Locazioni di immobili degli istituti diocesani per il sostentamento del clero e agevolazioni tributarie per i relativi proventi
30 Aprile 2024
Massima L'agevolazione di cui all'art. 6, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 601/1973 - “riduzione dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche”, prevista per gli “Enti il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficienza o di istruzione - spetta agli Istituti diocesani per il sostentamento del clero, quali Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti come persone giuridiche, per i proventi derivanti dalla locazione del patrimonio immobiliare, purché si tratti di mero godimento - e, quindi, della sola riscossione dei canoni senza una specifica organizzazione di mezzi e risorse funzionali al risultato economico - e che tali proventi siano impiegati per le finalità istituzionali dell'Ente medesimo. Il caso Il giudizio - giunto all'esame del Supremo Collegio - originava dall'iniziativa dell'Agenzia delle Entrate, la quale aveva recuperato a tassazione maggiore Ires un Istituto diocesano per il sostentamento del clero, disconoscendo l'agevolazione di cui all'art. 6, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 601/1973, con riferimento ai proventi derivanti dalla locazione di determinati immobili di sua proprietà. L'Ente aveva proposto ricorso davanti alla (allora) Commissione tributaria provinciale - ora Corte di giustizia tributaria di primo grado - che l'aveva accolto, annullando l'avviso e ritenendo la natura soggettiva dell'agevolazione de qua. La Commissione tributaria regionale aveva rigettato l'appello dell'Agenzia, evidenziando, comunque, che l'Istituto diocesano svolgeva attività in rapporto di strumentalità immediata e diretta con il fine di religione e culto, sostanzialmente di gestione di locazioni, da cui ricavava proventi direttamente utilizzati per corrispondere la remunerazione ai sacerdoti. L'Agenzia delle Entrate - soccombente in entrambi i gradi di merito - proponeva, quindi, ricorso per cassazione. La questione Si trattava di verificare la spettanza, in capo all'Istituto diocesano per il sostentamento del clero, dell'agevolazione tributaria di cui sopra, considerando che quest'ultima richiede - non solo la qualifica “soggettiva” dell'Ente, ma anche - la valutazione della natura dell'attività “oggettiva”, che deve essere coerente con il fine istituzionale perseguito o deve essere ad esso connessa da un rapporto di strumentalità diretta ed immediata, considerando, peraltro, che, trattandosi di norma agevolativa, l'onere di provarne i presupposti grava sul contribuente. Le soluzioni giuridiche I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto fondate le doglianze della ricorrente. Va, innanzitutto, tracciata la cornice di riferimento normativo. L'art. 6, comma 1, lett. c) del d.P.R. n. 601/1973 - rubricato “Riduzione dell'imposta sul reddito delle persone giuridiche”, ed abrogato dall'art. 1, comma 51, della l. 30 dicembre 2018, n. 145 - prevede che l'imposta sul reddito delle persone giuridiche è ridotta alla metà nei confronti degli Enti “il cui fine è equiparato per legge ai fini di beneficenza o di istruzione”, purché in ogni caso tali enti abbiano personalità giuridica (comma 2). L'art. 7, n. 3, dell'Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede, ratificato con la l. 25 marzo 1985, n. 121, prevede che, “Agli effetti tributari, gli Enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione”, e che “le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli Enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”. La l. 20 maggio 1985, n. 222 - “Disposizioni sugli Enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi” - stabilisce, all'art. 15, che “gli Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti possono svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto, alle condizioni previste dall'art. 7, n. 3, comma 2, dell'accordo del 18 febbraio 1984”, e, all'art. 16, che, “agli effetti delle leggi civili, si considerano comunque: a) attività di religione o di culto quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana; b) attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro”. Orbene, la consolidata giurisprudenza di vertice ritiene, al fine del riconoscimento dell'agevolazione del citato art. 6 del d.P.R. n. 601/1973, che, in generale, non sia sufficiente il mero requisito “soggettivo”, ossia non sia sufficiente, per quanto concerne in particolare gli Enti equiparati a quelli di beneficenza o istruzione, che essi siano sorti con tali enunciati fini, ma occorre accertare, altresì, che l'attività in concreto esercitata dagli stessi non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, e, inoltre, in presenza di un'attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti, dovendo altrimenti essere classificata come “attività diversa”, soggetta all'ordinaria tassazione (v., ex multis, Cass. civ., sez. V, 13 dicembre 2016, n. 25586). Tale giurisprudenza risale ad alcuni arresti degli anni '90; in particolare, Cass. civ., sez. V, 29 marzo 1990, n. 2573, ha evidenziato che la necessità di accertare, oltre al requisito soggettivo, l'attività concretamente svolta come descritta nell'atto costitutivo, con precisa indicazione dell'oggetto, oppure, in difetto, come effettivamente svolta, nasceva alla stregua del coordinamento della citata norma con gli artt. 1 e 2 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 598, istitutivo dell'Irpeg, dovendosi accertare che non avesse carattere commerciale, in via esclusiva o principale, e, inoltre, in presenza di un'attività commerciale di tipo non prevalente - nella specie, trattavasi di attività editoriale - che la stessa fosse in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini di religione e di culto, e, quindi, non si limitasse a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti (tale decisione concludeva che tale non è un'attività volta al procacciamento di mezzi economici, quando, “per l'intrinseca natura di essa o per la sua estraneità rispetto al fine, di religione