Sospensione del procedimento con messa alla prova e reati tributari: il quantum di pena

27 Aprile 2023

Mediante la decisione oggetto del presente commento, la Suprema Corte ha fatto buon governo e corretta applicazione dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità.
Massima

Ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le riduzioni dovute all'applicazioni delle circostanze attenuanti.

Il caso

Il caso sottoposto alla Corte di cassazione (Cass. Pen., Sez. III, 1.12.2022, n. 45546) origina dal ricorso presentato dal Pubblico Ministero contro l'ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari che aveva disposto la sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti di un soggetto imputato per l'asserita violazione dell'art. 2 D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

Il gravame si basava sull'erroneità del provvedimento con il quale l'imputato è stato ammesso all'istituto della messa alla prova, in quanto il reato a lui contestato nei limiti edittali previsti per la concessione del beneficio, essendo puniti con la pena edittale superiore nel massimo a quattro anni.

La questione

Al fine di un migliore inquadramento della tematica pare opportuno esaminare l'istituto della messa alla prova ed i suoi profili applicativi.

La sospensione del processo con messa alla prova è stata introdotta con la L. 280 aprile 2014, n. 67; si tratta di una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, mediante la quale è possibile pervenire ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, laddove il periodo di prova si concluda con esito positivo. Si tratta di un istituto che ha natura consensuale e funzione di riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato.

La ratio ed il fondamento di tale istituto è quello di ovviare alle criticità del sistema penale, che concernono la lungaggine dei tempi del processo nonché il sovraffollamento degli istituti detentivi.

Ai fini dell'ammissione dell'istituto il legislatore ha previsto requisiti formali, a tutela della volontarietà della scelta, e presupposti applicativi sia di natura oggettiva sia di natura soggettiva, che sottendono valutazioni di compatibilità dei reati o delle tipologie di delinquenza con l'istituto in questione.

La richiesta deve essere formulata dall'indagato/imputato, oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale e corredata di un programma di trattamento elaborato dall'Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) competente per territorio, ovvero da un'istanza rivolta al medesimo Ufficio e finalizzata alla sua elaborazione.

La messa alla prova non può essere richiesta per qualsiasi reato, ma solamente per quelli puniti con la pena pecuniaria, con la pena detentiva fino a quattro anni ovvero per uno di quelli previsti dall'art. 550, comma 2, c.p.p. di competenza del tribunale monocratico con citazione diretta a giudizio.

Sul quantum di pena e le modalità di individuazione, è intervenuta la Corte di Cassazione affermando che: «La pena edittale massima indicata dall'art. 168 bis c.p. per individuare i reati per i quali può essere chiesta la sospensione con messa alla prova va determinata senza tenere conto di alcuna aggravante, anche speciale» (Cass. Pen., SS.UU., 31.03.2016, n. 36272).

Il legislatore ha poi previsto dei presupposti soggettivi che concernono la personalità del soggetto. In particolare, non può usufruire del beneficio di cui all'art. 168-bis c.p. colui che è stato dichiarato delinquente o contravventore abituale, professionale o per tendenza, colui al quale è stata già concessa e poi revocata, ovvero colui al quale sia stata concessa con esito negativo (A. LARUSSA, Messa alla prova, in Altalex, 24.04.2017).

Pare opportuno evidenziare che tra i presupposti soggettivi non è contemplata, unitamente alle tipologia di delinquenza qualificata enunciate, la recidiva né è previsto che l'interessato per accedere all'istituto debba ammettere le proprie responsabilità: a quest'ultimo riguardo non potrebbe peraltro non evidenziarsi come la confessione sarebbe in sé incompatibile con la disciplina dell'istituto considerato che in caso di esito negativo della prova o di revoca della stessa il processo riprende e prosegue dalla fase in cui è stato interrotto sicché l'eventuale ammissione di responsabilità porrebbe evidenti problemi di tensione con le garanzie dell'imputato ritornato sub iudicio.

La richiesta di ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova può essere avanzata non solo dopo l'esercizio dell'azione penale, ma anche prima, a tal fine prevedendosi che lo stesso pubblico ministero, ove ne ricorrano i presupposti, dia avviso all'indagato in ordine alla possibilità di accedere all'istituto in questione. Nel corso delle indagini preliminari, la richiesta deve essere presentata alla cancelleria del Giudice per le Indagini Preliminari, il quale deve trasmetterla al Pubblico Ministero per il parere. Qualora il parere sia positivo, il pubblico ministero deve trasmettere il fascicolo unitamente alla formulazione dell'imputazione al giudice affinché fissi l'udienza in camera di consiglio e ne dia avviso alle parti e alla persona offesa che ha diritto di essere citata e sentita, pena la possibilità di esperire ricorso per cassazione.

