Contratto (atipico) di locazione di cosa futura e disciplina giuridica applicabile

06 Dicembre 2023

Con la sentenza in commento, la Cassazione, applicando la teoria c.d. dell'assorbimento o della prevalenza, ha confermato l'impugnata sentenza, la quale aveva qualificato, come locazione di cosa futura, il contratto in cui era pattuito il godimento di una pluralità di fabbricati, che il locatore si impegnava a costruire, entro un certo termine e secondo caratteristiche concordate, da adibire ad archivi, uffici e magazzini del conduttore (nella specie, l’Agenzia delle Entrate), puntualizzando che la riduzione del canone di locazione imposta dalla spending review, ai sensi del d.l. n. 95/2012, convertito in l. n. 135/2012 - che, ad ogni buon conto, sfugge alle censure di illegittimità costituzionale - non è applicabile solo ai contratti di locazione, bensì ad ogni contratto volto al conseguimento, da parte di Enti pubblici, della disponibilità di un bene destinato a soddisfare un'esigenza pubblicistica, prescindendo dalla fonte del rapporto, per cui è irrilevante qualificare il contratto all'origine di tale disponibilità come locazione pura e semplice o come misto appalto-locazione.

Massima

Il contratto di locazione di cosa futura è un contratto atipico, a cui è applicabile la disciplina della locazione se l'intento perseguito dalle parti contrattuali è quello, proprio della locazione, del conseguimento del godimento della cosa, laddove il lavoro sia solo il mezzo per produrla, e non già quello, proprio dell'appalto, dell'attività realizzatrice della res, essendo irrilevante, a tal fine, la previsione di un termine entro cui la cosa (nella specie, un edificio) debba venire ad esistenza e dell'obbligo di realizzarla secondo particolari caratteristiche tecniche, trattandosi di elementi compatibili anche con la locazione di cosa futura e, dunque, non dirimenti ai fini della qualificazione del contratto come appalto.

Il caso

La fattispecie sostanziale originava da una proposta, presentata da una Società immobiliare all'Agenzia delle Entrate, in risposta alla ricerca di mercato, da parte di quest'ultima, volta a sollecitare offerte per immobili da costruire e da adibire ad archivio e magazzini, completi delle necessarie attrezzature, di 50.000 mq; l'offerta prevedeva la realizzazione e l'allestimento di 5 fabbricati destinati ad archivi, per una complessiva superficie di 50.000 mq, e di altri 2 edifici, di 600 mq.

L'Agenzia aveva ritenuto tale offerta rispondente alle sue esigenze, in ragione dell'ubicazione del compendio immobiliare erigendo; il corrispettivo previsto, pari ad € 4.900.000,00 all'anno, era stato considerato congruo dalla committente; tale importo era stato, però, abbattuto ope legis del 15% a partire dal 1° gennaio 2015 in applicazione della normativa sulla spending review, che aveva comportato, per il triennio 2012-2014, anche l'azzeramento dell'aumento Istat.

La Società, nel frattempo, si era fatta carico: a) degli oneri di urbanizzazione ammontanti a più di € 2.500.000,00; b) dei costi per il drenaggio, lo smaltimento e il recapito delle acque meteoriche, non preventivati, ma resisi necessari per far fronte all'insufficiente capacità di ricevimento della conduttura comunale esistente; c) delle maggiori spese per trasloco, imputabili all'Agenzia committente, che aveva preteso che il trasferimento dell'archivio avvenisse a più riprese.

Non potendo sopportare economicamente la riduzione del corrispettivo impostale, la Società era ricorsa al giudice, prospettando l'illegittimità costituzionale della suddetta norma speciale, e chiedendo l'esatto adempimento del contratto e, quindi, la condanna della convenuta al pagamento del corrispettivo previsto.

Il Tribunale aveva accolto la domanda e, per l'effetto, aveva condannato l'Agenzia al pagamento del maggior importo di € 743.904,81, oltre ad Iva, dal luglio 2014 alla cessazione del contratto, e agli interessi legali sui ratei già scaduti sino al saldo, nonché degli aggiornamenti Istat non pagati per gli anni 2012-2014; il giudice di prime cure - per quel che qui maggiormente interessa - per un verso, aveva qualificato il contratto intercorso tra le parti come contratto con causa mista, e non puramente e semplicemente riconducibile allo schema del contratto di locazione, poiché esso prevedeva sia l'edificazione di un compendio di € 50.000 mq, con gli arredi e le strutture connesse, sia la locazione degli edifici realizzati per non meno di 9 anni, e, per altro verso, aveva ritenuto la normativa sulla spending review non applicabile, in quanto riferita alle sole locazioni passive.

