Imposte sui redditi da capitale: la svolta della Cassazione sul cd. “incasso giuridico” (a partire dall'anno di imposta 2016)

15 Settembre 2023

Una società italiana riceveva, tramite mutuo, un finanziamento fruttifero di dieci milioni di euro da parte della consociata lussemburghese, pattuendo interessi pari al 9% annuo; la consorella mutuante, dopo nove anni dalla sottoscrizione del contratto, cedeva il credito residuo alla controllante e socio unico della mutuataria, anch'essa lussemburghese, la quale, l'anno successivo, rinunciava in toto al credito, sia per la parte in linea capitale, che per la parte in linea interessi (pari a oltre sei milioni di euro).
Massima

In tema di imposte sui redditi di capitale, in forza di quanto previsto dagli artt. 88, comma 4-bis, 94, comma 6, e 101, comma 5, T.U.I.R. a seguito delle modifiche di cui all'art. 13 L. n. 147/2015, la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l'obbligo di tassare il relativo ammontare, con conseguente esclusione anche dell'obbligo di operare la ritenuta fiscale, ai sensi dell'art. 26, comma 5, d.P.R. n. 600/1973, avendo le nuove disposizioni rimediato all'asimmetria fiscale (o “salto d'imposta”) di cui al precedente regime fondato sulla regola dell'“incasso giuridico”.

Il caso

In via prudenziale la contribuente italiana, adeguandosi alle istruzioni fornite dal Fisco, applicava sugli interessi che avrebbe dovuto corrispondere in assenza di rinuncia la ritenuta fiscale del 26% ex art. 26, comma 5, d.P.R. 600/1973, considerandoli pagati alla stregua del cd. “incasso giuridico”, nonostante il pagamento non vi fosse stato per mancanza di effettivo esborso.

Successivamente la contribuente presentava istanza di rimborso della somma versata a titolo di ritenute (pari a circa un milione e seicento mila euro), assumendo, in principalità, che non fosse dovuta essendovi stata rinuncia della creditrice.

Formatosi il silenzio-rifiuto, la contribuente adiva la competente C.T.R., la quale accoglieva il ricorso, argomentando nel senso del venir meno del presupposto impositivo in quanto gli interessi non erano stati pagati e della non condivisibilità della tesi erariale dell'“incasso giuridico”.

La C.T.R., in riforma della sentenza di primo grado, rigettava l'istanza di rimborso della contribuente: supportata da espressi precedenti di legittimità, affermava la correttezza dell'imposizione basata sul presupposto dell'incasso giuridico in quanto la rinuncia presupponeva l'utilizzo del credito anche se non incassato.

La contribuente proponeva, infine, ricorso per cassazione denunciando – per quel che qui rileva – la violazione e falsa applicazione dell'art. 88, comma 4-bis, T.U.I.R. (come introdotto dall'art. 13 D.Lgs. n. 147/2015, applicabile nella fattispecie) ritenuto non più compatibile con la fictio iuris dell'incasso giuridico, assumendo l'inapplicabilità di tale concetto a carico di soggetto (quale nella specie la società lussemburghese) tassato “per competenza” e non “per cassa”.

La Sezione tributaria della Suprema Corte, enunciando il principio di diritto sopra massimato, ha cassato l'impugnata sentenza e non essendovi ulteriori accertamenti di fatto, ha deciso la causa nel merito, ex art. 384 c.p.c., accogliendo l'originario ricorso della contribuente.

La questione

In tema di determinazione del reddito d'impresa, la sentenza annotata torna sulla (dibattuta) teoria del cd. “incasso giuridico”: costruzione giuridica, di natura antielusiva, secondo la quale se il socio rinuncia ad un credito relativo a redditi soggetti al criterio di cassa, si presume che il credito sia stato pagato e quindi si devono pagare le tasse sul suo importo anche applicando la ritenuta d'imposta del 26% di cui all'art. 26-quater d.P.R. n. 600/1973.

Secondo l'impostazione dell'Amministrazione finanziaria – risalente alla circolare n. 73/E del 27 maggio 1994 e confermata in successive risoluzioni – i crediti vantati nei confronti della società partecipata afferenti proventi da tassare per cassa si dovrebbero considerare incassati nel momento in cui vi è la rinuncia da parte del socio creditore, per via dell'incremento del valore fiscale della partecipazione.

Trattasi di una fictio iuris che, guardando alla sostanza della vicenda abdicativa, equipara, sul piano della tassazione, la rinuncia dei crediti ad un incasso (giuridico) pur materialmente inesistente, con conseguente imponibilità dello stesso. La ratio impositiva risiede nell'esigenza di scongiurare “salti d'imposta”, ovvero le asimmetrie fiscali che altrimenti si verificherebbero quando un soggetto (la società-persona giuridica) è tassato per competenza, mentre altro soggetto non in regime d'impresa (il socio-persona fisica) è tassato per cassa: l'obiettivo sarebbe, in sostanza, rimediare alla situazione paradossale in cui, a seguito della rinuncia di un socio ad un credito della società, in capo a quest'ultima non sarebbe emersa nessuna sopravvenienza tassabile pur a fronte di una precedente deduzione per competenza.

