La valenza delle presunzioni semplici nel giudizio tributario
21 Luglio 2023
Massima
Le presunzioni semplici poste alla base del rilievo impositivo, per fondare la relativa pretesa, devono possedere le caratteristiche della intrinseca ragionevolezza e coerenza, tale da far sorgere in capo al contribuente un onere probatorio di corrispondente livello.
Il caso
In particolare, la contestazione riguardava la deducibilità dal reddito d'impresa di una fattura per mancanza dei requisiti di competenza, certezza, obiettiva determinabilità ed inerenza, così quantificandosi, ai sensi dell'art. 41, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il reddito d'impresa in euro 31.578,06.
La ricorrente si opponeva al disconoscimento del costo afferente alla detta fattura, in quanto sarebbe contestato dall'Ufficio unicamente il requisito dell'inerenza, non già l'obiettiva sussistenza della prestazione, talché gli elementi presuntivi evidenziati nell'avviso di accertamento sarebbero inutilizzabili al fine di valutare la correlazione qualitativa tra l'esistenza del costo e l'attività di impresa.
La contribuente impugnava, altresì, l'avviso di accertamento relativo all'anno di imposta 2017, sempre riferito alla medesima verifica effettuata dalla Guardia di Finanza; con l'atto impugnato, l'Ufficio in particolare disconosceva la deducibilità del costo documentato di un'altra fattura, per i medesimi motivi già esposti con riguardo all'accertamento relativo alla precedente annualità, nonché la deducibilità del costo relativo dalla fattura, così rideterminando, ai sensi dell'art. 41, comma 2, d.P.R. 600/1973, il reddito d'impresa pari ad Euro 9.814,68 ed applicando le relative sanzioni.
I motivi di gravame concernevano, quanto al primo, i medesimi motivi di ricorso già affacciati in relazione all'impugnazione dell'avviso di accertamento relativo all'anno di imposta 2016, mentre, con riguardo alla seconda contestazione, si osservava che la contestazione formulato dall'ente impositore sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini della determinazione di una maggiore imposta, sia ai fini Ires, che ai fini Irap ed iva, poiché il relativo costo non era stato dedotto.
Veniva contesta altresì, la ricorrente, l'applicazione delle sanzioni per mancanza dei relativi presupposti.
Ritualmente costituitosi, l'Ufficio controdeduceva su tutti i profili di doglianza ex adverso proposti, osservando in particolare che, nella fattispecie, il disconoscimento del costo relativo alle fatture oggetto di rilievo non è dipeso esclusivamente dalla ravvisata insussistenza del requisito dell'inerenza, essendo risultati carenti anche gli ulteriori requisiti di deducibilità quali la certezza, l'obiettiva determinabilità, l'effettività e la competenza, così come espressamente indicate negli atti impugnati, chiedendo il rigetto dei ricorsi con vittoria di spese e competenze.
La questione
Al fine di una immediata comprensione della questione sottesa alla pronuncia in esame appare utile evidenziare il meccanismo delle presunzioni nel giudizio tributario ed il principio di inerenza. Il principio d'inerenza dei costi rappresenta uno dei pilastri concettuali nella determinazione del reddito imponibile d'impresa.
Con riferimento alle presunzioni semplici tali sono quelle che, di norma, di per sé sole non possono essere utilizzate dall'ADE per rettificare il reddito imponibile di un contribuente, ma necessitano di essere corroborate da ulteriori elementi indiziari della presunta evasione; l'art. 2729 c.c., prevede che le valutazioni di tali presunzioni sono: «lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti».
Con specifico riferimento al diritto tributario, i fatti sui quali esse si fondano devono essere provati in giudizio e il relativo onere grava sull'amministrazione finanziaria, la quale ha, quindi, l'onere di dimostrare che gli elementi presuntivi posti a base della pretesa impositiva abbiano i caratteri di gravità, precisione e concordanza. L'Ufficio è quindi tenuto a dimostrare la sussistenza di ulteriori elementi che possano servire a conferire il carattere della gravità, precisione e concordanza alla presunzione di maggior imponibile. Le presunzioni legali sono invece quelle il cui valore probatorio è riconosciuto dalla legge e che da sole sono sufficienti a legittimare la rettifica del reddito imponibile addossando l'onere della prova contraria a carico del contribuente.
