Contraria alla direttiva IVA la disciplina italiana sulle società di comodo che limita il diritto alla detrazione a monte
24 Aprile 2024
Massima È contraria alla direttiva IVA la norma interna che, sulla base di una mera presunzione, esclude automaticamente la detrazione IVA al mancato raggiungimento di una soglia di ricavi, in quanto non rappresentativa in alcun modo della nozione di attività economica contenuta nell’art. 9 della direttiva IVA. Il caso La vicenda conclusa con la causa in epigrafe origina dal rinvio del giudice italiano (Cass. Civ. Ord. n. 16091 del 19/05/2022) e verte sull'interpretazione dell'art. 9, par. 1 nonché dell'art. 167 della Direttiva IVA 2006/112/CE, in relazione alla controversia tra la Feudi di San Gregorio Spa e l'Agenzia delle Entrate a seguito del disconoscimento, da parte dell'Erario, del credito IVA esposto in dichiarazione e utilizzato nell'esercizio successivo. La ripresa fiscale poggiava sulla contestazione della natura di società non operativa (c.d. di comodo) in capo alla contribuente, per il disallineamento con i criteri previsti dall'art. 30 della l. n. 724/1994, dal momento che questa aveva registrato nella propria “contabilità operazioni attive per un importo complessivo inferiore rispetto alla soglia dei ricavi al di sotto della quale il legislatore nazionale presume la non operatività dell'ente”. L'Ufficio, di conseguenza, disconosceva il credito IVA in considerazione della mancata effettuazione, per tre periodi di imposta successivi, di operazioni rilevanti ai fini dell'IVA per un importo pari o superiore a quello risultante dall'applicazione dei criteri dettati per il test di operatività, evidenziando nell'atto impositivo, altresì, che “non assumevano rilevanza ai fini di tale test le cessioni delle immobilizzazioni materiali e del diritto di utilizzazione del marchio effettuate dalla società, poiché configuranti una cessione di ramo di azienda e, in quanto tali, esulanti dal campo di applicazione dell'IVA”, ricostruzione giuridica poi confermata dalla sentenze di merito che respingevano entrambi i gravami della contribuente. Nel ricorso per Cassazione, che originava il successivo rinvio ai giudici del Lussemburgo, la contribuente lamentava l'evidente contraddittorietà della norma interna all'impianto della direttiva IVA fondato sulla sacralità del diritto a detrazione d'imposta che non può, in linea di principio, essere soggetto a limitazioni, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla direttiva IVA ed eccetto le ipotesi in cui si asserisca un diritto in oggettive condizioni di frode o di evasione d'imposta (v. p. 32 e 33 in C-341/22), in quanto il diritto è “funzionale a garantire la neutralità dell'imposta nei confronti dei soggetti passivi i quali non devono rimanere gravati dal tributo nella misura in cui compiono a valle operazioni imponibili, a prescindere dagli scopi e dai risultati dell'attività economica e anche indipendentemente dall'inizio dello svolgimento dell'attività medesima” (v. p. 40 in ord. di rimessione che rich. C-294/20 e C-332/15). Faceva altresì presente l'onere del giudice nazionale di disapplicare la normativa interna per contrasto con la direttiva IVA (atto ora dovuto alla luce, come si vedrà, delle conclusioni della Corte UE). La questione giuridica L' art. 30, comma 4, della l. n. 724/1994 dispone che per le società e gli enti indicati nel suo comma 1, considerati non operativi qualora l'ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi sia inferiore alla somma degli importi risultanti dall'applicazione delle percentuali ivi indicate, l'eccedenza di credito IVA non è ammessa al rimborso né può costituire oggetto di compensazione o di cessione. Qualora, inoltre, per tre periodi di imposta consecutivi la società o l'ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini IVA non inferiore all'importo che risulta dalla applicazione delle percentuali previste dal comma 1 dell'art. 30, l'eccedenza di credito non è ulteriormente riportabile a scomputo dell'IVA a debito relativa ai periodi di imposta successivi. In tal modo, come ribadito anche dall'Agenzia delle entrate nel tempo (v. Circ. 2014/10, 2012/23, 2007/25, 2007/11, 2007/5, 2006/28) il mancato superamento del test di operatività (art. 30, comma 4,primo periodo), esclude che l'eccedenza possa essere:
Con l'art. 30 della l. n. 724/1994, quindi, si è cercato di eliminare o porre un argine a quei fenomeni legati all'abuso del ricorso alla veste societaria che però, nei fatti, non esprime reali ed effettive esigenze imprenditoriali o, come anche evidenziato con la Circ. 14/E 2007, di “contrastare l'utilizzo improprio delle forme societarie al fine di eludere le obbligazioni tributarie” mediante l'istituto delle società non operative, al fine specifico antielusivo di penalizzare quelle società che, “al di là dell'oggetto sociale dichiarato, sono state costituite per gestire il patrimonio nell'interesse dei soci” (godimento personale del bene e uso gratuito dello stesso), anziché per esercitare un'effettiva attività commerciale. La stessa Cassazione, nell'ordinanza di rinvio, ha valorizzato l'argomento per cui tale norma “mira a disincentivare la costituzione di società «di comodo», ovvero il ricorso all'utilizzo dello schema societario per il raggiungimento di scopi eterogenei rispetto alla normale dinamica degli enti collettivi commerciali (come quello, proprio delle società c.d. di mero godimento, dell'amministrazione dei patrimoni personali dei soci con risparmio fiscale)” (rich. ex multis, Cass. 2 novembre 2017, n. 26728 e Cass. 21 ottobre 2015, n. 21358). Il disfavore dell'ordinamento per tale “incoerente impiego del modulo societario” trova spiegazione nella “distonia tra l'interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto di società è preordinato”, con ciò, però, come si vedrà, valorizzando esclusivamente il dato civilistico finalizzato alla creazione dello strumento societario che, però, risponde a regole diverse alla luce delle chiavi di lettura offerte dalla direttiva tramite l'interpretazione della Corte UE. L'excursus della Cassazione prosegue ricordando che “17. La presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza per la quale non vi è, di norma, effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi ed ha carattere relativo, in quanto può essere superata mediante la dimostrazione, da parte del contribuente, di situazioni oggettive che abbiano reso impossibile il conseguimento di un determinato volume minimo di ricavi o di reddito. 18. Il meccanismo deterrente consiste nel fissare un livello minimo di ricavi e proventi correlato al valore di determinati beni patrimoniali, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, con conseguente presunzione di un reddito minimo, stabilito in base a coefficienti medi di redditività dei detti elementi patrimoniali di bilancio”. Di qui la naturale conseguenza, ai fini IVA, del disconoscimento al contribuente, per effetto del comma 4 dell'art. 30 della l. n. 724/1994, del diritto di chiedere il rimborso dell'eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione o di utilizzare tale eccedenza in compensazione orizzontale o di cederla a terzi, residuando unicamente il diritto di riportarla a scomputo dell'IVA a debito relativa ai periodi di imposta successivi, a meno che anche tale strada sia preclusa “qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l'ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto non inferiore all'importo che risulta dalla applicazione delle percentuali previste per il test di operatività”. In quest'ultima ipotesi, in chiaro contrasto con il sistema unionale IVA, il soggetto passivo è definitivamente privato del diritto di esercitare la detrazione dell'IVA assolta sulle operazioni passive effettuate (acquisti). Tale approccio, distonico rispetto a quello storicamente valorizzato dalla Corte UE, pone in evidenza esclusivamente il carattere economicistico dell'attività d'impresa, qualunque essa sia, ponendosi in tal modo, però, in opposizione rispetto all'impostazione del sistema IVA che, sulla base della direttiva valorizza (ai fini della detrazione) l'attività d'impresa esercitata “in purezza” ed a prescindere dalle sue conseguenze in termini di profitti, immediati o futuri (v. tra i tanti C-334/20, p. da 25 a 29 e C‑604/19, p. 69). Motivo per cui sono altresì in disallineamento con il sistema unionale IVA le argomentazioni del PM in Cassazione le quali, “laddove