L'originario quadro giuridico su cui è maturata questa regola– peraltro discussa in dottrina – è però mutato per effetto dell'aggiunta del comma 4-bis dell'art. 88 T.U.I.R., inserito dall'art. 13 d.Lgs. n. 147/2015 – e applicabile a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello di entrata in vigore del decreto stesso (7 ottobre 2015) – il quale (nel testo tutt'ora vigente) così stabilisce:

«La rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero».

Come emerge dalla relazione illustrativa al d.Lgs. n. 147/2015, con l'introduzione del cit. comma 4-bis è stato riformato il regime fiscale IRES delle rinunce a crediti da parte dei soci, riconducendolo a unità, a prescindere dalla modalità con cui l'operazione viene formalmente svolta, nonché dai principi contabili utilizzati dai soggetti coinvolti: in particolare, tanto per le operazioni di rinuncia diretta a crediti originariamente sorti in capo al socio, quanto per quelle precedute dall'acquisto del credito (o della partecipazione) da parte del socio (o del creditore), il nuovo regime qualifica fiscalmente come “apporto” la sola parte di rinuncia che corrisponde al valore fiscalmente riconosciuto del credito.

La sentenza annotata tratta proprio del tema delle ricadute della novella del 2015 sulla tralatizia teoria dell'“incasso giuridico”.

Le soluzioni giuridiche

In parte motiva la sentenza in commento ricostruisce anzitutto la base normativa da cui muove la teoria dell'incasso giuridico, fondata sul testo (previgente) dell'art. 88 (già 55), comma 4, T.U.I.R. (prima delle modifiche apportate dall'art. 13 d.Lgs. n. 147/2015) che escludeva dalla nozione di sopravvenienze attive, fiscalmente rilevanti, tutte le rinunce dei soci ai crediti vantati nei confronti della società, sia di natura finanziaria che commerciale, indipendentemente dalla loro proporzionalità.

A prescindere dalla dibattuta natura – reddituale o patrimoniale – della rinuncia del socio al credito vantato nei confronti della società, la succitata norma ne sanciva espressamente l'irrilevanza, ai fini della formazione del reddito; detto regime era giustificato – in questo senso si esprimevano, in via di prassi, le risoluzioni n. 41/E del 5 aprile 2001 e n. 152/E del 22 maggio 2022 – dall'interesse del socio alle vicende della società partecipata che induceva a valutare la rinuncia al credito, non alla stregua di un atto di liberalità o della rimessione del debito da parte di un terzo, ma come espressione della volontà di patrimonializzazione della società. Inoltre, l'originario art. 55 (ora 88) T.U.I.R. non prevedeva un limite alla detassazione della sopravvenienza realizzatasi attraverso la rinuncia del socio che, pertanto, avveniva in ragione del valore nominale del credito estinto, a prescindere dal valore fiscale del credito in capo al socio. Dal lato del creditore operavano, armonicamente, sempre nel testo ante riforma del 2015, l'art. 94, comma 6, T.U.I.R. e l'art. 101, comma 7, T.U.I.R., che escludevano gli effetti reddituali della rinuncia anche per il creditore.

Ebbene, questo originario assetto legislativo è mutato – rammenta la sezione tributaria di Piazza Cavour – in virtù delle modifiche apportate dall'art. 13 D.Lgs. n. 147/2015 che hanno trasferito sul successivo comma 4-bis dell'art. 88 T.U.I.R., di nuova introduzione, il trattamento della rinuncia del socio, ivi prevedendosi che la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva solo per la parte eccedete il relativo valore fiscale, imponendosi altresì di comunicare il valore del credito alla partecipata mediante apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio; in assenza di comunicazione, il valore assunto è pari a zero, con conseguente tassazione dell'intera rinuncia, fiscalmente qualificata come sopravvenienza attiva.

Correlativamente, gli artt. 94, comma 6, e 101, comma 7, T.U.I.R. hanno stabilito, sul versante del socio, che l'ammontare della rinuncia al credito che si aggiunge al costo della partecipazione è nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia; che la rinuncia non è ammessa in deduzione e che il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione sempre nei limiti del valore fiscalmente riconosciuto dal credito.

Il nuovo regime – osserva il dictum in disamina – ha pertanto posto in correlazione il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia e la detassazione: a seguito della rinuncia, infatti, il socio aumenta il costo della partecipazione solo nei limiti del valore fiscale del credito e la società beneficia di una sopravvenienza non tassabile solo nei limiti di detto valore.