La Corte d'Appello aveva accolto il gravame dell'Agenzia, riformando integralmente la pronuncia del Tribunale.

La Società immobiliare proponeva, quindi ricorso per cassazione.

La questione

Dovendo applicare la normativa speciale in materia di spending review e, quindi, il contenimento dei costi da essa imposto - qui rilevante come abbattimento di una quota del canone che il conduttore doveva versare al locatore - si trattava di verificare se fosse corretta, da parte del giudice distrettuale, la qualificazione del contratto intercorso tra le parti come locazione di cosa futura, disciplinato ricorrendo al regime della locazione.

Secondo la Società, infatti, la Corte territoriale aveva errato non qualificando il contratto come misto di locazione-appalto, facendo leva sull'interpretazione letterale delle clausole in esso contenute, ed in specie sulla denominazione utilizzata dalle parti e sul rinvio contenuto negli artt. 4 e 14 alla l. n. 392/1978; per contro, avrebbe dovuto ricostruire la comune intenzione delle parti tenendo conto anche di tutte le altre clausole contrattuali - specie, quelle che significativamente attribuivano rilievo ad obblighi tipici dell'appaltatore - e del comportamento complessivo dei contraenti (ossia quello tenuto prima, dopo e durante l'esecuzione del contratto), e avrebbe dovuto utilizzare il canone della buona fede per svolgere l'attività ermeneutica devolutale.

Le soluzioni giuridiche

I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto tali doglianze infondate.

In via preliminare, si è richiamato il pacifico orientamento, secondo il quale la qualificazione del contratto consta di due fasi consistenti, la prima, nell'individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, e, la seconda, nell'inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi, in precedenza individuati, che ne caratterizzano l'esistenza (v., ex multis, da ultimo, Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 2021, n. 27290).

Una volta delineato il perimetro del sindacato di legittimità, gli ermellini hanno ritenuto che la sentenza impugnata non fosse incorsa in errore in relazione all'individuazione sia della rilevanza qualificante degli elementi di fatto - così come previamente accertati dalla stessa Corte territoriale - sia delle implicazioni giuridiche conseguenti, dovendo, infatti, escludersi, alla luce degli uni come delle altre, che il corretto paradigma al quale ricondurre la fattispecie per cui è causa fosse quello prevalente del contratto di appalto come preteso dalla ricorrente.

A favore di tale conclusione, si rammenta che, in tema di contratto misto, il negozio deve essere assoggettato alla disciplina unitaria dell'uno o dell'altro contratto in base alla “prevalenza degli elementi”, salva l'applicazione degli elementi del contratto non prevalente se regolati da norme compatibili con quelle del contratto prevalente (Cass. civ., sez. un., 31 ottobre 2008, n. 26298).

A ben vedere, con il codice civile del 1942, la locazione e l'appalto, in precedenza riuniti, stante la comune derivazione dal ceppo della locazione - locatio operis e operarum - sono stati resi autonomi, sicché, in linea di massima, non sono ravvisabili interferenze tra le due tipologie contrattuali: nello specifico, la locazione ha per oggetto un dare, mentre l'appalto ha per oggetto un facere; la prima è diretta trasferire ad altri la disponibilità di un bene, mentre il secondo è inteso in primis alla produzione di un opus, mediante un'attività elaboratrice; l'uno presuppone l'esistenza attuale della cosa, e l'altro l'inesistenza ed è posto in essere per produrla (v., tra le altre, Cass. civ., sez. un., 31 ottobre 2008, n. 26298).

L'apparente linearità del richiamato ragionamento viene, però, meno allorché si ipotizzi la ricorrenza di una locazione di cosa futura, e cioè di bene non ancora esistente, segnatamente allorché si tratti di un prodotto d'opera non ancora realizzato e per l'esistenza del quale occorre l'attività strumentale positiva del locatore.

