Una società UE, anche se non possiede una stabile organizzazione in Italia, può usufruire della PEX
25 Ottobre 2023
Massima Secondo la Corte di Cassazione, una società europea, senza stabile organizzazione in Italia, può usufruire del regime PEX, previsto per le società italiane ex art. 87 del TUIR, e, quindi, non applicare l'art. 151 che qualifica come reddito diverso il provento di tale cessione, pena una violazione degli art. 49 T.F.U.E. e art. 63 T.F.U.E.: e questo a prescindere da quanto stabilito dalla Convenzione contro le doppie imposizioni. Il caso In particolare, una società francese ha presentato una richiesta di rimborso della maggiore imposta pagata in Italia a seguito di una cessione di una partecipazione di controllo in una società italiana, pari alla differenza tra il 13,673 per cento della plusvalenza che è stato versato (pari al 27,5 per cento del 49,72 per cento secondo quanto previsto dall'art. 68, comma 3 (ora abrogato), del TUIR) e l'1,375 per cento che avrebbe pagato se fosse stata una società residente in Italia società residenti ( pari al 27,5 per cento del 5 per cento secondo quanto previsto dall'art. 87 del TUIR). Le motivazioni di tale richiesta si sono basate sul fatto che la disposizione italiana che regola l'imposizione delle plusvalenze derivanti dall'alienazione di partecipazioni, in capo a soggetti non residenti e privi di stabile organizzazione in Italia, violerebbe gli artt. 49 e 63 del T.F.U.E. Infatti, sarebbe evidente che, mentre per i soggetti residenti o non residenti dotati di stabile organizzazione in Italia è prevista, per le plusvalenze in regime P.Ex. ai sensi dell'art. 87 del TUIR, l'esenzione al 95 per cento, per il soggetto non residente e privo di stabile organizzazione in Italia la tassazione è regolata dal combinato disposto degli artt. 152, comma 2, (nella formulazione vigente ratione temporis, poi sostanzialmente trasfusa nell'art. 151 ad opera del d.Lgs. n. 147/2015, art. 7, comma 1, lett. b), e 68, comma 3, del TUIR, nella formulazione vigente ratione temporis. È stato quindi sostenuto che tale diversa imposizione sia in una situazione del tutto sovrapponibile a quella esaminata dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea nella decisione 19/11/2008, causa C-540/07, Commissione c. Italia, in relazione alla imposizione dei dividendi pagati a società non residente. L'Agenzia si è opposta a questa richiesta, sostenendo che, nel caso di cessione di partecipazioni, non si verificherebbe una doppia imposizione economica vietata, e, quindi una violazione dei suddetti articoli del del T.F.U.E., al contrario, invece, di quanto sarebbe previsto per i dividendi di cui si è occupata la Corte di Giustizia Europea di cui sopra. Secondo la tesi erariale, l'eliminazione della doppia imposizione sarebbe, quindi, garantita dalla Convenzione contro le doppie imposizioni che prevedere il riconoscimento di un credito di imposta. La Cassazione ha respinto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, soccombente anche nei precedenti gradi di giudizio, sostenendo che il mancato rimborso avrebbe violato l'art. 49 del T.F.U.E. , il quale prevede che le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate e che tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro, principio evidentemente rilevante ove vengano in rilievo, come nel caso di specie, partecipazioni di controllo. A questo punto è opportuno soffermarsi sulla normativa di riferimento. Le questioni Partendo da una interpretazione letterale della norma all'epoca in vigore prevista dall'art. 152 (ora 151) del TUIR, l'Agenzia delle Entrate ha sostenuto che l'art. 87 non sarebbe stato possibile applicarlo al caso in esame. Il primo profilo di censura del ricorso erariale si è esplicato nell'affermazione che la diversità di trattamento, tra le società residenti e non residenti con stabile organizzazione e le società non residenti prive di stabile organizzazione, nella determinazione della misura della base imponibile nella imposizione delle plusvalenze da cessione di partecipazioni sia giustificata, in quanto non ricorrerebbe la medesima ratio posta a fondamento della decisione della Corte di giustizia relativa ai dividendi; tale ratio, che non varrebbe per le cessioni delle partecipazioni, sarebbe infatti quella di evitare la doppia imposizione economica. Il secondo profilo di censura erariale si è fondato sulla possibilità di recuperare l'imposta versata in Italia con un credito di imposta in Francia, eliminando così in fatto il rischio di doppia imposizione in forza della Convenzione tra Italia e Francia contro la doppia imposizione. In merito, viene specificato che l'art. 24, par. 2 della Convenzione prevede che gli utili e gli altri redditi che provengono dall'Italia e che sono ivi imponibili conformemente alle disposizioni della Convenzione, sono parimenti imponibili in Francia allorché sono ricevuti da un residente della Francia. L'imposta italiana non è deducibile ai fini del calcolo del reddito imponibile in Francia. Ma il beneficiario ha diritto ad un credito di imposta nei confronti dell'imposta francese nella cui base detti redditi sono inclusi. Detto credito di imposta è pari: - con riferimento ai redditi previsti agli