Risarcimento del danno da perdita di chance di sopravvivenza

Antonio Bruno Serpetti
08 Aprile 2024

In particolare, la Corte si interroga sulla possibilità di risarcimento del danno ai parenti della vittima di malpractice nonostante i medici siano stati prosciolti in sede penale, e nel caso in cui si accerti che la stessa avrebbe significativamente aumentato le proprie chance di sopravvivenza se fosse stata sottoposta agli appropriati approfondimenti medici e ad un conseguente intervento chirurgico d'urgenza. 

Massima

Effettuare un esame su un paziente con colpevole ritardo integra malpractice medica, tanto più se si prova che, nel caso in cui l'accertamento fosse stato compiuto tempestivamente, questi si sarebbe salvato o avrebbe avuto diverse chance di sopravvivere. E anche se in sede penale i medici sono stati assolti, ciò non toglie che i congiunti della vittima possano con pieno diritto essere risarciti in sede civile dove vige il principio probatorio meno restrittivo del «più probabile che non».

Il giudice è tenuto a rendere chiaro e percepibile il fondamento della decisione in tutte le sue parti, dovendo far comprendere il ragionamento seguito per la formazione del proprio convincimento, non potendo delegare all'interprete il compito di integrarla con le più varie e ipotetiche congetture.

Il caso

Nel caso di specie, un uomo, recatosi presso il Pronto soccorso lamentando forti dolori addominali e ricoverato con la diagnosi di «colica addominale in soggetto con diverticoli intestinali», decedeva subito dopo. In realtà, l'uomo aveva in atto un aneurisma dell'aorta addominale, benché solo fissurato. Conseguentemente, l'intervento chirurgico d'urgenza tentato dai sanitari non aveva dato esito positivo perché il paziente, già in stato di shock, aveva subito ripetuti arresti cardiaci che lo avevano portato alla morte.

In seguito all'accaduto, la moglie citava in giudizio l'Azienda Sanitaria Provinciale per essere risarcita del danno da perdita parentale, imputando la morte del marito ai sanitari dell'Ospedale. Sulla vicenda veniva, altresì, aperto un procedimento penale a seguito della denuncia dei familiari a carico di tutti i medici della Asl che, a vario titolo, avevano seguito il paziente e che avevano avuto un ruolo nella vicenda sanitaria.

Dall'inchiesta e dalla consulenza tecnica medico-legale disposta in sede di indagini preliminari era effettivamente emerso che una Tac con mezzo di contrasto, se fosse stata eseguita tempestivamente – quando, invece, era stata programmata dopo qualche giorno – avrebbe consentito di rilevare il problema, e, dunque, di agire con un intervento chirurgico urgente e forse salvifico.

Ciononostante, il Pubblico ministero, tenuto anche conto della pregressa storia clinica del paziente, chiedeva l'archiviazione del procedimento penale, negando qualsiasi penale responsabilità a carico dei sanitari che avevano avuto in cura la persona offesa o avevano eseguito gli accertamenti strumentali idonei al caso. Il gip del tribunale disponeva, dunque, l'archiviazione, ritenendo che, sulla base dell'approfondito elaborato peritale, fossero emersi elementi di valutazione tutti univoci nel delineare l'assenza di manchevolezza nell'operato dei medici, mancando la prova controfattuale necessaria per configurarne la responsabilità penale, e cioè che il paziente si sarebbe certamente salvato nel caso in cui i sanitari avessero agito in modo diverso e più tempestivo.

I familiari, tuttavia, promuovevano azione civile per il risarcimento del danno.

In particolare, la moglie del paziente defunto conveniva in giudizio l'Asp per ottenere la condanna al risarcimento dei danni provocati in conseguenza dell'operato dei suoi sanitari.

Il tribunale, in primo grado, rigettava la domanda, ritenendo che non fosse emersa alcuna prova di negligenza o imperizia a carico dei medici dipendenti dalla Asp e, a monte, che non fosse provato il nesso causale tra le loro condotte e la morte del paziente. La donna proponeva appello contro la sentenza di primo grado, denunciando nuovamente l'atteggiamento attendistico dei sanitari e l'errore diagnostico consistente nel non avere individuato, dagli esami eseguiti, l'esistenza di una emorragia interna già in atto. Evidenziava, inoltre, che, in presenza di una fissurazione tamponata, un intervento chirurgico anticipato avrebbe consentito al marito delle chance di sopravvivenza per la cui perdita l'attrice aveva chiesto di essere risarcita fin dal primo grado.