Al fine di stabilire se debba ritenersi sussistente un contratto misto di locazione/appalto o se sia corretto ritenere ricorrente una locazione futura, i criteri utilizzabili sono in astratto sostanzialmente due: il primo, oggettivo, propone di assegnare carattere decisivo alla prevalenza quantitativa dell'elemento lavoro sull'elemento materia, mentre il secondo, soggettivo, alla stregua del quale dovrà indagarsi circa il modo in cui le parti hanno considerato l'opera, se cioè in sé stessa o in quanto prodotto necessario di un'attività, e quindi se la volontà delle parti aveva ad oggetto un dare o un facere.

Tale ultimo criterio è quello più seguito dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 1997, n. 10256; Cass. civ., sez. un., 19 novembre 2002, n. 16319; Cass. civ., sez. II, 2 agosto 2002, n. 11602) ed ha ricevuto l'avallo delle Sezioni Unite (sent. n. 26298/2008, cit.), espressasi sulla qualificazione di un contratto come di vendita di cosa futura piuttosto che di appalto.

I principi elaborati dal supremo organo di nomofilachia in quella occasione - presi in prestito dal Collegio per decidere la fattispecie sottoposta al suo esame - sono, in sintesi, i seguenti: a) per volontà delle parti, deve intendersi - non l'intenzione soggettiva, cioè l'opinione che esse abbiano avuto della natura del rapporto, bensì - l'intento empirico tipico in cui si inquadra la volontà che le muove; b) il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis; c) la c.d. libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell'elemento di fatto del negozio, e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico; d) l'effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l'agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso.

Passando ora ad esaminare i fatti di causa, al fine di ricostruire l'intento empirico perseguito con l'operazione de qua e verificare se esso coincidesse con quello della locazione - nel senso che il conseguimento del godimento della cosa costituiva la vera ed unica finalità del negozio ed il lavoro fosse solo il mezzo per produrla - oppure con quello proprio dell'appalto - in quanto l'attività realizzatrice della cosa era la vera finalità del negozio, con conseguente prevalenza dell'appalto sulla locazione - occorre partire dalla “ricerca di mercato, intesa a sollecitare la presentazione di offerte, per immobili, costruiti o da costruire, da adibire ad archivio, completi delle necessarie attrezzature da locare e/o acquistare”.

Già dal modo di “porsi sul mercato” con tale “ricerca”, emerge che l'Agenzia mirava ad acquisire il godimento di un immobile (come diritto personale o come contenuto del diritto di proprietà) allestito ad archivio tramite locazione, con eventuale opzione di acquisto, e non con l'attività realizzatrice propria di un appaltatore, perché il bene oggetto dell'attività di godimento avrebbe potuto essere indifferentemente già costruito o ancora da costruire.

L'interesse che l'Amministrazione perseguiva era quello di ottenere un edificio che fosse funzionale alle sue esigenze; infondato è l'assunto secondo cui la previsione di un termine per la ultimazione dei lavori sarebbe tipica dell'appalto e normalmente estranea all'ipotizzato contratto di locazione; infatti, allorché la locazione di cosa futura preveda che la cosa venga ad esistenza attraverso il comportamento del locatore e che, quindi, sia pure quale elemento accessorio, sia prevista un'attività di questi, è perfettamente conciliabile con tale schema contrattuale la fissazione di un termine entro cui detta cosa futura debba venire ad esistenza.

Neppure è elemento che induce alla qualificazione dello schema contrattuale come appalto, l'obbligo assunto dalla Società di realizzare gli edifici in un certo modo, in quanto anche nella locazione di cosa futura devono essere preventivamente individuate le caratteristiche tecniche dell'opera da realizzare.

Ritenuti, quindi, insussistenti gli elementi per la qualificazione del contratto in questione quale contratto di appalto, vanno ora individuati gli elementi che permettono di qualificare il contratto oggetto di causa come locazione di cosa futura; è vero che il nomen iuris dato dalle parti allo schema contrattuale, di per sé, non è rilevante, perché ciò che conta non è l'intenzione soggettiva delle parti sulle conseguenze giuridiche delle volontà espresse, ma l'intento empirico di tale manifestazione di volontà.

Pertanto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento dell'operazione interpretativa - contrariamente a quanto sosteneva la ricorrente - è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino un'univoca ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la sua soggettiva opinione all'effettiva volontà dei contraenti.