Queste, come noto, a loro volta, possono essere assolute per le quali non è ammessa prova contraria, o relative per le quali è consentito al contribuente accertato di dimostrare l'insussistenza della pretesa impositiva.
La differenza tra presunzioni semplici e presunzioni legali relative rileva in termini di ripartizione dell'onere della prova: nel primo caso l'amministrazione finanziaria dovrà dimostrare che la presunzione soddisfi i requisiti della gravità, precisione e concordanza e, quindi, la sussistenza di fatti costitutivi della pretesa impositiva; nel secondo caso le presunzioni assurgono a fatti costitutivi della pretesa tributaria senza ulteriori oneri per l'amministrazione finanziaria che potrà fondare l'avviso di accertamento sulla base delle sole presunzioni con inversione dell'onere della prova a carico del contribuente al quale spetterà la dimostrazione della inefficacia della ricostruzione reddituale presuntiva sulla base di fatti modificativi o estintivi.
In altri termini ciò sta a significare che i fatti posti a base dell'avviso di accertamento possono essere valutati in maniera differente in sede processuale: nel caso di presunzioni semplici il giudice può valutare gli elementi presuntivi secondo il suo libero apprezzamento ai sensi dell'art. 116 c.p.c., salvo che la legge disponga altrimenti, nei limiti di ammissibilità specificamente previsti dal citato art. 2729 c.c.; nelle ipotesi di presunzioni legali invece al giudice non è consentito di modificare il valore probatorio attribuito dalla legge ai fatti (A. Iorio, Le presunzioni nell'accertamento tributario: studi di settore e antieconomicità delle scelte imprenditoriali, in Giust. Trib.).
Passando poi al secondo elemento oggetto del presente contributo, il principio di inerenza non trova espressa definizione nel TUIR, dovendosi ritenere un principio generale insito nella nozione di reddito d'impresa. La deduzione dei costi inerenti alla produzione del reddito d'impresa, attesa la sua determinazione differenziale, non costituisce infatti una scelta legislativa contingente, ma una caratteristica strutturale diretta alla corretta misurazione della capacità economica reddituale del soggetto passivo (M. VILLANI, Il principio d'inerenza dei costi nell'evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Altalex, 16.07.2018). L'art. 109, comma 5, TUIR, che tradizionalmente si riteneva costituire l'ossatura del citato principio, riguarda, invece, il diverso aspetto legato alla riferibilità dei componenti negativi ai proventi imponibili, esclusi ed esenti. Pertanto, predetto articolo, detta le regole generali previste per la deduzione delle spese e degli altri componenti negativi dal reddito d'impresa. In particolare, per espressa disposizione normativa, i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi di reddito, concorrono a formare il reddito nell'esercizio di competenza. Tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell'esercizio di competenza non sia ancora certa l'esistenza o determinabile in modo obiettivo l'ammontare, concorrono a formarlo nell'esercizio in cui si verificano tali condizioni.
Il principio di inerenza va quindi tratto della relazione tra costo e attività d'impresa nel suo complesso, con la conseguenza di doversi escludere dal novero dei costi deducibili solo quelli che si collocano in una sfera estranea alla stessa. Non assume rilevanza, in quanto tale, la congruità o l'utilità del costo rispetto ai ricavi, dato che il giudizio di inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo; ogni rilievo relativo all'antieconomicità dell'operazione posta in essere non può dunque costituire prova della carenza di inerenza del costo, ma può solamente assume il ruolo di elemento sintomatico di detta carenza (L. GUCCIARDO, Sul fondamento giuridico del principio di inerenza, in RTDT, n, 4, 2021).
Con particolare riferimento al requisito dell'inerenza, le spese e gli altri componenti negativi di reddito diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.