La Corte d'appello non riteneva di rinnovare la consulenza tecnica, ma la riesaminava e ne traeva conclusioni diverse ed opposte rispetto al giudice di primo grado: in particolare, riteneva che dalla CTU emergesse la prova di una condotta imperita dei medici che, a fronte di un paziente entrato in ospedale con aneurisma in atto, benché solo fissurato, e del peggioramento dei dati ematochimici del paziente avrebbero dovuto sottoporlo con urgenza ad una tac con mezzo di contrasto. L'indagine, se eseguita immediatamente (anziché a qualche giorno di distanza) avrebbe consentito loro di intervenire con urgenza, effettuando un intervento chirurgico di riparazione.

Così diversamente valutati gli elementi decisori emergenti dalla stessa consulenza tecnica - che era stata alla base della pronuncia di primo grado - La Corte d'appello concludeva ritenendo esistente un danno, qualificato non già come danno da responsabilità medica, bensì come «danno da perdita di chance di sopravvivenza» (oggetto di un'autonoma domanda risarcitoria avanzata fin dal primo grado da parte dell'attrice), il quale ben poteva essere individuato sulla base delle affermazioni scientifiche del consulente di parte attrice.

Ritenuto che, se sottoposto agli appropriati approfondimenti medici e all'intervento chirurgico di urgenza, il paziente avrebbe significativamente aumentato le proprie chance di sopravvivenza, la Corte d'Appello accoglieva dunque la domanda risarcitoria della vedova, condannando la Asp al pagamento in suo favore di euro 250.000. L'azienda sanitaria proponeva ricorso per cassazione.

La questione

Nel caso deciso dalla sentenza in commento, la Suprema Corte torna sul tema del risarcimento del danno da perdita di chance di sopravvivenza di un paziente deceduto a causa di un tardivo esame medico.

In particolare, la Corte si interroga sulla possibilità di risarcimento del danno ai parenti della vittima di malpractice nonostante i medici siano stati prosciolti in sede penale, e nel caso in cui si accerti che la stessa avrebbe significativamente aumentato le proprie chance di sopravvivenza se fosse stata sottoposta agli appropriati approfondimenti medici e ad un conseguente intervento chirurgico d'urgenza. 

La Corte coglie, altresì, l'occasione per specificare i criteri e i parametri atti ad individuare il quantum risarcitorio.

Le soluzioni giuridiche

Con il primo motivo di ricorso, la Asp ricorrente denunciava che la Corte d'appello avesse omesso l'esame della relazione peritale dei consulenti del Pm, nonché di avere omesso l'esame della relazione peritale del CTU nella sua interezza e in tutte le sue articolazioni.

In particolare, affermava che la sentenza d'appello, diversamente da quella di primo grado, avesse valorizzato ed estrapolato solo una parte delle affermazioni del CTU, senza tener conto delle conclusioni tratte dai periti del Pm, che avevano portato alla completa archiviazione di ogni indagine penale svolta nei confronti dei sanitari.

La sentenza impugnata, difatti - ad avviso della Asp ricorrente - ripercorreva tutti gli elementi della vicenda emergenti dalla perizia disposta dal Pm e poi dalla consulenza tecnica eseguita in primo grado, ritenendo che la lettura complessiva di essi, comprensiva delle condizioni pregresse del paziente, della sua situazione all'arrivo in ospedale, dell'evoluzione della malattia, avrebbero reso esigibile da parte dei medici il compimento immediato di un approfondimento diagnostico, consistente nell'esecuzione senza indugio della tac addominale con mezzo di contrasto, che avrebbe consentito di scoprire da subito l'esistenza di un aneurisma in corso.

Ebbene, considerando inammissibile tale motivo di ricorso, la Suprema Corte afferma che la Corte d'appello, pur non spingendosi a dire che una tale condotta avrebbe in misura «più probabile che non», salvato la vita al paziente, ha giustamente concluso nel senso che sono state confiscate al paziente delle apprezzabili chance di sopravvivenza, circoscrivendo la responsabilità dei medici alla diversa e più circoscritta ipotesi del danno da perdita di chance.

