Malattia professionale: polifunzionalità valoriale del lavoro e risarcibilità del danno morale

16 Ottobre 2023

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla malattia professionale, il giudice di merito deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto.

Massima

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, in quanto provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti.

Il caso

L'autista di un'azienda siciliana di trasporti subiva un grave infarto coronarico, a seguito del quale si rendevano necessari ben tre interventi chirurgici di impianto di bypass. A causa della sopravvenuta inidoneità alle precedenti mansioni il lavoratore veniva in un primo momento adibito ad un lavoro sedentario, ma in conseguenza del peggioramento del suo quadro clinico, ne seguiva dopo un breve lasso di tempo il licenziamento.

L'ex dipendente citava in giudizio la società datrice, assumendone la responsabilità per quanto accaduto e dunque azionando a vario titolo le proprie pretese risarcitorie. La decisione resa in prime cure veniva impugnata, sicché la vicenda approdava avanti alla Corte d'Appello di Messina. Questa, accogliendo solo parzialmente le censure sviluppate dall'azienda di trasporti, dichiarava il diritto del lavoratore al risarcimento del danno da malattia professionale, quantificandolo in un importo di circa 150.000 euro, al lordo delle somme indennizzabili da INAIL. Secondo la Corte siciliana dovevano infatti ritenersi positivamente accertati nella specie sia il nesso eziologico tra le mansioni espletate e l'evento patito, che la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. Quest'ultima, in particolare, derivante dalle inadeguate condizioni organizzative dell'attività, caratterizzate da un costante superamento dell'orario contrattuale e da un eccessivo carico di lavoro. Avverso tale pronuncia la società interponeva ricorso per Cassazione affidandolo a tre motivi. A questi resisteva il lavoratore con un controricorso e un ricorso incidentale, al quale replicava la ricorrente principale con un ulteriore controricorso. Le prime due censure della società ricorrente, tra loro connesse, deducevano essenzialmente un proprio supposto difetto di legittimazione passiva in riferimento alle pretese di ristoro dell'ex dipendente. Secondo la tesi seguita dalla società di trasporti legittimato passivo al giudizio non avrebbe infatti potuto che essere esclusivamente INAIL, dovendosi avere riguardo, in particolare, al momento in cui la patologia era stata denunciata come di origine professionale.

Gli Ermellini respingevano però come del tutto infondata la tesi ricostruttiva della ricorrente, evidenziando soprattutto le diverse finalità e i rispettivi ambiti di operatività della tutela indennitaria, affidata ad INAIL, e di quella risarcitoria, incardinata nel sistema universalistico della responsabilità civile. Nel caso di specie, appunto, pienamente operante attesa la conclamata violazione da parte dell'impresa datrice delle norme prevenzionistiche e di sicurezza. Il terzo profilo di gravame sviluppato dalla società datrice, una sorta di summa alquanto eterogenea contenente vari livelli di censura pertinenti - vuoi all'affermazione delle responsabilità datoriale, vuoi alla lettura della consulenza tecnica dell'ufficio - veniva anch'esso disatteso dalla Corte. Analoga sorte subivano anche due dei tre motivi di gravame fatti valere con il ricorso incidentale del lavoratore. Il primo, sempre attinente al presunto malgoverno dell'istruttoria tecnica, il secondo, riguardante l'intervenuta deduzione delle indennità INAIL, in tesi, anch'essa errata. Liquidati i relativi argomenti con una succinta motivazione, i giudici del Supremo Collegio si soffermavano invece sulla terza questione critica posta dal ricorrente incidentale, incentrata sul mancato riconoscimento da parte della corte territoriale del danno morale, pure rivendicato dallo sfortunato autista.

La questione

La  censura sviluppata dal lavoratore si appunta, più in particolare, su un passaggio della decisione impugnata, stando al quale non sarebbero sussistite nella specie le condizioni per l’attribuzione in suo favore di altre voci di pregiudizio eccedenti il biologico “puro”, non ravvisandosi - segnatamente - i presupposti per una “personalizzazione del danno sotto ogni profilo rilevante e attinente ai riflessi sull’integrità psico biologica, al condizionamento e al pregiudizio nello svolgimento delle sue attività aredittuali”, nonché soprattutto per il riconoscimento di qualsivoglia “profilo morale”. Ciò a maggior ragione, sempre secondo l’iter argomentativo seguito dalla corte d’appello, avendo il lavoratore comunque omesso di dedurre al riguardo specifiche tesi di prova.

