L’ex moglie che si è dedicata alla famiglia ha diritto all’assegno divorzile a prescindere dalle ragioni della scelta
10 Ottobre 2023
La Corte d'Appello di Perugia confermava la decisione di prime cure con cui, a seguito dello scioglimento del matrimonio, era stato negato il diritto all'assegno divorzile a favore dell'ex moglie. Quest'ultima ha proposto ricorso per cassazione dolendosi per aver il giudice di merito ritenuto irrilevante la situazione di disparità reddituale tra gli ex coniugi, finendo per giustificare con la sua autosufficienza economica il rigetto della domanda di attribuzione dell'assegno. Tenendo invece conto della funzione perequativo-compensativa dello stesso, il giudice avrebbe invece dovuto effettuare una valutazione in concreto sull'adeguatezza del reddito della donna, rapportandolo al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare. Il ricorso trova accoglimento. Secondo la recente giurisprudenza, l'assegno di divorzio, nella sua funzione assistenziale e parimenti compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, avendo dunque abbandonato il criterio del tenore di vita godibile durante il matrimonio. Ciò posto, il giudice è chiamato ad una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, «in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto». La natura perequativo-compensativa, poi, «discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo, volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, ma il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate». Concludendo, il giudice deve «accertare la necessità di compensare il coniuge economicamente più debole per il particolare contributo dato, durante la vita matrimoniale, alla formazione del patrimonio comune o dell'altro coniuge, nella constatata sussistenza di uno squilibrio patrimoniale tra gli ex coniugi che trovi ragione nelle scelte fatte durante il matrimonio, idonee a condurre l'istante a rinunciare a realistiche occasioni professionali-reddituali, la cui prova in giudizio spetta al richiedente (Cass. civ. n. 9144/2023; Cass. civ. n. 23583/2022; Cass. civ. n. 38362/2021)». Con riferimento all'onere della prova infine viene richiamata la pronuncia delle Sezioni Unite n. 32198/2021 con cui è stato affermato che «l'instaurazione di una stabile convivenza di fatto con una terza persona non necessariamente esclude la possibilità per l'ex coniuge di ottenere l'attribuzione di un assegno divorzile, sia pure limitatamente alla componente perequativo-compensativa, ha precisato che, a tal fine, il richiedente deve fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, dell'eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell'apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge». Applicando tali principi al caso di specie, la pronuncia risulta contraddire l'attuale cornice giurisprudenziale. La Corte d'appello affermato che non vi era la prova che il contributo della moglie alla vita comune avesse comportato serie rinunce ad attività professionali, dipendenti esclusivamente dalla scelta di dedicare maggior tempo ai figli e a lasciare più libero il marito nell'esplicazione della professione medica e di quella parallela di politico. Ma, precisa il Collegio, è irrilevante quale sia il motivo sotteso alla scelta di dedicarsi maggiormente alla famiglia, operata da uno dei coniugi e accettata dall'altro, né rileva che tale scelta comporti o meno una dedizione totale ed esclusiva al coniuge e ai figli. Infine, «ai fini dell'attribuzione dell'assegno in questione, ciò che conta è il sacrificio lavorativo o professionale per dedicarsi alla famiglia, senza che sia necessario che tale sacrificio si sostanzi in un abbandono “totale” del lavoro al di fuori della famiglia, né che il patrimonio familiare e quello dell'altro coniuge siano incrementati “esclusivamente” grazie al contributo del coniuge che ha operato tale sacrificio, essendo sufficiente un contributo di quest'ultimo alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune, a scapito delle sue occupazioni lavorative o di avanzamenti di carriera. È pertanto evidente che il fatto che il richiedente l'assegno di divorzio abbia sempre potuto continuare a lavorare non assume alcun rilievo, essendo invece necessaria e sufficiente la dimostrazione del sacrificio economico sopportato per aver rinunciato ad attività lavorative o ad occasioni di crescita professionale al fine di dedicarsi maggiormente alla famiglia». La sentenza impugnata viene in conclusione annullata con rinvio alla Corte territoriale. Fonte: dirittoegiustizia.it |