La mancata assunzione di una perizia contabile non può costituire motivo di ricorso per Cassazione

02 Agosto 2023

La vicenda fattuale in commento prende le mosse dalla sentenza resa dalla Corte di Appello di L'Aquila, la quale confermava la pronuncia emessa dal Tribunale di Vasto, con la quale l'imputato era stato giudicato colpevole del delitto di cui all'art. 10, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, e condannato alla pena di un anno di reclusione.
Massima

La mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, c.p.p., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività.

Il caso

Avverso la decisione di secondo grado l'imputato proponeva ricorso per Cassazione affidandolo a svariati motivi.

Per ciò che di interesse, l'imputato contestava, alla Corte di appello, la mancata assunzione di una prova decisiva, oggetto di richiesta di rinnovazione istruttoria, quale una perizia contabile. Questa, in particolare, sarebbe risultata necessaria alla luce della lacunosità, incongruenza e contraddittorietà delle risultanze investigative.

Ne risulterebbe che nessuna prova sarebbe emersa quanto all'effettiva verifica dell'esistenza degli scambi commerciali tra la società amministrata dall'imputato ed altre società, così rendendosi necessaria la perizia richiesta.

Tale tesi non era condivisa dalla Suprema Corte la quale dichiarava il ricorso manifestamente infondato.

Ebbene, la Suprema Corte dichiarava che la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. d), c.p.p., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, c.p.p., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (v. Cass. 9601/2023).

La questione

La questione giuridica sottesa nel caso in esame, verte nello stabilire se la mancata effettuazione di un accertamento peritale, di natura contabile, possa costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p.

La soluzione giuridica

Prima di fornire soluzione alla questione giuridica in premessa, occorre una breve disamina degli istituiti coinvolti nel caso in disamina.

A mente dell'art. 10 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è punito con la reclusione da tre a sette anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

Come osservato anche dal Comando Generale della Guardia di Finanza nella circolare n. 1/2018, la previsione in parola si colloca a tutela della funzione probatoria della contabilità e degli altri documenti di cui è richiesta la conservazione e trova spazio applicativo, allorquando la distruzione o l'occultamento delle scritture e/o dei documenti contabili avvenga, con coscienza e volontà, in modo tale da non consentire la ricostruzione del volume d'affari o dei redditi.

La previsione punitiva è modellata come reato di pericolo concreto, ovverosia non è richiesto che ne sia derivato un danno per l'Erario.

Il totale occultamento di dette scritture, comportando l'impossibilità di ricostruire il reddito soggetto ad imposta, integra certamente l'elemento materiale del reato in questione (v. Cass. 924/2002), caratterizzato dall'elemento psicologico del dolo specifico di danno con riferimento all'evasione.

La condotta non può sostanziarsi in un mero comportamento omissivo, ovvero il non avere tenuto le scritture in modo tale che sia stato obiettivamente più difficoltosa, ancorché non impossibile la ricostruzione ai fini fiscali della situazione contabile, ma richiede un elemento “commissivo con un evento di danno” che consiste nell'occultamento o nella distruzione di tali scritture (v. Cass. 19106/2016).

Peraltro, l'impossibilità di tale ricostruzione deve intendersi in termini non assoluti, ma relativi - dovendo essa essere letta quale difficoltà ricostruttiva -, ben potendo sussistere il reato in argomento laddove l'Amministrazione finanziaria riesca a rideterminare l'obbligazione tributaria mediante l'utilizzo dei propri poteri istruttori quali ad esempio le indagini finanziarie o l'invio questionari (v. Cass. 39711/2009).

Non è prevista alcuna soglia di punibilità e sono sempre possibili l'arresto facoltativo, la custodia cautelare, gli arresti domiciliari e il divieto di espatrio.

Le scritture contabili e i documenti da conservarsi obbligatoriamente - oggetto materiale della condotta - sono quelli che riguardano accadimenti rilevanti da un punto di vista tributario.

Tra le scritture contabili - precisa la circolare emanata dalla Guardia di Finanza - rientrano non solo quelle previste riguardo alle diverse categorie di soggetti, dagli artt. 14 e seguenti del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 23 e seguenti del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ma ogni altra scrittura contabile obbligatoria per legge richiesta in ragione del tipo di attività esercitata dal soggetto attivo.

Si tratta dei seguenti libri e registri:

1) libro giornale;

2) libro degli inventari;

3) libro delle scritture ausiliarie (ovvero il “mastro dei conti”);

4) registri IVA (acquisti, vendite e/o corrispettivi);

5) registro dei beni ammortizzabili;

6) registro delle scritture ausiliarie di magazzino.

Quanto ai documenti, invece, occorre far riferimento a tutti quelli per i quali è fissato, ai fini fiscali, un obbligo di conservazione, come, ad esempio, gli originali delle lettere, dei telegrammi, delle fatture e le copie delle lettere e dei telegrammi spediti nonché i registri, i bollettari, gli schedari, le bollette doganali e gli altri documenti prescritti ai fini IVA. Laddove il contribuente abbia optato per la tenuta con modalità elettronica delle scritture contabili e dei documenti, nel caso in cui il processo di conservazione digitale non venga svolto conformemente alle disposizioni vigenti in materia, i documenti non sono validamente opponibili all'Amministrazione finanziaria.

Il disposto normativo attribuisce rilevanza penale a due diverse fattispecie, connotate ciascuna da una specifica condotta commissiva.

