Escluso l’esercizio di un’attività economica indipendente ai fini IVA del membro del CDA

01 Marzo 2024

La vicenda posta all'attenzione della Corte UE ripropone la questione tesa a stabilire se un'attività svolta a titolo oneroso da un organo societario debba essere considerata un'attività economica indipendente ai fini dell'IVA, ai sensi dell'art. 9 della Direttiva IVA 2006/112.

Massima

Per la Corte UE, nella causa C-288/22, è da escludersi l'assoggettamento ad IVA, ai sensi dell'articolo 9 della Direttiva 2006/112, dei servizi forniti da un membro del Consiglio di amministrazione a fronte della percezione di compensi sotto forma di percentuale sugli utili, per via dell'assenza dell'elemento dell'indipendenza dell'attività economica esercitata, dal momento che egli, pur svolgendo un'attività economica, difetta però del requisito dell'indipendenza, non agendo per proprio conto né sotto la propria responsabilità e non sopportando in alcun modo il rischio economico connesso all'attività svolta.

Il caso

I giudici del Lussemburgo si erano già occupati di una vicenda analoga, avente ad oggetto la tassazione ai fini IVA rispettivamente di membro di un consiglio di vigilanza e di un amministratore, ma non anche, come avvenuto in questo caso, di un membro di un CDA.In quelle cause (v. C-420/18 e C‑355/06) la Corte aveva concluso per l’assenza di un’attività economica indipendente, sostenendo che ricorresse il requisito dell’economicità dell’attività, poiché presentava un carattere stabile ed era svolta a fronte di un corrispettivo percepito dall’autore dell’operazione, essendo irrilevante la circostanza che la retribuzione fosse fissata “non già in funzione di prestazioni personalizzate, bensì in modo forfettario e su base annua”.

La questione

La domanda di pronuncia pregiudiziale nella causa odierna, invece, solleva la questione, oggetto di approcci giuridici differenti tra i vari Stati membri, di stabilire se la retribuzione di un membro di un CDA rappresenti la remunerazione a fronte dello svolgimento di un'attività economica indipendente ai sensi della direttiva IVA.

Nelle proprie conclusioni a tale causa, l'avv. gen. Kokott riferisce (v. p. 1) che la maggior parte degli Stati membri unionali, al riguardo, non riscontra in tale forma di retribuzione i requisiti di un'attività economica indipendente, con l'eccezione del Lussemburgo (che è anche lo Stato del giudice del rinvio) che, dal 2016, assoggetta ad IVA tale tipo di retribuzione.   

In tale Stato, quindi, il membro del CDA deve versare l'IVA e fatturarla alla persona giuridica del cui organo egli fa parte.

La vicenda ha riguardato un avvocato che ricopriva il ruolo di membro del CDA per numerose società per azioni di diritto lussemburghese ed in tale qualità egli partecipava alle decisioni relative sia alla politica dei rischi sia sulla strategia che tali società dovevano seguire, riceveva altresì le relazioni dei dirigenti o dei rappresentanti delle società, discuteva le scelte dei dirigenti operativi, i problemi connessi ai conti di tali società e delle loro società figlie nonché i rischi che esse correvano, partecipava all'elaborazione delle decisioni che i rappresentanti delle società dovevano adottare a livello dei CDA delle società, nonché all'elaborazione delle decisioni concernenti le proposte da sottoporre alle assemblee degli azionisti.

Per lo svolgimento delle proprie mansioni, l'avvocato, nella sua qualità di membro del CDA e per effetto della decisione delle assemblee generali degli azionisti di tali società, percepiva compensi sotto forma di una percentuale sugli utili realizzati da tali compagini giuridiche.

A motivo delle mansioni svolte gli veniva notificato un accertamento con cui si recuperava l'IVA sui servizi resi alle società di cui era membro.