Dopo l'esercizio dell'azione penale la richiesta deve essere presentata, nel rito ordinario, entro le conclusioni in sede di udienza preliminare, nel rito direttissimo e nel procedimento con citazione diretta a giudizio, sino all'apertura del dibattimento, nel procedimento per decreto, con l'atto di opposizione e nel giudizio immediato, entro 15 giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato (M.L. GALATI, L. RANDAZZO, La messa alla prova nel processo penale, Milano, 2020).

Una volta presentata l'istanza corredata dal programma di trattamento, o dalla richiesta inoltrata all'UEPE e finalizzata alla sua elaborazione, il giudice procede alla valutazione nel corso della stessa udienza (salvo rinvio in attesa dell'elaborazione del programma), ovvero in un'udienza camerale della quale deve essere dato avviso alle parti e alla persona offesa per garantire il contraddittorio.

Il giudice, che può disporre la comparizione dell'interessato per verificare la volontarietà della richiesta, deve valutare che sussistano i requisiti formali e le condizioni di applicabilità, che non risulti dagli atti la sussistenza di una causa di proscioglimento, nel qual caso deve emettere sentenza ex art. 129 c.p.p., che il programma predisposto sia sufficientemente individualizzato e, come tale, idoneo con riguardo all'entità del fatto e alla capacità a delinquere del soggetto ex art. 133 c.p. e, infine, che il soggetto non commetta ulteriori reati nel periodo di prova.

Ai fini della valutazione il giudice utilizza gli atti contenuti nel fascicolo a sua disposizione nella fase del processo in cui si trova, ciò che viene prodotto dall'interessato, ciò che viene raccolto e offerto dall'UEPE nel corso delle indagini socio familiari e delle relative valutazioni, nonché i risultati degli accertamenti eventualmente disposti d'ufficio.

Qualora ritenga che ricorrano tutti i presupposti, emette un'ordinanza ammissiva, che viene iscritta nel casellario giudiziale ai sensi dell'art. 3, lett. I-bis), con la quale dispone la sospensione del processo per un periodo che non può essere superiore a un anno quando si tratti di reati puniti con pena pecuniaria, due anni quando si tratti di reati puniti con pena detentiva.

La sospensione del processo inizia a decorrere dal momento della sottoscrizione del verbale di messa alla prova, comporta la sospensione della prescrizione fino al termine determinato dal giudice, ma non impedisce l'assunzione delle prove a discarico, con le modalità del dibattimento e quindi con le garanzie del contraddittorio.

Nel caso di sospensione del procedimento non si applica l'art. 75, comma 3, c.p.p.: pertanto ove la persona offesa e danneggiata dal reato si sia costituita parte civile prima dell'ammissione della sospensione del processo con messa alla prova, la stessa potrà esercitare l'azione civile nella sede propria senza incorrere nella sospensione del procedimento civile in attesa della definizione di quello penale (A. LARUSSA, Op. cit.).

La messa alla prova consiste nello svolgimento degli impegni indicati nel programma di prova predisposto di concerto con l'ufficio esecuzione penale esterna competente per territorio, ovvero, quello del luogo di residenza o domicilio dell'indagato imputato, programma che sia stato ritenuto idoneo dal giudice o da questi modificato con il consenso dell'interessato.

Sotto il profilo contenutistico, l'art. 168-bis c.p. prevede anzitutto che la messa alla prova comporti la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.

Il secondo capoverso del comma 2 dell'art. 168-bis c.p. prevede poi che la messa alla prova comporti l'affidamento dell'imputato al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare tra l'altro attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

Durante il periodo di sospensione il soggetto è affidato UEPE che ha il compito di controllare il rispetto e la corretta esecuzione del programma di trattamento. La messa alla prova, come ogni istituto di carattere sospensivo, è suscettibile di revoca: anche qui la disciplina è articolata fra la norma sostanziale che individua i casi di revoca (168-quater c.p.) e la norma processuale che indica le modalità in punto di rito (464-octies c.p.p.).

Quanto ai casi di revoca, il legislatore ne ha previsti tre:

  • grave o reiterata violazione del programma di trattamento o delle prescrizioni imposte;
  • rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità;
  • commissione durante il periodo di prova, di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole di quello per cui si procede.