Nella specie, il contratto concluso con l'Agenzia presentava tutti gli elementi caratteristici della locazione immobiliare ad uso non abitativo di edifici da realizzare a cura della locatrice: la consegna in godimento di un compendio immobiliare; l'utilizzo dello stesso in modo tale da permettere alla Agenzia l'esercizio della sua attività; il pagamento di un corrispettivo periodico per il godimento del bene; la previsione della maggiorazione del canone Istat.

L'unica significativa eccezione, rispetto alla disciplina della locazione, era il fatto che l'operazione aveva ad oggetto una cosa futura, ma tale contratto - la locazione di bene futuro, a differenza della vendita di cosa futura - non è un contratto tipico e ad esso debbono applicarsi le norme sulla locazione; il che è in sintonia con la giurisprudenza di legittimità, stante che è allo “scopo pratico del negozio che ne evidenzia la causa in concreto che va conformata la disciplina del contratto atipico” (così Cass. civ., sez. III, 1° aprile 2011, n. 7557, con riferimento ad un contratto con cui il proprietario di un immobile aveva attribuito la disponibilità dello stesso a terzi, per la sua destinazione a discarica di rifiuti e, dunque, per uno scopo di interesse pubblico e soggetto a peculiari prescrizioni imposte dall'autorità amministrativa).

Osservazioni

Sia pure ai fini del radicamento della competenza funzionale, può essere utile richiamare un'altra decisione del Supremo Collegio (Cass. civ., sez. III, 7 aprile 1998, n. 3563), in cui doveva essere qualificata come prestazione locatizia oppure come opera dovuta in forza di un distinto contratto d'appalto, l'adeguamento di un immobile da edificare per adattarlo alle esigenze del conduttore.

Si è premesso che la locazione - giusta la puntuale previsione di cui all'art. 1571 c.c. - è “il contratto col quale una parte si obbliga a far godere all'altra parte una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo”; inoltre, a norma dell'art. 1575, n. 1), c.c., il locatore ha - tra gli altri - l'obbligo di “consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione”, perché la stessa possa essere utilizzata dal conduttore secondo “l'uso” convenuto in contratto.

In quest'ottica, è evidente che rientra nell'autonomia delle parti (art. 1322 c.c.) prevedere che il locatore si impegni a eseguire (o, eventualmente, fare eseguire da terzi) le modifiche alla cosa, oggetto del contratto, richieste dallo speciale uso cui il conduttore intende utilizzarla; pertanto, a prescindere dal soggetto cui, contrattualmente, faccia carico l'onere delle spese di tali modifiche, il contratto è e resta un contratto di locazione, ancorché preveda - come nella specie - l'esecuzione di tali lavori in via diretta da parte del locatore, senza che possa sostenersi l'esistenza, nell'àmbito dell'unico rapporto che lega le parti, di un distinto rapporto di appalto. 

Su una questione analoga a quella scrutinata dalla sentenza in commento, si era pronunciata anche la Corte di Giustizia a seguito di rinvio pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267 del Trattato unionale, chiesto dal Consiglio di Stato in una travagliata vicenda giurisprudenziale che aveva visto contrapposti il Comune di Bari e un'impresa di costruzioni di immobili: nella specie, uno dei quesiti sottoposti ai giudici di Lussemburgo era se un contratto di locazione di cosa futura (anche nella forma dell'impegno a locare) equivalga o meno ad un appalto pubblico di lavori, con la conseguenza che il relativo affidamento dovrebbe avere luogo nel rispetto delle direttive europee che regolano la materia.