Nell'atto di impugnazione sosteneva che l'attività di membro del CDA di una S.p.a. di diritto lussemburghese non poteva costituire un'attività economica indipendente secondo i canoni interpretativi dell'art. 9 della direttiva IVA, anche alla luce della legge lussemburghese sulle società commerciali per la quale «gli amministratori non contraggono alcuna obbligazione personale in relazione agli impegni assunti dalla società», e la responsabilità personale del membro del CDA potrebbe essere invocata “solo laddove tale membro superi manifestamente i limiti del comportamento ammissibile, in modo che l'inadempimento sia separabile dalla sua funzione” (v. concl. p. 11).

Secondo l'Erario, invece, il carattere stabile dell'attività derivava dal fatto che i membri del CDA sono nominati per un mandato massimo di sei anni ed il contribuente accertato percepiva retribuzioni votate dall'assemblea generale degli azionisti su proposta del CDA medesimo.

Osservava, inoltre, che il precedente della Corte UE (C‑420/18), richiamato nelle difese del contribuente, si riferiva all'attività di un membro del consiglio di vigilanza di una fondazione e, anche se in quel caso i giudici unionali avevano escluso l'assoggettamento ad IVA, ciononostante quelle conclusioni non erano applicabili al caso odierno a causa del differente oggetto.

Investito della questione, il giudice del rinvio evidenziava che ai fini della soluzione occorresse determinare in primo luogo se una persona fisica, membro di un CDA di S.p.a. di diritto lussemburghese, eserciti o meno un'attività economica ai sensi dell'art. 9 della direttiva IVA, quindi se i compensi da questo percepiti “costituiscano il controvalore effettivo di un servizio fornito al beneficiario e se esista un nesso diretto tra il servizio così reso e il controvalore ricevuto”, alla luce anche della corposa giurisprudenza unionale in argomento.

In secondo luogo, preso atto che per il diritto lussemburghese una persona fisica membro di un CDA non è vincolata ad un datore di lavoro da un contratto di lavoro subordinato o da qualsiasi altro rapporto giuridico (richiamava l'art. 10 della direttiva IVA che esclude da imposta le attività qualora non esercitate  “in modo indipendente”), chiedeva alla Corte UE chiarimenti in merito alla “questione di stabilire se una tale persona eserciti la sua attività in modo indipendente” ai sensi dell'art. 9 della direttiva IVA.

La soluzione giuridica

Lo svolgimento di un'attività economica da parte del dipendente

Il caso odierno, come detto, ripropone il problema dell'eventuale tassazione ai fini IVA di un soggetto che non è qualificabile in maniera manifesta quale dipendente di una struttura societaria ma ciononostante, stando ai precedenti della Corte UE in materia, non è qualificabile alla stregua di un soggetto esterno alla società che opera in maniera del tutto indipendente quale unico responsabile del “proprio successo o insuccesso”.

I casi qui richiamati dalla Corte e prima ancora dall'avv. gen. Kokott nelle proprie conclusioni a tale causa, avevano ad oggetto l'attività rispettivamente di membro di un consiglio di vigilanza (C‑420/18) e di un amministratore dipendente, il quale era al contempo anche l'unico azionista della società (C‑355/06).

Il problema della ripresa IVA delle prestazioni di servizi rese da persone fisiche facenti parte di organi societari che per legge devono essere istituiti qualora la compagine societaria assuma una determinata forma giuridica che le impone, appunto, la creazione di un organo interno ad hoc (vedi il CDA in questo caso), come correttamente osservato dall'avv. gen. Kokott, è rilevante altresì per l'eventuale violazione della neutralità dell'imposta, qui declinata in ragione della tutela concorrenza.

In altri termini, per tutte quelle strutture societarie che esercitano operazioni a valle esenti (v. ad es. ospedali, società di locazione immobiliare, banche e assicurazioni) e che sono generalmente escluse dalla detrazione dell'IVA a monte sulle operazioni passive, la veste societaria scelta appare con ogni evidenza dirimente in relazione al sostenimento o meno di un costo definitivo (l'IVA) non altrimenti addebitabile al consumatore finale.

Per tale ragione, a parità di operazioni svolte in esenzione, la società obbligata per legge alla creazione di un organo interno si vedrà costretta al sostenimento di un costo ulteriore che è assente, viceversa, nella società che può fare a meno di un siffatto organo, con conseguente violazione del “principio di neutralità delle forme giuridiche”.

