiscali nell'ambito dell'Unione, ovvero dell'art. 26 del Modello Ocse e dell'art. 55 del Regolamento UE n. 904/2010, per quanto concerne la lotta alle frodi in materia di IVA.

Quindi, partendo dalla consapevolezza che tra i Paesi dell'Unione europea lo scambio di informazioni è disciplinato dalla Direttiva 2011/16/UE (attuata dal D.Lgs. n. 29/2014), oltre che dal già citato art. 55 del Regolamento comunitario, con specifico riferimento alle imposte dirette, si può senza ombra di dubbio affermare che l'Italia è vincolata all'osservanza di tali norme esclusivamente nei rapporti con gli altri Paesi UE, mentre in ambito non comunitario, per svolgere le medesime attività, occorre normalmente fare ricorso ad altri strumenti, quali le convenzioni e gli accordi stipulati in base al Modello Ocse, che all'art. 26 regola, appunto, lo scambio di informazioni tra i propri membri.

Innanzi tutto, i giudici di vertice rilevano che l'impianto normativo, così come rappresentato anche dalla difesa della ricorrente, attiene senz'altro ad un ambito esclusivamente amministrativo di rilevanza fiscale e che l'obiettivo del Modello OCSE, individuando gli strumenti e le modalità più adeguate di collaborazione negli scambi di informazioni, volge particolare attenzione a evitare il fenomeno della doppia imposizione (avoidance of double taxation) e a contrastare l'elusione e l'evasione fiscale (prevention of fiscal evasion).

Dall'analisi compiuta dell'art. 26 emergono due limiti posti negli scambi tra le Autorità fiscali competenti, che involvono una particolare attenzione da parte dello Stato al quale è inoltrata la richiesta. Il primo riguarda le informazioni che si devono ritenere “prevedibilmente rilevanti” (foreseeably relevant) già al momento della richiesta di documenti e di informazioni per scopi diversi da quelli meramente fiscali, come appunto quello penale, caratterizzato dal peculiare coinvolgimento di interessi rilevanti estranei rispetto alla sfera amministrativa (i.e. libertà personale).

Il secondo limite, invece, consiste nell'obbligatorietà di confidenzialità e riservatezza delle informazioni ricevute, vale a dire nell'obbligo di limitare la trasmissione dei dati alle persone interessate e alle autorità procedenti, allo scopo di consentirne l'uso esclusivamente nelle sedi strettamente collegate al procedimento per cui è stata effettuata la richiesta. Sul punto, mette conto evidenziare la conclusione del comma 2 del citato articolo, in base al quale “in deroga a quanto sopra, le informazioni ricevute da uno Stato contraente possono essere utilizzate per altri scopi quando ciò è consentito in base alle leggi di entrambi gli Stati e l'Autorità competente dello Stato che le fornisce autorizza tale utilizzo”: previsione del tutto analoga, peraltro, a quella contenuta nel ridetto art. 55 del Regolamento europeo.

Le soluzioni giuridiche

Proprio su questi richiami normativi si impianta l'“uso diverso” del dato informativo acquisito da quello richiesto e consentito ab origine, ovvero un uso che può trascendere dalla natura strettamente amministrativa per assumere la veste di elemento di prova utilizzabile in sede penale.

Ad ogni modo, il rispetto di tutte le disposizioni citate, che rappresenta il presupposto per il legittimo utilizzo delle informazioni e dei documenti ricevuti, deve essere verificato con esclusivo riguardo al momento in cui ne è fatta richiesta all'Autorità estera, e in relazione alla specifica ed effettiva finalità che sostiene la domanda di cooperazione. Inoltre, come evidenziato dal consolidato orientamento espresso dalla sentenza in commento, appare ingiustificata la sospensione sine die(silente ma vincolante) del collegamento tra l'informazione ottenuta e l'Autorità estera che l'ha fornita, fino ad imporre – in sede penale – l'attivazione della procedura di rogatoria per ottenere nuovamente la medesima informazione già acquisita da una Autorità interna, sebbene in un procedimento di diversa natura.