Con riferimento invece al reato oggetto della sentenza in commento, il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti punisce con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o l'IVA, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

L'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.

Anteriormente alle modifiche apportate dal D.L. n. 138/2011, per tale reato era comminata la pena della reclusione da sei mesi a due anni, quando l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti emessi, risultava inferiore a 154.937,07 euro. In conseguenza all'abrogazione di tale attenuante, a prescindere dall'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti falsi emessi, la pena diviene quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Il presupposto soggettivo previsto dall'art. 8 D.Lgs. 74/2000, fa riferimento al fatto che il trasgressore consenta a terzi l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto con il proprio comportamento.

La valutazione riguardo la sussistenza del dolo specifico è affidata al giudice di merito cui è demandato il compito di accertare se la condotta dell'imputato corrisponda agli elementi costitutivi del reato.

Oggetto del reato sono le fatture o altri documenti emessi per operazioni inesistenti, che rimandino ad operazioni di cessione di beni o prestazioni di servizi, rilevanti ai fini della determinazione dell'imponibile, come ad esempio scontrini fiscali, ricevute fiscali, schede carburanti.

La condotta tipica del reato consiste nella emissione o nel rilascio di fatture o di altri documenti per operazioni false, non rispondenti, quindi alla verità, a nulla rilevando la loro effettiva utilizzazione da parte del soggetto ricevente.

Il dolo specifico di evasione indiretta consiste nel fine di consentire a terzi l'evasione di imposta sui redditi o sul valore aggiunto, in quanto chi emette le fatture o rilascia i documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti, indicando i corrispettivi o l'IVA in misura superiore a quella reale, chiaramente, non avrà alcun tipo di vantaggio configurandosi, in realtà, una posizione fiscale alquanto sfavorevole (P. CEROLI, Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, in Il Tributario).

È possibile anche il caso in cui l'ipotesi di evasione vi sia solo ai fini delle imposte sui redditi e non anche ai fini dell'IVA, se chi emette la fattura riceve in pagamento, dall'altra parte, l'IVA, che poi verserà, iscrivendo, inoltre, la fattura in contabilità. Tale comportamento potrebbe essere giustificato dal fatto che, l'aver indicato in contabilità un incasso non realizzato, possa nascondere occulti accordi economici tra le parti, oppure la volontà dell'emittente di far emergere delle vendite che celano precedenti evasioni o operazioni sommerse.

L'art. 8, comma 2, D.Lgs. 74/2000 prevede una ipotesi di speciale cumulo giuridico, laddove, ai fini dell'applicazione prevista nel primo comma, l'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta, realizza un unico reato.

La soluzione giuridica

Nell'esaminare il ricorso proposto dal Pubblico Ministero contro l'ordinanza che aveva sospeso il procedimento e ammesso l'imputato alla messa alla prova, la Corte di cassazione rileva preliminarmente che a quest'ultimo era contesta la violazione, per due annualità di imposta, dell'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 che, all'epoca della commissione dei fatti era punito con la pena della reclusione da anni uno e mesi sei ad anni sei, e dunque superiore al limite edittale imposto dall'art. 168-bis c.p. per l'accesso al beneficio richiesto.

Proprio in tal senso, quindi, non potrebbe derogarsi a tale limite edittale che deve essere considerato senza tenere conto delle circostanze attenuanti e quindi delle relative diminuzioni di pena.

E infatti la Corte ha affermato che: « Può pertanto affermarsi il principio di diritto secondo il quale ai fini dell'individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile la disciplina dell'istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova, il richiamo contenuto all'art. 168-bis c.p. alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispecie base, non assumendo a tal fine alcun rilievo le riduzioni dovute all'applicazioni delle circostanze attenuanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato».

Conseguentemente alla luce di tale orientamento giurisprudenziale nonché dell'interpretazione letterale della norma la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio l'ordinanza e ordinato la restituzione degli atti al Giudice di prime cure.

Osservazioni

Il limite edittale indicato dall'art. 168-bis c.p. – anche in base all'intenzione del legislatore ricostruita attraverso i lavori parlamentari che hanno portato alla definitiva approvazione della legge - è tassativo e non può essere derogato od interpretato nel senso di prevedere, dalla pena originaria per il singolo delitto, la detrazione per una eventuale circostanza attenuante; la norma infatti pone in evidenza la mancanza di ogni riferimento agli accidentalia delicti.

In tal senso quindi la pena prevista per il delitto in esame non consentiva l'ammissione dell'imputato alla sospensione del procedimento con messa alla prova.

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