Quanto al requisito dell'economicità dell'attività esercitata, la Corte ricorda che in base all'art. 9, par 1, c. 2, della direttiva IVA, la nozione di “attività economiche” esercitate in modo indipendente, va intesa nel senso di ricomprendere “ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate”, la cui ampiezza della sfera d'applicazione deve portare a considerare l'attività esercitata in maniera obiettiva, “indipendentemente dallo scopo o dai suoi risultati” (v. C‑846/19, p. 47; C‑604/19, p. 69; C‑312/19, p. 39).

Al fine poi di verificare se la dazione di un corrispettivo a fronte dell'esecuzione di una prestazione di servizi possa valorizzare il requisito dell'economicità dell'attività, per costante giurisprudenza unionale occorre esaminare “l'insieme delle condizioni in cui essa è realizzata” (v. tra i tanti C‑846/19, p. 48; C‑520/14, p. 29; C‑263/11, p. 34; C‑230/94, p. 27), procedendo ad una valutazione caso per casoin base al comportamento tipico che adotterebbe un imprenditore attivo nel settore in questione” (v. C-616/21, p. 43).

Esemplificative al riguardo le argomentazioni sviluppate dalla Corte in C-616/21, in cui si discuteva dell'assoggettamento ad IVA dell'attività di bonifica dell'amianto dagli edifici a fini residenziali, effettuata da una ditta appaltatrice di un Comune polacco, il quale offriva gratuitamente tale servizio ai cittadini residenti in quanto usufruiva di un finanziamento pubblico che copriva un importo variabile dal 40% al 100% delle spese, a fronte dei costi da riconoscere alla ditta di smaltimento.

Per tale attività il Comune riteneva di agire in veste di ente di diritto pubblico, finanziando a titolo gratuito lo smaltimento dell'amianto in favore dei residenti dai quali non percepiva alcun compenso, diritto, contributo o pagamento.

Sosteneva altresì non esserci alcun rischio di distorsione della concorrenza ai sensi dell'art. 13 della direttiva IVA dal momento che non realizzava la bonifica avvalendosi di personale proprio e di proprie risorse, selezionando viceversa l'appaltatore a mezzo gara pubblica.

Di diverso avviso l'erario polacco che riteneva esserci, oltre al servizio reso dalla ditta di smaltimento verso il Comune, anche un'ulteriore operazione ai fini IVA tra il Comune (quale fornitore di servizi) ed i residenti (pur non avendo l'ente concluso contratti con questi), sostenendo che il progetto del Comune dovesse essere qualificato come attività soggetta all'IVA in quanto consistente nella rivendita, ai residenti, dei servizi di smaltimento dell'amianto forniti dall'appaltatore selezionato.

La Corte osservava che se da un lato un imprenditore normalmente intende ricavare dalla propria attività introiti aventi carattere di stabilità (per la nozione di “sfruttamento” v. C-655/19, p. 27-29), il Comune invece si limitava a realizzare, nell'ambito di un programma nazionale, operazioni di bonifica effettuate dopo che i proprietari degli immobili, rientranti in tale specifico programma, ne avessero fatto richiesta e fossero stati ammessi.

Inoltre, nel caso in cui un Comune recuperi solo una minima parte dei costi sostenuti, mentre il saldo è finanziato con fondi pubblici, uno scarto del genere è “tale da escludere l'esistenza di una remunerazione” (v. C-616/21, p. 46 e C‑520/14, p. 33), a maggior ragione nell'ipotesi in cui sia assente alcun corrispettivo a carico dei beneficiari della prestazione di servizi.

Da tale ricostruzione “analitica” si escludeva il Comune dall'esercizio di un'attività di carattere economico ai fini IVA.

È stato osservato (v. concl. p. 26 e ss. in C-288/22) che a fronte della difficoltà di elaborare una “precisa definizione di attività economica indipendente” di un soggetto passivo, l'utilizzo di un approcciotipologico” nell'art. 9 della direttiva IVA, ha consentito alla Corte UE, caso per caso, di raccordare ad una delle tipologie previste dalla norma, l'attività singolarmente svolta da un soggetto e potenzialmente ricompresa nel campo IVA, mediante la sussunzione sulla base del “grado di somiglianza con l'archetipo (modello)” (v. C‑36/16).