L'occultamento consiste nel tenere nascosti i libri contabili, anche in luoghi diversi da quelli in cui, in base alle comunicazioni dell'Amministrazione finanziaria, dovrebbero essere tenuti; per occultamento si intende qualunque sottrazione della documentazione alla disponibilità dei verificatori, senza bisogno che essa si realizzi attraverso una qualche peculiare condotta (quale potrebbe essere la materiale sottrazione di essa rispetto alla sfera di libero accesso degli organi incaricati della verifica fiscale, ed il suo trasferimento in un luogo definibile come nascosto), essendo più che sufficiente la semplice assenza di essa rispetto al luogo ove, invece, dovrebbe essere custodita e la sua omessa ostensione da parte del contribuente in sede di verifica fiscale.

La consumazione del reato si sostanzia nel celare la contabilità, con qualsiasi forma idonea a renderla irreperibile, allo scopo di non consentire l'esame documentale ai soggetti preposti all'azione ispettiva ai fini fiscali.

L'ipotesi di occultamento delle scritture consiste, quindi, nella temporanea o definitiva indisponibilità della documentazione da parte degli organi verificatori e costituisce un reato permanente, che si consuma nel momento dell'ispezione, e cioè nel momento in cui gli agenti chiedono di esaminare detta documentazione (v. Cass. 13716/2006).

Infatti, è da questo momento, ossia nel momento in cui non si adempie l'obbligo di esibirla o di allegarla alla dichiarazione, che cessa la situazione antigiuridica (anche formale) che si è protratta nel tempo in virtù della condotta dell'autore del reato ed è da questo momento che decorre pertanto il dies a quo per il computo del termine di prescrizione (v. Cass. 15177/2014).

La distruzione, invece, ha ad oggetto l'eliminazione, la soppressione o il disfacimento delle scritture, dei documenti o dei supporti elettronici, così da impedirne la semplice consultazione, ovvero l'azione attraverso la quale la documentazione venga resa inservibile mediante abrasioni, cancellature e simili.

Può aversi distruzione, tanto nel caso di eliminazione fisica della documentazione, quanto in caso di trasformazione della stessa, in modo da renderla inidonea alla ricostruzione dei redditi o del volume di affari.

L'avere recuperato - successivamente alle operazioni di verifica compiute dalla Guardia di Finanza - la documentazione non esibita ai verificatori, presentandola di fronte alla Agenzia delle entrate è circostanza che può solo valere ad interrompere una flagranza ancora in atto, ma essa non esclude il perfezionamento del reato, essendo esso già perfezionato sin dal momento in cui l'occultamento o, a seconda dei casi, la distruzione si sono realizzati.

Ulteriore istituto coinvolto nel caso in esame è l'assunzione della cd. prova contraria ex art. 495 comma 2 c.p.p..

Ciascuna parte processuale, in particolar modo imputato e pubblica accusa, gode del diritto alla prova, potere di dimostrare al giudice determinati fatti rientranti nel thema probandum.

Il Pubblico Ministero, in modo particolare, deve necessariamente, gravando su di lui l'onere d'accusa, dimostrare i fatti oggetto dell'imputazione. L'imputato, per difendersi, deve puntare in via diretta o indiretta, a screditare la tesi dell'accusa, alla quale si oppone.

Il diritto alla prova contraria garantito all'imputato può essere denegato, con adeguata motivazione dal giudice solo quando le prove richieste siano manifestamente superflue o irrilevanti; con la conseguenza che il giudice, dinanzi al quale sia dedotta la violazione dell'art. 495, 2 co., deve decidere sull'ammissibilità della prova secondo i parametri rigorosi previsti dall'art. 190 stesso codice (per il quale le prove sono ammesse a richiesta di parte (v. Cass. 761/2006).

Il diritto all'ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico, che l'art. 495, 2 co., riconosce all'imputato, incontra limiti precisi nell'ordinamento processuale, secondo il disposto degli artt. 188, 189, 190 e, pertanto, deve armonizzarsi con il potere-dovere, attribuito al giudice del dibattimento, di valutare la liceità e la rilevanza della prova richiesta, ancorché definita “decisiva” dalla parte, onde escludere quelle vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti (v. Cass. 2350/2004).

Osservazioni

La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso dell'imputato ha dato seguito al costante indirizzo giurisprudenziale teso ad affermare che la mancata effettuazione di un accertamento peritale (nella specie di natura contabile) non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, c.p.p., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (v. Cass. 960172013 e Cass. SS.UU. 39747/2017).

A detta del Giudice di legittimità, il diritto alla controprova, riconosciuto all'imputato dalla citata norma procedurale, non può avere ad oggetto l'espletamento di una perizia, mezzo di prova non classificabile né a carico, né a discarico dell'accusato e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del Giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione risulta essere insindacabile in sede di legittimità.

Ne deriva che deve negarsi che l'accertamento peritale, da eseguirsi ex novo o acquisirsi da altro procedimento, possa ricondursi al concetto di prova decisiva, la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, lett. d) (v. Cass. 43526/2012 e Cass. 26660/2011).

Più in particolare, da tempo si ritiene che l'accertamento peritale - per sua natura mezzo di prova «neutro» - non può ricondursi al concetto di «prova decisiva», la cui mancata assunzione possa costituire motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell' art. 606, 1 co., lett. d), in quanto il ricorso o meno a una perizia è attività sottratta al potere dispositivo delle parti e rimessa essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità (v. Cass. 7444/2013 e Cass. 5460/2004).

Deve ricordarsi, poi, che la mancata assunzione di una prova decisiva - quale motivo di impugnazione per cassazione - può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'ammissione a norma dell'art. 495, 2 co., sicché il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l'invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all'art. 507 e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (v. Cass. 33105/2003).

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