Delimitata in questo diverso ambito la responsabilità dei sanitari, non è più pertinente - sostiene la Corte - la censura sviluppata dalla Asp, secondo la quale la Corte d'appello non avrebbe adeguatamente sviluppato il ragionamento controfattuale per verificare se la tac e anche l'intervento, se effettuati prima, sarebbero stati in grado di scongiurare l'evento morte. Difatti, la Corte d'appello ha spostato l'individuazione del comportamento colpevole sulla mancata tempestività dell'approfondimento cui ha correlato la perdita di chance, e ciò avrebbe determinato anche il mutamento del contenuto della prova: oggetto della prova, continua la Corte, «non era più il giudizio probabilistico che il paziente - ove sottoposto per tempo all'approfondimento diagnostico - sarebbe sopravvissuto all'operazione comunque necessaria, ma il fatto che, se i sanitari avessero compiuto per tempo tutti gli approfondimenti necessari, lo stesso avrebbe avuto maggiori probabilità di sopravvivenza; probabilità che gli sono state confiscate».

Con un secondo motivo di ricorso, poi, la Asp denunciava che la Corte d'appello avesse del tutto omesso di motivare la statuizione in ordine al criterio di calcolo seguito nel liquidare il danno, prendendo a base del calcolo medesimo l'affermazione di una possibilità perduta di sopravvivenza nella misura del 40% se l'intervento fosse stato effettuato più tempestivamente; cosa che sarebbe stata priva di riscontro nell'attività istruttoria svolta.

Ebbene, la Suprema Corte ritiene fondata la predetta censura relativa alla quantificazione del danno da perdita di chance. Secondo la Corte, infatti, sebbene il giudice del merito abbia enunciato dettagliatamente i criteri cui attenersi per effettuare il calcolo del risarcimento del danno da perdita di chance (ossia: determinare la somma che sarebbe spettata alla vittima nel caso di invalidità permanente al 100%; dividere tale somma per il numero di anni della vittima; moltiplicare il risultato per il numero degli anni in cui viene di norma proiettata la possibilità di sopravvivenza; calcolare sull'importo così ottenuto la possibilità di sopravvivenza perduta) - prendendo, altresì, come base del calcolo la tabella del Tribunale di Milano aggiornata al 2021 - tuttavia, appare del tutto privo di giustificazione logica il passaggio che individua nel 40% le possibilità di sopravvivenza che il defunto avrebbe avuto se fosse stato sottoposto tempestivamente all'intervento, prima della esplosione dell'aneurisma. La Corte d'appello stessa aveva precisato che il CTU, pur affermando che una Tac avrebbe probabilmente rilevato la presenza dell'aneurisma, aveva tuttavia concluso, sulla base di un'attenta disamina dei dati e delle linee guida a disposizione, che le probabilità di scongiurare il decesso si sarebbero attestate in una percentuale inferiore al 25%; medesima conclusione cui erano giunti i periti nominati dal Pubblico ministero. Pertanto - afferma la Suprema Corte - non si spiega perché il giudice d'appello ha ritenuto di elevare la misura della chance perduta al 40%, o, comunque, non si spiega a quali elementi obiettivi ritenga di ancorare tale quantificazione; il che rende la decisione arbitraria e le motivazioni solo apparenti.

Il giudice - conclude la Corte - è tenuto a rendere chiaro e percepibile il fondamento della decisione in tutte le sue parti, dovendo far comprendere il ragionamento seguito per la formazione del proprio convincimento, e non potendo delegare all'interprete il compito di integrarla con le più varie ipotetiche congetture: pertanto, una motivazione che manchi di tali caratteristiche e che non renda chiaro il ragionamento seguito, comporta una violazione delle norme sulla validità stessa della sentenza impugnata. Nel caso di specie, mancano dei passaggi logici che facciano comprendere come si giunga proprio alla percentuale del 40% piuttosto che ad un'altra.

È possibile, ma non è esplicitato, che essa sia mutuata dalle conclusioni della CTP di parte appellata: ma è evidente come manchi del tutto una motivazione ancorata ad un ragionamento logico che spieghi perché la Corte d'Appello abbia ritenuto di ritenere provata questa percentuale di perdita di chance.

Osservazioni

Nel caso deciso dalla sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione del risarcimento del danno da «perdita di chance di sopravvivenza», nonostante i medici siano stati prosciolti in sede penale.

Il G.I.P. del Tribunale disponeva infatti l'archiviazione, ritenendo che, sulla base dell'approfondito elaborato peritale, fossero emersi elementi di valutazione tutti univoci nel delineare l'assenza di manchevolezze nell'operato dei medici nei vari momenti: diagnostico, prognostico e terapeutico.

Come noto, la Corte di Cassazione riconosce ormai da anni, ed in diversi settori, il c.d. «danno da perdita di chance», consistente nella perdita della possibilità di conseguire un determinato bene, fondata su una ragionevole e legittimità aspettativa, e non già su una semplice aspettativa di fatto.