Lo spunto problematico sottoposto allo scrutinio dei giudici di piazza Cavour verte dunque, principalmente, sulla questione relativa alla natura dogmatica del c.d. danno morale e alla sua connotazione rispetto alle altre voci pertinenti alla medesima area “ampia” del danno non patrimoniale. Ma, allo stesso tempo, il quesito dà alla corte di legittimità il destro di esprimere il proprio orientamento su due diverse, e più estese, aree tematiche sottese allo specifico motivo di gravame. La prima, riguardante nella sostanza l’articolazione interna e la struttura teleologica della categoria - unitaria - del danno non patrimoniale, la seconda attinente invece e più specificamente al profilo probatorio sottostante all’accertamento e riconoscimento degli specifici pregiudizi ammessi al meccanismo di compensazione risarcitoria.  

Le soluzioni giuridiche

I supremi giudici accolgono la doglianza dedotta con il ricorso incidentale, dando peraltro continuità ad una linea ermeneutica in parte già tracciata, in riferimento a vicenda consimile, anche da un recente arresto di legittimità (cfr. Cass. civ. 17 giugno 2022, n. 19621) ed ispirato anch'esso, come la decisione in commento, ad ampiamente consolidati insegnamenti della stessa Corte nomofilattica in punto di danno morale (cfr. Cass. civ., Sez. III, 28 settembre 2018, n. 23469) e, più in generale, di accertamento e prova delle varie componenti dell'(unitario) danno non patrimoniale. L'iter argomentativo seguito nel caso di specie muove da un neppure troppo celato rimbrotto indirizzato ai (sul punto, per vero, tutt'altro che impeccabili) colleghi di merito siciliani. I giudici del massimo Collegio si chiedono infatti, esordendo in relazione al caso sottoposto al loro vaglio, “per quale motivo comprensibile…non ricorressero le condizioni per apprezzare e liquidare il danno morale”.

Interrogativo, questo, in effetti più che pertinente, attese le severe e multifattoriali conseguenze personali connesse alla vicenda dello sfortunato autista. Nel richiamare i ben noti principi ermeneutici rinvenibili anche nei precedenti prima richiamati, la Cassazione torna dunque a tratteggiare - intanto - il profilo dogmatico del c.d. danno morale, predicandone ancora una volta la specifica connotazione autonoma all'interno del complessivo sistema del danno non patrimoniale.

Entro quest'ultimo il danno morale dà rilievo “ai pregiudizi…che attengono alla dignità ed al dolore soggettivo, rilevanti sotto il profilo del dolore, della vergogna, della disistima di sé, della paura, della disperazione, che sono differenti ed autonomamente apprezzabili sul piano risarcitorio rispetto agli effetti dell'illecito incidenti sul piano dinamico-relazionale”. Da tale premessa, ulteriormente sviluppata come in massima (v. supra) si procede poi verso l'ulteriore profilo relativo alla prova, quanto mai spinoso attesa la natura spesso fenomenologicamente sfuggente e difficilmente misurabile di tale particolare pregiudizio. Qui la pronuncia, nell'auspicare implicitamente che le oggettive difficoltà istruttorie non determinino un possibile vuoto di tutela, evoca e passa in rassegna “tutti i necessari mezzi di prova”, soffermandosi in particolare – ed evidentemente – sugli strumenti del fatto notorio, delle massime di esperienza e delle presunzioni. Avvalendosi opportunamente dei quali, anche queste aree di pregiudizio di più arduo accertamento, potranno ottenere adeguata copertura risarcitoria. Il ciclo del ragionamento si chiude con un'interessante, e per quanto consta a chi scrive inedita, notazione circa la particolare pregnanza - “la polifunzionalità valoriale” - del lavoro come diritto in sé dell'individuo e dunque delle ricadute del suo opposto, vale a dire dell'impossibilità, conseguente alla malattia o all'infortunio, di continuare a svolgerne uno. Notazione che peraltro sembra non casuale, attesa la postura talora piuttosto guardinga della giurisprudenza giuslavoristica, non sempre o non del tutto a proprio agio con le categorie e i plurimi distinguo propri del dibattito risarcitorio.

Osservazioni

Il collegio evidenzia infatti come il lavoro non sia tutelato dalla Legge Fondamentale (e dunque dal sistema risarcitorio) solo nella sua essenza sinallagmatica, ma anche sui diversi piani della sfera collettiva sociale, come pure della dignità individuale, essendo esso “inseparabile dall’essere umano che lo presta” e contribuendo a determinarne la piena realizzazione professionale e umana.

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