Il principio di inerenza, in quanto corollario di una tassazione del reddito al netto dei costi di produzione, è un principio implicito e ineludibile che a rigore non necessita di affermazioni espresse. In un primo momento, il concetto di inerenza concerneva solamente quei costi direttamente utilizzati e incorporati nella produzione, mentre successivamente questo concetto si è progressivamente allargato, fino ad abbracciare tutte le tipologie di costi inerenti all'impresa, non soltanto quelle necessarie alla produzione del reddito ma altresì quelle ritenute utili allo scopo da parte dell'imprenditore, con valutazione dello stesso tendenzialmente insindacabile, con le precisazioni che vedremo in seguito (L. GUCCIARDO, Op. cit.).
Non è dunque necessario che i costi ineriscano specificamente a ricavi, essendo sufficiente una generica inerenza all'attività: sono dunque inerenti anche costi che, di per sé, non si traducono né possono tradursi in maggiori ricavi, ma che ciononostante sono inerenti all'attività. Il requisito di inerenza non si risolve insomma in un requisito di ordine formale, legato alla mera contabilizzazione dei costi di cui si vuole ottenere la deducibilità: l'imputazione contabile seleziona i costi rilevanti per la determinazione del reddito, ma il vaglio dell'inerenza costituisce un giudizio autonomo per compiere una ulteriore selezione delle spese effettivamente deducibili (D. STEVANATO, Il principio di inerenza e la rilevanza contabile dei costi deducibili. Spese di pubblicità e rappresentanza, in Giust. trib.).
A ben vedere poi nel TUIR non vi è alcuna disposizione destinata ad esprimere la nozione di costo ai fini tributari, che sembra dovere coincidere con la nozione di costo aziendalistico. Quest'ultimo è segnatamente inteso come la misura dei fattori produttivi correlati alla ricchezza generata in esito ad un processo economico dato; il costo, in sostanza, in una prospettiva aziendalistica o civilistica, costituisce un decremento patrimoniale a cui corrisponde una variazione numeraria. La tesi che tende a far coincidere la nozione di costo aziendalistico con la nozione di costo ai fini tributari si fonda sull'assunto che la determinazione del reddito d'impresa di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 prende come punto di partenza la risultante, attiva e passiva, di una rilevazione contabile redatta a fini civilistici e modificata in base alle norme tributarie, ossia, in altri termini, che la base informativa da cui prendere le mosse per la ricostruzione analitica del reddito d'impresa sia il bilancio civilistico. Siffatta interpretazione trova conferma nelle numerose eccezioni rinvenibili nell'ordinamento: infatti, laddove il legislatore abbia inteso discostarsi dalla regola che sovrappone la nozione di costo ai fini tributari a quella ai fini aziendalistici, lo ha espressamente statuito, imponendo delle previsioni normative volte alla determinazione di un ammontare fiscalmente rilevante, quindi differente rispetto a quello allocato nel bilancio d'esercizio (L. GUCCIARDO, Op. cit.).
Tuttavia, trattare la nozione di costo significa invocare una categoria direttamente ancorata alla determinazione dell'obbligazione tributaria, perché riconoscere o negare natura reddituale a un elemento economico ha riflessi sulla dimensione quantitativa del presupposto e sull'ammontare del debito d'imposta correlato, con l'effetto di trasferire sulla collettività l'onere corrispondente alla connessa riduzione del debito tributario gravante sul singolo contribuente: il costo, dunque, in ragione del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., non può mai contribuire a realizzare interessi antisociali.
Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha affermato che: «In tema di IVA, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d'impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo» (Cass. Civ., Sez. Trib., 17 luglio 2018, n. 18904).
Ne deriva che l'inerenza integra, in realtà, un giudizio sulla riferibilità del costo all'attività d'impresa, giudizio che, come tale, ha natura qualitativa ancorché possa essere inteso in accezioni di maggiore o minore latitudine (ad esempio limitandone la rilevanza alle spese sostenute solo per la realizzazione dei prodotti od anche per la produzione complessivamente considerata) ovvero con derivazioni oggettive o soggettive, anche, in quest'ultimo caso, ancorandola a parametri quali l'utilità (suscettibile a sua volta di valorizzazione come effettiva, potenziale o meramente attesa) o la congruità.