interpretate … nel senso che il mancato superamento del test di operatività priva l'ente della qualità di soggetto passivo, in ragione del (presunto) mancato esercizio di un'attività economica, si risolverebbero nell'attribuire rilevanza ad un dato quantitativo, rappresentato dall'incongruo volume delle operazioni imponibili rispetto agli asset proprietari a disposizione”, mentre la Corte UE valorizza (da sempre) il dato qualitativo dell'attività d'impresa. Osservazioni Le motivazioni della Cassazione a sostegno del rinvio pregiudiziale È interessante l'excursus qui operato dalla nostra Corte circa i numerosi precedenti della Corte UE che hanno indagato in merito alla nozione di “soggetto passivo”, identificato dall'art. 9, par. 1, della direttiva IVA in “chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo, un'attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di detta attività”, da leggersi in stretta correlazione con quella di “attività economica”, definita dal comma 2 del par. 1 citato, come comprendente “ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera o assimilate. Si considera, in particolare, attività economica lo sfruttamento di un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità” (v. tra i tanti C-655/19, p. 25 e 26). Quanto alla nozione di “sfruttamento”, questa si riferisce a “qualsiasi operazione, indipendentemente dalla sua forma giuridica, intesa a ricavare dal bene di cui trattasi introiti aventi carattere di stabilità” (v. C-267/08, p. 20, C-263/15, punto 24, C-655/19, p. 27), escludendo il “mero acquisto e la mera vendita di un bene, dal momento che l'unico reddito risultante da tali operazioni è costituito dall'eventuale profitto all'atto della vendita del bene stesso” (C-180/10, p. 45 e C-655/19, p. 28), così come il “mero esercizio del diritto di proprietà da parte del suo titolare ovvero la mera detenzione di partecipazioni sociali” (v. C-60/90, p. 13, e C-180/10, p. 36, C-331/14, p. 23, C-420/18, p. 29, C-655/19, p. 29), ma non anche l'acquisto ed il sostentamento di spese nell'intenzione e convinzione di intraprendere un'attività economica al fine, appunto, di ricavarne “introiti aventi carattere di stabilità”, riconoscendo in tal modo la detrazione “prospettica” dell'IVA in quanto correlata a spese immediate per profitti futuri. Tale argomento è ben conosciuto dalla Cassazione che, al p. 38 dell'ordinanza di rinvio, correttamente richiama la Corte UE (v. C-249/17 e C-126/14) per la quale “È di per sé irrilevante che il bene interessato non sia stato da subito utilizzato per operazioni imponibili, dovendosi riconoscere il diritto alla detrazione anche per le prime spese di investimento effettuate ai fini dell'esercizio di un'impresa, poiché sarebbe in contrasto con il principio della neutralità dell'IVA ritenere che queste attività inizino solo nel momento in cui comincia ad aversi un reddito imponibile”. Tali argomentazioni hanno portato la Corte UE ad affermare ulteriormente che (v. C‑334/20, p. 35) “l'assenza di aumento del fatturato del soggetto passivo non può incidere sull'esercizio del diritto a detrazione. Infatti … il sistema comune dell'IVA garantisce la neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati delle stesse, purché dette attività siano, in linea di principio, di per sé soggette all'IVA. Pertanto, il diritto a detrazione, una volta sorto, rimane acquisito anche se, successivamente, l'attività economica prevista non è stata realizzata e, pertanto, non ha dato luogo ad operazioni soggette ad imposta o se il soggetto passivo non ha potuto utilizzare i beni o i servizi che hanno dato luogo a detrazione nell'ambito di operazioni imponibili a causa di circostanze estranee alla sua volontà” (rich. C‑42/19, p. 38 e 40). In C-42/19 (p. 40) si può leggere come una diversa interpretazione della norma “sarebbe contraria al principio della neutralità dell'IVA per quanto riguarda l'imposizione fiscale dell'impresa. Essa potrebbe creare, all'atto del trattamento fiscale delle stesse attività di investimento, disparità ingiustificate tra imprese che effettuano già operazioni imponibili e altre che cercano, mediante investimenti, di avviare attività da cui deriveranno operazioni soggette ad imposta. Parimenti, si