Ne consegue che, accertato il piano esclusivamente amministrativo del procedimento, quanto legittimamente acquisito da una Autorità interna risulti utilizzabile ai fini istruttori, accertativi e sanzionatori, ma “potrà poi essere utilizzato anche per altri scopi, come quello penale, senza necessità dell'autorizzazione dello Stato richiesto e nel pieno rispetto di tutte le disposizioni interne che concernono l'acquisizione dei documenti nella fase procedimentale e processuale”. Autorizzazione che, come già rilevato, si rende necessaria solo allorquando la domanda di cooperazione riguardi informazioni e documenti prevedibilmente rilevanti in ambito penale già all'atto della richiesta. In questo caso, però, la prova (a carico del ricorrente) che la domanda sia stata avanzata nell'ambito di un'indagine di cui l'Autorità richiedente conosceva già il carattere sostanzialmente penale, anche a prescindere dalla formale iscrizione del fascicolo, produrrà la inutilizzabilità degli effetti dei documenti acquisiti, risultando sostanzialmente aggirata la normativa al fine di eludere la più complessa procedura delle rogatorie.

Questa, in sostanza, la tesi difensiva, secondo la quale gli indizi di reità a carico dell'imputato “sarebbero emersi sin dal 12/12/2014, quindi ben prima della richiesta formulata all'estero”, ritenuta però infondata nei gradi di merito perché solo successivamente all'esito dell'acquisizione della documentazione era emersa la notitia criminis, con la conseguente ed obbligatoria denuncia penale. Valutazione validata dalla Cassazione.

Osservazioni

Il legislatore nazionale, disciplinando la materia delle rogatorie internazionali nel codice di rito penale (artt. 723 e seguenti c.p.p.), delinea l'istituto ponendo numerose garanzie ai diritti inviolabili costituzionalmente garantiti a beneficio di indagati e imputati. Infatti, in osservanza di tali norme, l'Autorità giudiziaria richiede a quella di un altro Stato di compiere delle attività rilevanti nell'ambito di un processo penale pendente: attività che possono essere di notificazioni, comunicazioni o acquisizione probatoria, sia in fase di indagini che di dibattimento.

Ai fini del buon esito della rogatoria e quindi dell'utilizzabilità del materiale probatorio acquisito, l'art. 729 c.p.p. dispone che, qualora lo Stato estero abbia posto delle condizioni di utilizzabilità degli atti richiesti, queste devono essere assolutamente osservate dallo Stato richiedente, e che, qualora l'acquisizione delle prove avvenga in modalità differenti o difformi da quelle richieste e previste per legge dallo Stato richiedente, gli atti acquisiti siano inutilizzabili.

In ambito amministrativo, gli elementi raccolti a carico del contribuente, senza il rispetto delle regole di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale, sono inutilizzabili in tale sede ai sensi dell'art. 191 c.p.p., ma restano pienamente utilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l'autonomia dei due processi (ex multis Cass. n. 16950/2015 e n. 2082/2021). Ciò sarebbe desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. e dalla espressa previsione dell'art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l'obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di rito quando, nel corso di attività ispettive, emergano “indizi di reato” (che si distinguono dal semplice sospetto), ma solo con riguardo all'applicazione della legge penale, mentre ai fini fiscali - pur in presenza di “prove atipiche” (cfr. Cass. n. 7957/2021 e n. 29314/2022) - sarà sufficiente non risultino violate le specifiche disposizioni tributarie (artt. 31 bis, 32, 33 D.P.R. n. 600/1973 e artt. 52 e 63 D.P.R. n. 633/1972).

Tali evidenze normative domestiche mettono in luce le enormi criticità in tema di violazione delle garanzie difensive e della legalità della prova allorquando un elemento probatorio, pur legittimamente acquisito nell'ambito di indagini fiscali in uno Stato estero in virtù della normativa amministrativa, venga poi fatto migrare nel processo penale senza aver seguito l'iter vincolato posto proprio a garanzia dei diritti inviolabili del reo, atteso che le norme nazionali di procedura penale dettano garanzie ben più forti e stringenti, sostanzialmente aderenti alla “teoria del frutto dell'albero avvelenato”.

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