Ciò però può avvenire, come accennato, per mezzo di una valutazione del “quadro complessivo che tenga conto della percezione generale”, come avvenuto nell'ipotesi in cui è stato valorizzato come elemento pertinente la questione se il livello del compenso fosse determinato secondo criteri che ne garantissero l'idoneità a coprire le spese di funzionamento del prestatore, come anche potevano esserlo l'importo degli introiti o l'entità della clientela (v. C‑846/19, p. 49; C‑182/17, p. 38; C‑520/14, p. 31; C‑263/11, p. 38; C‑230/94, p. 29).

Seguendo tale “approccio tipologico”, ribadito dalla Corte in numerosi precedenti, è possibile valutare un ulteriore elemento di indagine, quale è il rischio economico d'impresa, nel senso che è possibile riscontrarlo solo in quelle attività soggette ad IVA nelle quali un “tipico” soggetto passivo sopporta un “rischio di perdite e utili in prima persona”, ove cioè egli stesso e non già altri decida circa la “portata” della propria attività.

Dinamica che non si riscontra in un lavoratore dipendente, dato che soltanto il datore di lavoro assume l'iniziativa economica e ne sopporta il conseguente rischio economico.

La Corte, nella causa odierna, ricorda poi che un'operazione a titolo oneroso presuppone sempre l'esistenza di un nesso diretto tra tale prestazione ed un corrispettivo effettivo percepito dal soggetto passivo e che sia in proporzione ragionevole rispetto al servizio prestato, non potendo retribuire solo parzialmente le prestazioni effettuate, ed essendo altresì irrilevante la circostanza che un'operazione economica venga svolta a un prezzo superiore o inferiore al prezzo di costo (v. C‑520/14, p. 26 e C‑846/19, p. 43).

Nesso diretto che viene meno nei casi in cui la remunerazione sia concessa in modo gratuito e aleatorio (v. C‑16/93, p. 19) o il suo importo sia difficilmente quantificabile o incerto (v. C‑432/15, p. 35).

Ciò premesso, nel caso in commento la Corte ha identificato la presenza di un nesso diretto tra la retribuzione e l'attività del membro del CDA, anche se riconosciuta in modo forfettario, alla luce del carattere di stabilità dell'attività esercitata, nonché della previsione della nomina sulla base di mandato rinnovabile di durata non superiore a sei anni, aspetti che qualificavano necessariamente l'attività come economica.

Era irrilevante, inoltre, ai fini di contestare la stabilità dell'attività, la circostanza che tale mandato fosse revocabile in qualsiasi momento e che il suo titolare potesse rinunciarvi in ogni momento.

Discorso differente, invece, per quel che riguarda il requisito di indipendenza dell'attività economica esercitata, a fronte della circostanza, appurata in punto di fatto, che il contribuente non aveva alcun voto preponderante nell'ambito dei CDA delle società di cui era membro e non assumeva neppure la rappresentanza o la gestione quotidiana degli affari di tali società, né faceva parte di un comitato direttivo.

La ricerca di tale requisito va svolta esclusivamente alla luce dell'art. 9 della direttiva IVA (v. p. 50 in sentenza e par. 23 e 39 delle concl.), che richiede di verificare se sussista o meno un vincolo di subordinazione nell'esercizio dell'attività esercitata, ed in particolare “se l'interessato svolga le sue attività in nome proprio, per proprio conto e sotto la propria responsabilità, nonché se egli si assuma il rischio economico legato all'esercizio di dette attività” (p. 52 in sentenza).

Nel caso in commento è stato correttamente osservato (v. concl. par. 33) che l'avvocato membro del CDA non veniva retribuito per la propria attività (come un libero professionista esterno che, su mandato, offriva i propri servizi alle proprie condizioni, assumendosi altresì i rischi di una consulenza errata) bensì quale parte di un organo collegiale, derivando da ciò che un'eventuale responsabilità fosse solo dell'organo di cui egli fa parte.