artt. 10, 11, 12, 16, 17 e al paragrafo 8 del protocollo annesso alla Convenzione, all'ammontare dell'imposta pagata in Italia conformemente alle disposizioni di detti articoli. Esso non può tuttavia eccedere l'ammontare dell'imposta francese relativa a tali redditi. La soluzione giuridica L'art. 23, comma 1, lettera f), del TUIR, sancisce che si considerano tassate in Italia le cessioni, effettuate da soggetti non residenti, di partecipazioni in società italiane con esclusione delle plusvalenze riferite a partecipazioni non qualificate quotate nei mercati regolamentati. Inoltre, l'art. 5, comma 5, del d.lgs. 461/97, sancisce che, per i soggetti residenti in Stati e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni, non siano tassate le cessioni in società italiane, se la partecipazione viene definita come non qualificata. Per la verifica del luogo di tassazione, è necessario anche verificare cosa prevedono le convenzioni contro le doppie imposizioni, in quanto, in alcuni casi, è sancita la tassazione esclusivamente nello stato di residenza del soggetto cedente. Nel caso oggetto della sentenza in esame, si applicava il trattato stipulato con la Francia che prevede la tassazione concorrente tra i due stati. In merito, nella sentenza in esame viene specificato che l'art. 13, par. 4 della Convenzione, prevede che gli utili derivanti dall'alienazione di ogni altro bene diverso da quelli menzionati ai paragrafi 1, 2 e 3 sono imponibili soltanto nello Stato di cui l'alienante è residente ma la regola generale prevede poi una deroga nel Protocollo aggiunto alla Convenzione, di cui il primo forma parte integrante; al par. 8, lett. b) è previsto infatti che nonostante le disposizioni del paragrafo 4 dell'art. 13, gli utili derivanti dall'alienazione di azioni o di quote diverse da quelle considerate alla lettera a) e facenti parte di una partecipazione importante nel capitale di una società residente di uno Stato, sono imponibili in detto Stato, secondo le disposizioni della sua legislazione interna. Si considera che esista una partecipazione importante se il cedente, da solo o con persone associate o collegate, dispone direttamente o indirettamente di azioni o di quote che danno complessivamente diritto ad almeno il 25% degli utili della società. Relativamente alla tassazione in Italia, la misura dell'imposizione per le società non residenti in Italia è regolata dall'art. 152 del TUIR (nella formulazione vigente ratione temporis, poi sostanzialmente trasfusa nell'art. 151 ad opera del d.lgs. n. 147/2015, art. 7, comma 1, lett. b). Ove si tratti di società non residente, ma con stabile organizzazione in Italia, è previsto un rinvio alle disposizioni della sezione II del capo II del Titolo II del TUIR, e quindi anche all'art. 87 del TUIR, che prevede, per le plusvalenze da cessione di partecipazione, una esenzione del 95 per cento, ove ricorrano i requisiti P. Ex. L'articolo 87, rubricato “Plusvalenze esenti”, richiede infatti, al comma 1, il rispetto di quattro requisiti per poter beneficiare del regime di parziale esenzione. In sintesi, è necessario che:
La norma precisa poi che i requisiti relativi alle lettere c) e d) debbano sussistere ininterrottamente, al momento del realizzo, almeno dall'inizio del terzo periodo d'imposta anteriore al realizzo stesso. Ove si tratti di società non residenti e prive di stabile organizzazione in Italia, è previsto invece che per i redditi percepiti in Italia non valga il principio di onnicomprensività dei redditi di impresa, con la conseguenza che i singoli redditi sono tassabili secondo le regole proprie, previste dal titolo I, relative alla singola categoria di reddito. Osservazioni In merito alla prima censura, la sentenza in esame ha sancito che la disciplina della cessione delle partecipazioni è stata assimilata a quella dei dividendi societari, anche se a differenza dei primi, per i quali il beneficio è generalizzato, per le plusvalenze il beneficio (riconoscimento della P. Ex. nella misura del 95 per cento) vale solo per le imprese meritevoli, in presenza delle quattro condizioni di cui all'art. 87 dei cui sopra. In altri termini, il regime di esenzione delle plusvalenze e il regime di esclusione dei dividendi rispondono alla medesima ratio che è quella di evitare la doppia imposizione economica, avendo come presupposto l'assunto che la tassazione del socio duplicherebbe la tassazione del reddito della società partecipata, la diversa terminologia riflettendo il diverso regime di deducibilità dei costi connessi. E ad analoghe conclusioni è pervenuta la stessa Agenzia delle entrate (circolare 4 agosto 2004 n. 36) che ha ritenuto che il regime di esenzione delle plusvalenze e la parziale esclusione da imposizione dei dividendi rappresentano due aspetti della riforma del sistema fiscale, tra loro funzionalmente connessi. La detassazione delle plusvalenze da realizzo di partecipazioni costituisce il logico corollario del nuovo regime di tassazione dei dividendi, che sono parzialmente esclusi da imposizione, siano essi di fonte nazionale ovvero estera (con l'eccezione degli utili derivanti da società residenti nei cd. paradisi fiscali). Infatti, è evidente che i nuovi regimi di tassazione dei dividendi e