Anche la giurisprudenza di merito ha avuto modo di dettare alcuni importanti concetti in materia ritenendo che: «L'antieconomicità del comportamento imprenditoriale richiede quindi, da parte dell'amministrazione, la dimostrazione dell'inattendibilità della condotta, anche considerati i diversi indici che presiedono la stima della redditività dell'impresa (Cassazione nn. 13468/2015 e 21869/2016) a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cassazione n. 25257/2017). Pertanto, in tema di imposte dirette, l'Amministrazione finanziaria, nel negare l'inerenza di un costo, può anche contestare l'incongruità e l'antieconomicità della spesa, che assumono appunto rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza, pur non identificandosi in essa. Né è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto, da cui ricavarne, oltre che l'importo, la ragione e la coerenza economica, laddove comunque le fatture non possono, ex se, dimostrare l'esistenza, inerenza e la proporzionalità delle somme impegnate. La nozione fiscale di inerenza deve, in sostanza, essere riallineata al fenomeno economico peculiare all'esercizio dell'attività d'impresa. L'inerenza costituisce un requisito fondamentale per la determinazione del reddito d'impresa e i costi sono inerenti, in quanto collegati all'attività d'impresa produttiva del reddito soggetto a tassazione. L'art. 109, comma 5, del TUIR, disciplina, del resto, un profilo ulteriore e successivo - le regole di deducibilità dei costi- rispetto all'inerenza, che è presupposta (i costi per essere deducibili debbono anche, e necessariamente, essere inerenti ma non definita dalla norma. Anche in tema di I.V.A., è possibile individuare indicazioni di analoga portata, laddove l'art. 19, primo comma, d.P.R. n. 633/1972 prevede che il soggetto passivo ha diritto di detrarre l'imposta assolta o dovuta … o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell'esercizio dell'impresa, arte o professione". La nozione di inerenza, in sostanza, non è definita, ma "postulata" in relazione ai costi effettuati nell'esercizio dell'attività d'impresa» (Corte Giustizia Trib. 2° grado Bologna, (Emilia-Romagna) sez. VII, 27.01.2023, n.143).
Si evince quindi l'evoluzione giurisprudenziale abbia postulato la definizione di inerenza dalla nozione di reddito d'impresa - e non dal d.P.R. n. 917/1986, art. 75, comma 5, ora art. 109, comma 5, della medesima disposizione normativa, riguardante il diverso principio dell'indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti cioè della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili - ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all'esercizio dell'attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta), in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull'inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo.
La soluzione giuridica
Nell'esaminare il ricorso proposto la Corte rileva che il punto nodale della disamina è l'asserita carenza del requisito dell'inerenza, dunque la riconducibilità del costo sostenuto all'attività di impresa esercitata dalla contribuente. In merito al requisito dell'inerenza, il cui fine è quello di delimitare l'area dei costi che concorrono alla determinazione del reddito, escludendo, appunto, quelli che si collocano all'infuori della sfera riconducibile all'esercizio dell'impresa, il giudicante ritiene che la sussistenza deve essere allegata dal contribuente e che, qualora l'Ufficio disconosca i costi contestando, appunto, il difetto di inerenza, ricostruendo il reddito imponibile fondandosi su presunzioni semplici, spetti all'interessato offrire, a propria volta, idonei elementi probatori atti a smentire la prospettazione.