Una conferma in tal senso derivava dalla stessa legge sulle società commerciali sopra citata che esclude i membri del CDA da obbligazioni personali in relazione agli impegni assunti dalla società, né d'altronde poteva essere decisivo l'argomento della responsabilità extracontrattuale a cui sono soggetti i membri degli organi societari dato che questa è prevista anche in capo ai dipendenti, o tantomeno l'eventuale responsabilità di un organo per i debiti societari, dato che questa interessa in egual misura i CDA e gli amministratori (v. C‑355/06).

Ulteriori argomenti che allontanavano dal requisito dell'indipendenza consistevano nell'impossibilità per i membri del CDA di svolgere attività nei confronti di un ulteriore soggetto terzo che non fosse la società stessa, oltre al fatto che la retribuzione di tali membri non era stata oggetto di trattative private con il destinatario della prestazione bensì fissata unilateralmente da un differente organo societario quale l'assemblea generale.

Tale quadro giuridico porta a concludere per una partecipazione del membro del CDA ad un rischio (di utili) altrui (della società) e non già alla sopportazione di un rischio (di utili e perdite) proprio.

In casi simili, in cui indubbiamente non sussiste “il classico vincolo di subordinazione di un lavoratore dipendente ai sensi dell'articolo 10 della direttiva IVA” (v. concl. par. 39), fattore fondamentale se non già dirimente è dato dalla ricerca e analisi dell'effettivo soggetto al quale poter ascrivere il rischio d'impresa, che qui la Corte (v. anche C‑420/18, p. 41 e 42), condivisibilmente, ha sottratto dalla sfera giuridica del membro del CDA per conferirlo esclusivamente alla società nel suo complesso.

Osservazioni

Il principio di neutralità delle forme giuridiche

Anche se non affrontate direttamente dalla Corte, appaiono rilevanti le ulteriori argomentazioni dell'avv. gen. Kokott ai punti 47 e ss. delle proprie conclusioni, in cui si pone la questione della violazione del principio di neutralità dell'IVA qualora l'applicazione dell'imposta derivasse dalla presenza obbligatoria per legge di un organo societario, che per forme giuridiche differenti è invece escluso.

In tal modo le società per cui la legge non prevede un organo specifico non dovrebbero sopportare alcun onere IVA.

Dal momento che il principio di neutralità consente al singolo soggetto passivo di essere sgravato dall'imposta tramite la detrazione, nell'ipotesi di svolgimento di attività (anche) esenti si porrebbe un problema di violazione di tale principio qualora la società, obbligata per legge alla costituzione di un tale organo, non potrebbe operare la detrazione, cosicché l'imponibilità dell'attività del membro dell'organo darà luogo a “costi supplementari e definitivi”.

Ciò a differenza delle società non tenute ad avere un organo interno, le quali non dovrebbero sostenere l'ulteriore costo dell'IVA, non recuperabile in caso di attività esenti.

Dal momento che il principio di neutralità fiscale osta a che operatori economici che effettuano le medesime operazioni subiscano un trattamento differenziato in materia di riscossione dell'IVA, tale principio sarebbe infranto ove la possibilità di invocare l'esenzione, prevista per le operazioni effettuate, dipendesse solo dalla forma giuridica mediante la quale il soggetto passivo svolge la propria attività (v. C‑868/19, p. 65; C‑453/02, p. 25; C‑253/07, p. 31; C‑216/97, p. 20).

In tal modo si evidenzierebbe una distorsione della concorrenza che il principio di neutralità dell'imposta tende a salvaguardare dinnanzi ad operazioni uguali poste in essere da imprese differenti e tra loro concorrenti.

Ragionando diversamente si verificherebbe, ad esempio, che un soggetto passivo che in qualità di imprenditore individuale “versi a se stesso, quale «stipendio», siffatta «retribuzione» (ovvero la ritiri dal patrimonio aziendale mediante un prelievo), non dovrebbe sopportare tale onere dell'IVA” (concl., p. 53).

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