Pertanto – sentenzia oggi la Cassazione, discostandosi dai propri precedenti – accade che la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa, non incrementa [più] il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime sia dall'Agenzia delle entrate che dalla pregressa giurisprudenza di legittimità a sostegno della teoria dell'incasso giuridico (nel senso che con la rinuncia viene meno l'incasso materiale ma non la disponibilità giuridica del credito utilizzato per patrimonializzare la società, vedi già Cass. civ., Sez. 5, n. 26842/2014; Cass. civ., Sez. 6-5, n. 2057/2020; Cass. civ., Sez. 6-5, n. 12222/2022; Cass. civ., Sez. 5, n. 12223/2022; Cass. civ., Sez. 6-5, n. 22609/2022).

Di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata.

Conclusivamente, per la Corte regolatrice le asimmetrie cui la regola dell'incasso giuridico intendeva porre rimedio sono state risolte dal legislatore mutuando la disciplina dell'art. 88 T.U.I.R. sul versante della società partecipata (e degli artt. 94 e 101 T.U.I.R. sul versante del socio creditore), di talché la tesi dell'Amministrazione finanziaria sull'incasso giuridico è divenuta ormai insostenibile per effetto della novella apportata dall'art. 13 d.Lgs. n. 147/2015.

Osservazioni

Con la decisione annotata la Sezione tributaria della Cassazione afferma per la prima volta che la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, a un credito relativo a un reddito tassato per cassa, non comporta l'obbligo di assoggettare a tassazione il relativo ammontare, con conseguente esclusione anche dall'obbligo di operare la ritenuta fiscale.

Pur non “affossando” – completamente e definitivamente – la tralatizia tesi erariale dell'incasso giuridico, la Suprema corte ne sancisce superamento per ius supeveniens (quantomeno) a partire dal periodo di imposta 2016 (per i soggetti “solari”) in ragione dell'importante distinguooperato in sentenza tra la disciplina tributaria attuale (come esitata dal D.Lgs. n. 147/2015, entrato in vigore il 7 ottobre 2015) e quella previgente. Come a dire che solo rispetto al regime fiscale ormai superato la fictio iuris dell'incasso giuridico può – rectius: poteva – ritenersi normativamente giustificata.

Con la sentenza in esame la Cassazione, insomma, prende atto della nuova disposizione e, almeno per i periodi d'imposta successivi al 7 ottobre 2015, rivede le proprie posizioni, finora aderenti all'impostazione dell'Amministrazione finanziaria, predicate in vicende riguardanti per lo più crediti per interessi (Cass. civ., Sez. 5, n. 7636/2017; Cass. civ., Sez. 6-5. n. 2057/2020), per royalties da parte del socio (Cass. civ., Sez. trib., n. 26842/2014) o in materia di trattamento di fine mandato (Cass. civ., Sez. 6-5, n. 1335/2016).

La tesi dell'incasso giuridico risale – in via di prassi interpretativa – alla circolare ministeriale n. 73/E del 26 maggio 1994 ed ha trovato conferma anche in successive risoluzioni, tra cui la n. 124/ del 13 ottobre 2017 che – successivamente alla novella del 2015 – ne ha ribadito la validità, limitandosi a precisare:

  • la tassabilità dell'amministratore-socio persona fisica che abbia rinunciato al trattamento di fine mandato (TFM), in quanto il credito s'intende giuridicamente incassato, mentre la società non tassa alcuna sopravvenienza attiva ai sensi del comma 4-bis dell'art. 88 T.U.I.R., non essendo ravvisabile alcuna differenza tra il valore fiscale dei crediti rinunciati e il loro valore nominale. Allo stesso modo, non è richiesta la comunicazione alla società partecipata del valore fiscale dei crediti oggetto di rinuncia, non potendo verificarsi, in assenza di un'attività di impresa, quelle distorsioni che il legislatore ha inteso scongiurare attraverso l'introduzione del citato comma 4-bis;
  • la non tassabilità dell'amministratore-non socio in applicazione dell'art. 88, comma 1, T.U.I.R., con la conseguenza che è invece la società a dover tassare la sopravvenienza attiva nei limiti delle quote di TFM accantonate e dedotte.

Prima dell'odierno dictum – che potrebbe portare ad un definitivo abbandono da parte del Fisco della teoria dell'incasso giuridico nell'ambito di rilievi privi di qualsiasi contenuto elusivo o di salti d'imposta – già l'Associazione italiana Dottori commercialisti ed esperti contabili con la norma di comportamento n. 201/2018 (che ha trattato il caso di amministratore-socio) aveva contestato l'indirizzo di prassi rilevando come la posizione dell'Amministrazione finanziaria, già arbitraria prima del d.Lgs. n. 147/2015, dovesse ritenersi “definitivamente caducata” per effetto delle nuove disposizioni, in quanto la rinuncia a un credito con valore fiscale nullo comporta la rilevanza integrale della sopravvenienza attiva: in altri termini, nell'attuale regime, “l'imposizione è sistematicamente trasferita in capo alla società partecipata debitrice”.

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