Tassazione del commercio di opere d’arte

21 Marzo 2024

Il mercante d'opere d'arte, produttore di reddito d'impresa, è il soggetto "che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio anche in maniera non organizzata imprenditorialmente, con il fine ultimo di trarre un profitto dall'incremento del valore delle opere"...

Massima

È, invece, mero collezionista chi compra le opere d’arte per scopi culturali, con la finalità di arricchire la propria collezione e possedere l'opera, senza lo scopo di rivenderla o di realizzare un guadagno, "avendo interesse non tanto per il valore economico della res quanto per quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l'interesse all'arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre".

Ai fini fiscali, inoltre, l'espressione esercizio per professione abituale dell'attività va intesa come esercizio dell'attività in via abituale, cioè non meramente occasionale. Occorre, quindi, che l'attività sia svolta con caratteri di stabilita e regolarità e che si protragga per un apprezzabile periodo di tempo, anche se non necessariamente con rigorosa continuità.

Il caso 

I fatti prendevano avvio dall'emissione di due avvisi di accertamento relativi agli anni fiscali 2004 e 2005. Tramite questi avvisi, l'Agenzia delle Entrate contestava al contribuente di aver svolto – negli anni suddetti – l'attività di commercio di opere d'arte e, relativamente a tale attività, veniva richiesto il pagamento di imposte non versate, nello specifico: Irpef, Iva e Irap.

In risposta a tali contestazioni, il contribuente procedeva a presentare dei separati ricorsi, successivamente riuniti e parzialmente accolti dalla Commissione Tributaria Provinciale competente.

Tuttavia, in seguito a tale decisione del giudice di primo grado, sia il contribuente, sia l'Agenzia delle Entrate, si appellavano alla commissione tributaria regionale la quale accoglieva parzialmente entrambi i ricorsi.

Il giudice di secondo grado confermava la tesi dell'Agenzia delle Entrate, secondo la quale il contribuente svolgeva effettivamente un'attività d'impresa nel commercio di opere d'arte. Inoltre, la CTR stabiliva che, ai fini della quantificazione del reddito imponibile Irpef, dovevano essere considerati costi deducibili in misura pari all'80% dei ricavi.

Per quanto riguarda l'Iva, invece, il giudice riconosceva la validità dell'applicazione del regime del margine, al caso in questione.

Infine, la commissione riteneva legittima la richiesta di pagamento dell'Irap. Sulle sanzioni, decideva la legittimità della richiesta, applicando il cumulo giuridico considerando che le violazioni erano della stessa natura commesse in diversi periodi di imposta.

Non pienamente soddisfatta, l'Agenzia delle Entrate presentava ricorso per Cassazione, basato su due motivi di censura. Il contribuente, a sua volta, depositava un controricorso contenente un ricorso incidentale, costituito da quattro motivi di censura.

La Suprema Corte ha deciso con la sentenza n. 1603 depositata il 16 gennaio 2024, cassando la sentenza impugnata e rinviandola alla giudice competente in diversa composizione.

La questione

Uno dei temi affrontati dalla sentenza n. 1603/2024 prende spunto dal primo motivo di ricorso incidentale presentato dal contribuente, il quale riteneva errata la decisione presa dal giudice di secondo grado in quanto avrebbe erroneamente considerato il contribuente quale imprenditore commerciale. Nello specifico, il ricorrente specificava che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, lo stesso non aveva mai svolto l'attività di compravendita di opere d'arte, avendo sempre agito quale collezionista privato, e che le vendite erano state solo il frutto della dismissione del suo patrimonio. Sotto tale profilo, secondo la parte ricorrente, la sua attività non poteva essere ricondotta a quella di impresa, in quanto non aveva svolto alcuna operazione di intermediazione tra produttore e consumatore e, inoltre, non era presente l'autonoma organizzazione di mezzi per svolgere la suddetta attività.

In risposta a tale rilievo, la Suprema Corte ha ricordato come la definizione di imprenditore commerciale sia in parte differente se si mette a confronto la normativa civilistica con la normativa fiscale e, per questo motivo, nel caso di specie, e ai fini fiscali, il contribuente avrebbe dovuto essere pienamente considerato un imprenditore.

Nel caso specifico, la Cassazione ha chiarito che l'accertamento compiuto dal giudice del gravame - secondo il quale la suddetta attività era stata svolta "nel tempo" e in forma "non occasionale" - esclude che possa ragionarsi in termini di attività non professionale. È altrettanto non corretto ritenere che, poiché l'attività non era stata svolta in modo organizzato, la stessa debba essere tratta fuori dall'ambito dell'attività di impresa. A tal proposito, infatti, l'organizzazione dell'attività non costituisce requisiti essenziale per il riconoscimento dell'attività di impresa ai fini fiscali.

Al fine di indicare con maggior precisione i termini della questione, è utile riportare gli articoli di legge presi a fondamento della sentenza e richiamati dalla stessa, ossia:

  • Art. 2082 codice civile: “È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”
  • Art. 55 comma 1 TUIR: “1. Sono redditi d'impresa quelli che derivano dall'esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell'art. 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell'art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d'impresa.”
  • Art. 4 comma 1 d.P.R. 633/1972: “Per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l'esercizio di attività, organizzate in forma d'impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'articolo 2195 del codice civile.”