delle plusvalenze danno attuazione al principio, desumibile dalla relazione al disegno di legge delega, secondo cui la determinazione del prelievo va baricentrata sulla situazione oggettiva dell'impresa e non su quella soggettiva del socio. Sia il dividendo che la plusvalenza originano da redditi che tendenzialmente devono essere tassati in capo al soggetto che li ha prodotti (società partecipata) considerando fiscalmente neutre, attraverso la previsione dell'esenzione, tutte le manifestazioni reddituali successive alla produzione di tali redditi. Secondo la Suprema Corte, la ratio della disciplina che prevede l'esclusione da imposizione dei dividendi e quella della disciplina che prevede l'esenzione delle plusvalenze siano le medesime, e cioè la necessita di evitare una doppia imposizione economica del medesimo flusso reddituale. Pertanto, anche al caso della cessione delle partecipazioni, si devono applicare i principi stabiliti dalla Corte di Giustizia, sopra citata, in termini di dividendi, secondo la quale non ci devono essere discriminazioni nel trattamento fiscale tra soggetti residenti e quelli non residenti. Relativamente, invece, alla seconda censura, è necessario ricordare che la Corte di Cassazione (Ordinanza del 16 febbraio 2022 n. 5152) ha sancito, in merito alla tassazione dei dividendi, che l'eliminazione della disparità di trattamento tra società̀ percipienti in ambito UE o SEE rispetto alle percipienti italiane si pone su di un piano diverso rispetto a quello della eliminazione della doppia imposizione, tanto che la stipulazione, da parte dello Stato membro, di una convenzione finalizzata ad elidere, o quantomeno limitare, quest'ultimo fenomeno potrebbe lasciare integra la disparità di trattamento, allorquando la società̀ percipiente in altro Stato membro non abbia modo di compensare in tale Stato l'imposta pagata in Italia a mezzo di ritenuta, come succede, ad esempio, quando i dividendi sono tassati parzialmente. Per questo motivo, è necessario che l'applicazione della convenzione contro la doppia imposizione permetta di compensare gli effetti della differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale. Infatti, solo nell'ipotesi in cui l'imposta trattenuta alla fonte, in applicazione della normativa nazionale, possa essere detratta dall'imposta, dovuta nell'altro Stato membro, per un ammontare pari alla differenza di trattamento derivante dalla normativa nazionale la differenza di trattamento tra i dividendi distribuiti a società stabilite in altri Stati membri e i dividendi distribuiti alle società residenti scompare totalmente. Conseguentemente, la stipulazione ed il contenuto di una convenzione internazionale contro le doppie imposizioni possono comportare la non compatibilità del sistema tributario nazionale con i principi espressi dal T.F.U.E. in materia di libera circolazione dei capitali, come è stato sancito per il caso deciso con la sentenza in esame. La sentenza in esame respinge il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, sancendo che anche ai soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione, è possibile applicare la normativa ex art. 87 del TUIR: Per quanto riguarda la disciplina della determinazione del reddito di tali soggetti, si ricorda che l'art. 151 del TUIR, rinvia alle specifiche categorie previste per le persone fisiche, tra le quali vi è quella dei redditi finanziari. Pertanto, secondo tali disposizioni, la cessione di una partecipazione qualificata italiana da parte di un soggetto estero sconterebbe attualmente la tassazione sostitutiva del 26%, al contrario di quanto succederebbe se fosse una società italiana a procedere al trasferimento; in questo caso si applicherebbe il regime c.d. Pex ex art. 87 del TUIR e quindi la tassazione sarebbe dell'1,2% (Ires al 24% su una base imponibile del 5%). Come sancito dalla giurisprudenza di merito (C.T. Prov. Milano 24.10.2019 n. 4406/6/19), però, se la società estera dimostra di possedere i requisiti di cui all'art. 87 del TUIR per potere beneficiare della Pex, può certamente essere destinataria dell'applicazione del principio di portata generale affermato dalla Corte di Giustizia Europea in base al quale non è consentito trattare differentemente ai fini fiscali una società nazionale (italiana) rispetto ad una comunitaria (francese), costituendo, nel caso, una violazione del Trattato Europeo. Infatti, secondo i giudici comunitari, rappresentano restrizioni ingiustificate delle libertà fondamentali stabilite dal diritto europeo quelle disposizioni disposte da norme nazionali che trattano in modo differente società appartenenti a Stati diversi (Corte di giustizia 19.11.2009 n. C-540/07). Conseguentemente una società estera senza stabile organizzazione in ITALIA potrebbe usufruire del regime PEX anche in deroga a quanto stabilito dal TUIR, dal momento che, come sancito dalla sentenza della Corte di Cassazione in esame, una diversa interpretazione non appare un elemento in grado di rilevare ai fini in esame e tale da giustificare il diverso trattamento dei redditi da plusvalenza, che porterebbe ad una lesione dei principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione dei capitali, di cui agli artt. 49 e art. 63 T.F.U.E. |