creerebbero disparità arbitrarie tra queste ultime imprese, in quanto l'accettazione definitiva delle detrazioni dipenderebbe dalla questione di stabilire se tali investimenti diano luogo o meno ad operazioni soggette ad imposta” (v. C‑249/17, p. 25). Ed ancora, al fine di stabilire se un'attività costituisca un'attività economica, il numero e la portata delle vendite non possono in alcun modo costituire un discrimine “tra le attività di un operatore che agisce a titolo privato, che non rientrano nell'ambito di applicazione di tale direttiva, e quelle di un operatore le cui operazioni costituiscono un'attività economica” (C-180/10, p. 37, C-692/17, p. 25, C-655/19, p. 30). La Cassazione aggiunge in argomento, altresì (p. 29 in ord. di rimessione), che “la qualità di soggetto passivo può essere disconosciuta dall'Amministrazione finanziaria qualora dimostri che la dichiarazione dell'intenzione di avviare l'attività economica programmata non sia stata effettuata in buona fede dall'interessato, il quale ha finto di voler avviare un'attività economica specifica, ma ha in realtà cercato di far entrare nel suo patrimonio privato beni che possono essere oggetto di detrazione”. Del resto il contrasto a fenomeni abusivi, come ricordato in ordinanza (v. p. 44 e 45), ha portato la stessa Commissione UE, in riferimento all'art. 30, l. n. 724/1994 e nell'ambito di un'inchiesta volta a verificarne la compatibilità con la disciplina unionale, a ritenere che la norma italiana “non pregiudicasse il principio di proporzionalità laddove la perdita del diritto alla detrazione conseguisse ad accertamenti specifici compiuti dalle autorità tributarie (cfr. P-9064/10IT, risposta di Algirdas emessa a nome della Commissione del 30 novembre 2010)” (conclusioni infine sconfessate in C-341/22). Tali condivisibili argomentazioni hanno condotto la Cassazione a rinviare alla Corte UE l'esame delle seguenti questioni pregiudiziali:
La risposta della Corte UE La Corte, riprendendo di fatto la ricostruzione operata dalla Cassazione, ribadisce, quanto alla nozione di “attività economica”, il suo “carattere oggettivo”, dovendo considerarla “di per sé stessa, indipendentemente dai suoi scopi o dai suoi risultati” (rich. C‑604/19, p. 69), non potendo subordinare la qualità di soggetto passivo IVA alla “condizione che una persona effettui operazioni rilevanti ai fini dell'IVA il cui valore economico superi una soglia di reddito previamente fissata, la quale corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale persona dispone”, dato che ciò che rileva è “esclusivamente il fatto che detta persona eserciti effettivamente un'attività economica e che sfrutti un bene materiale o immateriale per ricavarne introiti aventi carattere di stabilità”, aspetto in punto di fatto che spetta al giudice del rinvio verificare sulla base delle indicazioni della Corte UE (p. 22-25 in sentenza). Di contro il diritto a detrazione può essere negato solo se l'Ufficio dimostri adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo ha commesso un'evasione dell'IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una tale evasione o che il diritto sia stato “invocato fraudolentemente o abusivamente” (v. C‑114/22, p. 43). L' aspetto dirimente della questione appare fondato sull'asimmetria probatoria tra le indicazioni fornite dalla Corte UE e l'utilizzo, da parte della norma italiana, di una mera presunzione usata per la negazione della detrazione, che però, in quanto radicata esclusivamente in un criterio economicistico (quantitativo e meramente numerico) di una “soglia di ricavi”, questo risulta del tutto estraneo a quelli “richiesti ai fini della dimostrazione di un'evasione o di un abuso”, perché scollegato al criterio principale basato “sulla valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini dell'IVA effettuate nel corso di un determinato periodo d'imposta”, e non già “soltanto sulla valutazione del loro volume”. In tal modo la “presunzione” italiana “non può essere considerata tale da dimostrare che il diritto alla detrazione dell'IVA sia stato invocato in modo fraudolento o abusivo”, potendo viceversa negare il diritto a detrazione solo “con elementi diversi da supposizioni” (v. C‑281/20, p. 52). |