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, affrontando la questione oggetto della sentenza in commento, ha precisato che in merito alla definizione di “imprenditore” la legislazione fiscale e quella civilistica non sono coincidenti. Infatti, mentre il codice civile (art. 2082 c.c) considera imprenditore chi svolge un'attività economica organizzata in modo professionale, il d.P.R. 917/1986 (TUIR) non richiede il requisito dell'organizzazione ai fini della definizione di imprenditore (Art. 55). Secondo la normativa fiscale, infatti, l'imprenditore è colui che svolge almeno il mero esercizio professionale e abituale delle attività di cui all'art. 2195 cod. civ., anche se tali attività non sono svolte in modo esclusivo.

Secondo la giurisprudenza di Cassazione, quindi, anche alla luce della normativa e della giurisprudenza unionale in materia di Iva, la nozione civilistica e quella fiscale di "imprenditore commerciale" divergono per un aspetto essenziale, ossia quello della necessità della cd. “organizzazione". L'elemento organizzativo, quindi, risulta essere un requisito indispensabile per il diritto civile ma non lo è altrettanto per quello tributario, ai fini del quale e sufficiente la professionalità abituale dell'attività economica, anche senza l'esclusività della stessa. La sentenza n. 1603/2024, ha ricordato che in più occasioni è stato sostenuto dalla stessa Corte che l'art. 55 del TUIR considera attività imprenditoriale l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall'art. 2195, cod. civ., anche se non organizzate in forma d'impresa, e prescinde quindi dal requisito organizzativo che costituisce, invece, elemento qualificante e imprescindibile per la configurazione dell'impresa commerciale agli effetti civilistici, esigendo soltanto che l'attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale ancorché non esclusiva.

Passando ora al tema IVA, le differenze suddette vengono altresì confermate. Infatti, dato che il d.P.R. 633/72, art. 4, comma 1, cosi come l'art. 55, comma 1 TUIR, considera imprenditore colui che svolge "l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva", delle attività indicate dall'art. 2195 c.c., anche se non organizzate in forma di impresa, prescindendo quindi dal requisito organizzativo, di fatto si esige soltanto che l'attività svolta sia caratterizzata dalla professionalità abituale, anche se non esclusiva.

Dopo aver chiarito gli aspetti suddetti della normativa italiana, la suprema corte si è espressa riguardo l'oggetto della sentenza. La Cassazione ha ricordato che nello specifico ambito delle attività inerenti alla vendita di opere d'arte, si è affermata da questa Corte la seguente differenziazione. È da qualificarsi come:

-mercante di opere d'arte colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio anche in maniera non organizzata imprenditorialmente, col fine ultimo di trarre un profitto dall'incremento del valore delle medesime opere;

-speculatore occasionale chi acquista occasionalmente opere d'arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile;

-mero collezionista, infine, chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l'opera, senza l'intento di rivenderla generando una plusvalenza, avendo interesse non tanto per il valore economico della res quanto per quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l'interesse all'arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre.

Il discrimine su cui fondare la diversa qualificazione e stato individuato da Cassazione nel requisito della cd. abitualità.

Seguendo questa logica, si rinviene l'esistenza di un'attività commerciale quando si riscontra la presenza di elementi significativi idonei a dimostrare la sistematicità e la professionalità dell'attività d'impresa (es. numero delle transazioni effettuate, importi elevati, quantitativo di soggetti con cui sono stati intrattenuti rapporti, varietà della tipologia di beni alienati), non assumendo rilievo, ai fini impositivi, il fatto che il profitto conseguito sia stato capitalizzato in beni e non in denaro, in quanto porta sempre intrinsecamente un arricchimento del patrimonio personale del soggetto.

Osservazioni 

La sentenza n. 1603/2024 si è soffermata sui seguenti aspetti:

  1. La definizione di “imprenditore” presenta delle differenze a seconda ci si riferisca alla normativa civilistica o a quella fiscale.
  2. Il codice civile fornisce una definizione di imprenditore all'art. 2082 c.c. definendolo colui che “esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. Dall'altra parte, la legge tributaria parla del tema all'art. 55 comma 1 TUIR, stabilendo che “Sono redditi d'impresa quelli che derivano dall'esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell'art. 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell'art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d'impresa.”, nonché all'art .4 comma 1 d.P.R. 633/1972: “Per esercizio di imprese si intende l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività commerciali o agricole di cui agli articoli 2135 e 2195 del codice civile, anche se non organizzate in forma di impresa, nonché l'esercizio di attività, organizzate in forma d'impresa, dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell'articolo 2195 del codice civile.”.
  3. Ai fini della definizione di imprenditore l'elemento organizzativo risulta essere un requisito indispensabile per il diritto civile, ma non indispensabile per quello tributario. Per quest'ultimo, infatti, è sufficiente la professionalità abituale dell'attività economica, anche senza l'esclusività della stessa.

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