La Corte adita, con la sentenza C-213/13 del 15 maggio 2014, benché abbia fatto riferimento ad una disciplina (direttiva n. 93/37/Cee e n. 92/50/Cee) non più in vigore, ha raggiunto delle conclusioni pertinenti anche nella vicenda che ci interessa; il contratto tra il Comune e l'impresa era stato definito dalle parti come locazione di cosa futura, ciononostante la Corte di Giustizia lo ha qualificato come appalto pubblico di lavori, ritenendo che il suo oggetto principale consistesse nella realizzazione di un'opera, quale presupposto necessario della locazione e che le caratteristiche tecniche e tecnologiche dell'opera da realizzare fossero state determinate dal Comune committente e, a dispetto della diversa qualificazione del contratto fornita sul piano nazionale, stante la prevalenza del diritto europeo ed il rispetto del principio dell'effetto utile, ha affermato che l'esatta collocazione di una determinata fattispecie negoziale all'interno delle categorie individuate dal diritto europeo debba essere valutata solo alla luce di quest'ultimo; nel caso di contratto misto, caratterizzato dalla coesistenza di prestazioni riconducibili a tipi contrattuali diversi ad assumere rilievo, ai fini della qualificazione del contratto, è la prestazione che del contratto costituisce l'oggetto principale, sicché avendo il contratto “per oggetto principale la realizzazione di un'opera che risponda a esigenze specifiche dell'Amministrazione aggiudicatrice” e “tenuto che, ai sensi dell'art. 1, lett. a), della direttiva n. 93/37, nella nozione di appalto di lavori rientrano tutti i contratti, a titolo oneroso, conclusi in forma scritta tra un imprenditore e un'amministrazione aggiudicatrice che abbiano per oggetto a) la mera esecuzione, b) congiuntamente l'esecuzione e la progettazione di lavori, c) o l'esecuzione con qualsiasi mezzo di un'opera rispondente alle esigenze specificate dall'Amministrazione aggiudicatrice, il contratto era qualificarsi, alla stregua del suo oggetto principale, come appalto, pur non essendo preclusa alle parti la facoltà di ricorrere alla tipologia ritenuta maggiormente idonea per il soddisfacimento delle proprie finalità, purché ciò non si traduca in elusione della disciplina altrimenti applicabile.

Peraltro, il modello contrattuale realizzato dalle parti, nel caso di specie, presentava significative parentele tipologiche con il c.d. contratto di disponibilità, di cui all'art. 160-ter del Codice dei contratti pubblici, il quale, non a caso, stante che non è un vero istituto giuridico quanto una formula descrittiva di modelli di relazione tra soggetti pubblici e privati, non ha una disciplina giuridica unitaria né europea né nazionale, perciò il suo regime normativo va individuato in ragione del profilo causale individuato con la formula ampia della “messa a disposizione” dell'opera, a fronte del versamento di un corrispettivo da parte dell'Amministrazione; il suddetto contratto è stato assimilato ad una locazione di cosa futura a prestazioni aggravate per il locatore, allo scopo di porre in evidenza la finalità di attribuzione all'Amministrazione dell'immobile, come si usa dire nel gergo delle relazioni commerciali, “chiavi in mano”, senza dunque che la medesima debba provvedere alla realizzazione dell'opera pubblica, con la caratteristica che il canone di disponibilità deve essere di ammontare sufficiente a garantire l'effettiva e costante fruibilità dell'opera da parte dell'Amministrazione, tenendo in considerazione anche la circostanza che tale somma sarà sottoposta ad adeguamento monetario e che, nelle ipotesi in cui sia ammesso il trasferimento della titolarità del bene, il canone possiede una natura composita, comprensiva di due componenti: una relativa al godimento del bene e l'altra riguardante il finanziamento finalizzato all'acquisto; costituisce corollario di ciò l'esecuzione di un bene privato con le modalità dell'evidenza pubblica, la soggezione/attrazione alla quale discende dal vincolo di destinazione alla “messa a disposizione” in favore di un soggetto pubblico.

Riferimenti

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Mercuri, La giurisprudenza europea sulla locazione di cosa futura e i suoi effetti sul giudicato interno, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2014, 2026;

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Bottarelli, Vendita di cosa futura da costruire e appalto, in Obblig. e contratti, 2011, 447;

Graziano, Le sezioni unite intervengono nella materia dei rapporti tra vendita di cosa futura e appalto, in Riv. notar., 2009, 1487;

De Tilla, Responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: vendita di cosa futura o negozio misto?, in Immob. & diritto, 2009, fasc. 1, 77;

Corea, Compravendita di cosa futura e appalto: una funzione comune?, in Contratti, 2009, fasc. 3, 25;

Clarich - Fidone, La giurisdizione in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: rilevanza della distinzione tra appalto e vendita di cosa immobile futura, in Corr. giur., 2008, 1388;

Carnevali, Vendita di cosa futura e appalto: criteri distintivi, in Contratti, 2007, fasc. 2, 21.

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