Accertamento e reddito impresa familiare

Matteo Pillon Storti
06 Luglio 2023

La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 8582/2023 è stata chiamata ad affrontare il tema dell'imputazione di maggiori redditi derivanti dall'esercizio di un'impresa familiare, a seguito di un accertamento fiscale.
Massima

In caso di verifica fiscale nei confronti di un'impresa familiare, il maggior reddito imprenditoriale accertato è riferibile soltanto al titolare dell'impresa.

I maggiori redditi accertati, quindi, non possono essere imputati ai familiari collaboratori dell'imprenditore, sebbene risultino titolari del diritto di partecipazione agli utili. Questo è quanto è stato confermato dalla Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 8582 pubblicata il giorno 27 marzo 2023.

Il caso

La decisione della Suprema Corte, oggetto del presente approfondimento, discende da un avviso d'accertamento relativo all'anno d'imposta 2007. L'amministrazione finanziaria contestava al titolare di un'impresa familiare un maggior reddito rispetto a quello dichiarato, con un conseguente maggior importo di Irpef e addizionali regionali e comunali.

Il contribuente si opponeva alle pretese dell'Agenzia delle Entrate, lamentando una errata imputazione dei maggiori redditi accertati.

Il titolare dell'impresa familiare, infatti, contestava l'imputazione del maggior reddito esclusivamente a suo carico, nonché la mancata deduzione del coniuge a carico e l'accertamento di maggiori ricavi nonostante l'adeguamento agli studi di settore.

Su tali basi il contribuente presentava ricorso presso le sedi competenti.

La questione

Ciononostante, la CTP inizialmente e la CTR successivamente, rigettavano le tesi difensive suddette, escludendo, in particolare, che il maggior reddito accertato in capo ad un titolare di impresa familiare potesse essere ripartito con i collaboratori familiari impegnati nell'attività dell'impresa stessa.

La questione è stata portata all'attenzione della Corte di Cassazione, la quale si è espressa con ordinanza n. 8582/2023, rigettando il ricorso del contribuente.

La soluzione giuridica

Com'è noto, l'art. 230-bis c.c disciplina la cd. “impresa familiare”: “Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.”.

Inoltre, dal punto di vista fiscale, l'art. 5 TUIR, comma 4 e 5, stabilisce che: “I redditi delle imprese familiari di cui all'articolo 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione:

  • che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti;
  • che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo di imposta;
  • che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente.

Si intendono per familiari, ai fini delle imposte sui redditi, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado”

Date queste premesse, la Suprema Corte, con l'ordinanza oggetto del presente approfondimento, è stata chiamata ad affrontare il tema dell'imputazione di maggiori redditi derivanti dall'esercizio di un'impresa familiare, a seguito di un accertamento fiscale.

In particolare, come è stato accennato precedentemente, il ricorrente, titolare di impresa familiare, lamentava la totale imputazione a sé dei maggiori redditi accertati e, quindi, la mancata suddivisione degli stessi con i propri collaboratori familiari.

La Corte, richiamando alcuni suoi precedenti pronunciamenti, ha ricordato che "In materia di impresa familiare, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall'impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d'impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori - che non sono contitolari dell'impresa familiare - costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all'imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall'imprenditore; ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell'impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito "pro quota" agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d'impresa".

Confermando tale tesi giurisprudenziale la Cassazione ha rigettato il ricorso del contribuente.

Alle stesse conclusioni era giunta la Cassazione Civile (ord. 9198/2022), secondo la quale il reddito percepito dal titolare di un'impresa familiare è considerato reddito d'impresa mentre, le quote spettanti ai collaboratori costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quelli di impresa.

Da ciò ne deriva che in caso di accertamento di un maggior reddito derivante dall'attività di impresa familiare, lo stesso può essere imputato soltanto al titolare. Il maggior reddito suddetto, quindi, non può essere ripartito “pro-quota” ai vari collaboratori familiari aventi diritto alla partecipazione degli utili dell'impresa.

Osservazioni

L'ordinanza della Cassazionen. 8582/2023 ha confermato alcune tesi giurisprudenziali.

In particolare:

  • il reddito percepito dal titolare di un'impresa familiare è considerato reddito d'impresa mentre, le quote spettanti ai collaboratori costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quelli di impresa;
  • in caso di accertamento fiscale a carico di un'impresa familiare, il maggior reddito accertato è imputato esclusivamente al titolare e non può essere ripartito “pro-quota” fra i vari collaboratori familiari.

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