In particolare, nell'ambito della responsabilità medica, la perdita di chance deriva da un comportamento del sanitario idoneo a incidere sulla durata della vita del paziente o sulla sua qualità, quale, ad esempio, il ritardo nella diagnosi di un processo morboso che non consenta un intervento medico-chirurgico necessario al paziente; ciò, non necessariamente per avere salva la vita, ma anche soltanto per poter affrontare l'ultimo periodo della vita in maniera decorosa e dignitosa o, addirittura, per vivere più a lungo (sul punto, la Corte di cassazione, con la nota sentenza n. 16993 del 20 agosto 2015, ha stabilito che «l'omessa diagnosi assume rilevanza a fini risarcitori anche nel caso in cui, dall'intervento chirurgico, non sarebbe comunque derivata la permanenza in vita al paziente»). Anche solo una minima capacità di prolungare la vita del paziente, pertanto, merita di essere apprezzata sotto il profilo della chance risarcibile.

Il danno da perdita di chance va determinato equitativamente dal giudice, tenendo conto delle effettive possibilità di sopravvivenza o di miglioramento della qualità della vita del paziente che sarebbero potute conseguire a un comportamento non viziato da un errore medico (Cass. civ., n. 16993/2015; Cass. civ., sez. III, n. 21245/2012).

Nel caso qui esaminato, risulta fondamentale la decisione della Corte d'appello che, senza rinnovare la consulenza tecnica, ha rilevato che dalla CTU svolta in primo grado emergeva la prova di una condotta imperita dei medici, nonostante l'archiviazione disposta dal gip nel procedimento per la morte del paziente. Effettivamente, quando il malato arriva in ospedale, l'aneurisma è in atto, benché solo fissurato: una Tac con mezzo di contrasto eseguita tempestivamente avrebbe consentito di rilevarlo e, dunque, di realizzare un intervento chirurgico urgente.

Come spiega la Corte, sebbene il giudice di secondo grado non si spinga a dire che l'operazione avrebbe salvato la vita al paziente in misura «più probabile che non», tuttavia ritiene giustamente che, se i sanitari avessero compiuto per tempo tutti gli accertamenti necessari, il paziente avrebbe avuto maggiori probabilità di sopravvivenza; il che muta anche il contenuto della prova.

In definitiva, integra malpractice medica anche l'effettuare un esame su un paziente con colpevole ritardo, tanto più se si prova che, nel caso in cui l'accertamento fosse stato compiuto tempestivamente, questi si sarebbe salvato o avrebbe avuto diverse chance di sopravvivere. E anche se in sede penale i medici sono stati assolti, ciò non toglie che i congiunti della vittima possano, con pieno diritto, essere risarciti in sede civile, ove vige il principio probatorio meno restrittivo del «più probabile che non».

Tutto ciò premesso, i giudici di Appello hanno errato, ad avviso della Corte, a quantificare il danno da perdita di chance.

Infatti, nella liquidazione dello stesso bisogna vagliare in concreto quale sia stata, da un lato, la sofferenza patita dal congiunto e, dall'altra, la compromissione della sfera affettiva familiare, la quale dipende dall'intensità del vincolo familiare, dalle abitudini di vita, dalle condizioni soggettive della vittima e del congiunto, dal grado di parentela, dalle rispettive età, dall'eventuale convivenza in essere al momento del decesso e da ogni altro indice che la parte interessata abbia ritenuto rilevante.

La prova del danno subito è a carico della parte che lo lamenta.

Proprio con riferimento a questo aspetto, come si può desumere dalla motivazione della sentenza, sebbene dalla perizia disposta dal Pm e dalla CTU svolta in sede civile emerga che, non eseguendo subito la Tac, i sanitari hanno – per usare le parole della Corte - «confiscato» al malato apprezzabili possibilità di sopravvivenza, va, tuttavia, negato il risarcimento così come liquidato dal giudice del merito: ciò perché il giudice di merito non motiva le possibilità di evitare la morte del paziente, quantificata nella misura del 40%, quando invece il CTU si ferma al 25%.

I giudici di merito avrebbero, dunque, elevato la misura delle chances perdute al 40%, senza indicare gli elementi obiettivi ai quali ancorare tale quantificazione.

La pronuncia in esame si rivela, pertanto, l'occasione per sottolineare e ribadire che il giudice è tenuto a rendere chiaro e percepibile il fondamento della decisione in tutte le sue parti, dovendo far comprendere il ragionamento seguito per la formazione del proprio convincimento, non potendo delegare all'interprete il compito di integrarla con le più varie e ipotetiche congetture.