Tale ripartizione dell'onere probatorio resta ferma anche alla luce del disposto dell'art. 7, comma 5- bis, d.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 come novellato dall'art. 6, L. 31 agosto 2022, n. 130, in tutti i casi in cui il contribuente agisce sulla base di un diritto soggettivo, quale è il diritto alla deduzione dei costi qui in esame, la cui prova soggiace dunque al principio iscritto nell'art. 2697 c.c. e che, pertanto, la prova dell'inerenza di una operazione contestata dall'Ufficio incombe sul contribuente, il quale dovrà, precisamente, provare: l'esistenza e natura della spesa; i relativi fatti giustificativi; la concreta destinazione della spesa all'attività economica dell'impresa. Tuttavia le presunzioni semplici devono essere connotate da ragionevolezza e coerenza in modo che il contribuente possa presentare le proprie deduzioni a contrariis corrispondenti (o superiori) alla valenza probatoria di quelle presentate dall'ADE. Qualora, invece, dovessero risultare debolmente sorrette da elementi meramente circostanziali o ipotetici, non dotati della necessaria univocità e precisione, il corrispondente onere del contribuente non potrà che essere parametrato all'impegno probatorio esigibile per superare la detta presunzione. La presunzione semplice utilizzata dall'ADE tanto più sarà da ritenersi debole quanto più agevole sarà, nel caso di specie, allegare circostanze di segno contrario a quelle indicate dall'ente impositore e tali da porre in dubbio – secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit – la regola statistica cristallizzata nella presunzione medesima. Sotto il profilo dell'onere probatorio, infine, deve ritenersi che, quanto più debole risulterà essere, nel caso concreto, la fondatezza della presunzione azionata dall'ADE, tanto meno rigoroso ed esaustivo dovrà essere l'impegno probatorio esigibile da parte del contribuente per il suo superamento.
Orbene nel caso de quo viene contestata l'esistenza e la natura dei costi, la competenza dei medesimi, oltre alla loro concreta destinazione alla produzione, cioè la correlazione all'attività imprenditoriale svolta e, in ultima l'analisi, l'inerenza e, a tale fine, l'Ufficio si vale di una presunzione semplice per disconoscere le due fatture emesse.
Sul punto, tuttavia, la Corte ritiene che la presunzione semplice di cui si è servito l'Ufficio nel caso che qui occupa appaia fondata su circostanze meramente ipotetiche e contraddette dalle produzioni documentali fornite dalla ricorrente, e dunque, in ultima analisi, non dotata della intrinseca ragionevolezza e coerenza necessarie a sostenere la fondatezza della pretesa impositiva cristallizzata nell'atto oggetto della presente disamina. Di conseguenza, sulla base della sussistenza di ragionevoli elementi di segno contrario a quelli posti alla base della presunzione semplice azionata dall'Ufficio, la pretesa impositiva azionata con gli atti impugnati risulta sfornita del necessario fondamento giuridico; per tale motivo la Corte di Giustizia Tributaria di Udine ha parzialmente annullato gli avvisi di accertamento nella parte in cui operano il disconoscimento dei costi relativi alle fatture evidenziate.
Osservazioni
Mediante la decisione oggetto del presente commento, la Corte di Giustizia di primo grado ha fatto buon governo dei principi dettati in materia.
In particolare, il fulcro della decisione è da rinvenire nella circostanza che la presunzione semplice su cui si fondano gli atti impositivi impugnati appare intrinsecamente priva del necessario coefficiente di razionalità e intrinseca coerenza, dal momento che è agevole contrastare gli assunti che ne fondano la sussistenza con elementi di segno contrario.
La Corte osserva, a tale proposito, che, nelle osservazioni al PVC del 2019, la Società contribuente aveva fin da subito offerto all'Ufficio la possibilità di acquisire informazioni circa l'inerenza dei medesimi dai responsabili delle società entrate in contatto con la ricorrente per la conclusione degli accordi contrattuali, opportunità che l'Ufficio non ha, tuttavia, ritenuto di coltivare.
Le allegazioni documentali prodotte dalla ricorrente inoltre valgono a revocare in dubbio, secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit, la fondatezza degli elementi presuntivi avanzati dall'ADE. In definitiva in tema di utilizzo delle presunzioni semplici e della loro valenza probatoria si deve ritenere che quando queste siano poste alla base del rilievo impositivo, per fondare la relativa pretesa, devono possedere le caratteristiche della intrinseca ragionevolezza e coerenza, tale da far sorgere in capo al contribuente un onere probatorio di corrispondente livello.
Qualora, invece, le presunzioni elaborate dall'Ufficio dovessero risultare debolmente sorrette da elementi meramente circostanziali o ipotetici, non dotati della necessaria univocità e precisione, il corrispondente onere del contribuente non potrà che essere parametrato all'impegno probatorio esigibile per superare la detta presunzione. |