o di culto, non sia con esso coerente in quanto indifferentemente utilizzabile per il perseguimento di qualsiasi altro fine, cioè quando si tratti di un'attività volta al procacciamento di mezzi economici da impiegare in una ulteriore attività direttamente finalizzata, quest'ultima, al culto o alla religione”). La natura non solo soggettiva dell'agevolazione è stata, poi, confermata dagli ermellini in numerose altre decisioni (iniziando da Cass. civ., sez. V, 15 febbraio 1995, n. 1633, e Cass. civ., sez. V, 8 marzo 1995, n. 2705, che aveva avuto modo di precisare che il rapporto di strumentalità deve essere accertato dal giudice del merito e che il relativo accertamento, ove sia logicamente e congruamente motivato, era incensurabile in sede di legittimità; cui adde Cass. civ., sez. V, 2 ottobre 2013, n. 22493, e Cass. civ., sez. V, 13 gennaio 2021, n. 339). In altri termini, l'esistenza del fine “di religione o di culto” rappresenta una condizione necessaria ma non sufficiente per la spettanza dell'agevolazione de qua, in quanto il beneficio non è applicabile solo in ragione della qualificazione soggettiva dell'Ente, ma assume rilevanza anche l'elemento oggettivo, rappresentato dal tipo di attività svolta. Del resto - ad avviso dei magistrati di Piazza Cavour - tale interpretazione è coerente con la considerazione che l'agevolazione, configurando un'eccezione al principio di corrispondenza fra capacità contributiva e soggettività tributaria (quale immediata applicazione del canone costituzionale di cui all'art. 53 Cost.), può giustificarsi solo in ragione della considerazione della attività che determinate categorie di contribuenti svolgono e con la considerazione che le norme agevolatrici sono norme eccezionali e, quindi, di stretta interpretazione (v., in tal senso, soprattutto Cass. n. 25586/2016 cit.). Il quadro va completato ricordando che ricade sul soggetto richiedente l'onere di provare il possesso di tutti i requisiti necessari per la fruizione del beneficio fiscale, per cui l'Ente deve dimostrare, ai fini della propria natura non commerciale, che l'attività in concreto svolta non abbia carattere commerciale in via esclusiva o principale. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, il Supremo Collegio ha ribadito, dunque, l'agevolazione di cui trattasi spetti agli Enti con finalità di beneficenza o istruzione o ad essi equiparati per legge, come gli Enti ecclesiastici con fine di religione o culto (elemento “soggettivo”), nonché per le attività non commerciali o per le attività commerciali non prevalenti che siano, però, in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con i fini di beneficenza e istruzione o, nel caso di specie, religione o culto (elemento “oggettivo”), puntualizzando che “l'attività è strumentale direttamente ove, mediante essa, l'Ente si limiti a procacciare i mezzi economici occorrenti al fine istituzionale” e che “non è un'attività volta al procacciamento di mezzi economici, quando, per l'intrinseca natura di essa o per la sua estraneità rispetto al fine (di religione o di culto), non sia con esso coerente in quanto indifferentemente utilizzabile per il perseguimento di qualsiasi altro fine, ossia quando si tratti di un'attività volta al procacciamento di mezzi economici da impiegare in un'ulteriore attività direttamente finalizzata, quest'ultima, al culto o alla religione”. Osservazioni Tali principi di carattere generale vanno “calati” al caso concreto, dovendosi esaminare le due questioni specifiche del giudizio, ossia, da un lato, la natura dell'Istituto diocesano per il sostentamento del clero e, dall'altro, la possibilità di considerare l'attività di concessione a terzi di locazione di immobili come strumentale e diretta al fine statutario. Sotto il primo profilo, si ricorda che gli Istituti diocesani per il sostentamento del clero fanno parte degli Enti ecclesiastici che possono essere civilmente riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili, ai sensi degli artt. 21 ss. della l. n. 222/1985, che regolano l'istituzione ed il fine dei medesimi. In particolare, l'art. 21 prevede che, in ogni diocesi venga eretto, entro il 30 settembre 1986, con decreto del Vescovo diocesano, l'Istituto per il sostentamento del clero previsto dal canone 1274 del codice di diritto canonico (il quale prevede che, “nelle singole diocesi ci sia un istituto speciale che raccolga i beni o le offerte, al preciso scopo che si provveda al sostentamento dei chierici che prestano servizio a favore della diocesi, a norma del can. 281, a meno che non si sia provveduto ai medesimi diversamente”). L'art. 24, comma 1, determina le attività demandate agli Istituti per il sostentamento del clero, stabilendo - per quanto qui interessa - che, dall'1° gennaio 1987, ognuno di essi provveda, in conformità allo statuto, ad assicurare, nella misura periodicamente determinata dalla Conferenza episcopale italiana, il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore della relativa diocesi. L'art. 27 aggiunge, inoltre, che l'Istituto centrale e gli altri Istituti per il sostentamento del clero possono svolgere anche funzioni previdenziali integrative autonome per il clero, prevedendo, altresì, che ogni Istituto diocesano destini, in conformità ad apposite norme statutarie, una quota delle proprie risorse per sovvenire alle necessità che si manifestino nei casi di abbandono della vita ecclesiastica da parte di coloro che non abbiano altre fonti sufficienti di reddito. L'art. 28 prevede, poi, che, con il decreto di erezione di ciascun Istituto, sono contestualmente estinti la mensa vescovile, i benefici capitolari, parrocchiali, vicariali curati o comunque denominati, esistenti nella diocesi, e i loro patrimoni siano trasferiti di diritto all'Istituto stesso. Gli artt. 33-35 contemplano, infine, ulteriori compiti degli Istituti diocesani per il sostentamento del clero e regolano il funzionamento di questi ultimi sotto diversi aspetti; qui rileva soprattutto l'art. 35, comma 1, in materia di aspetti economici riguardanti il funzionamento dell'Istituto, il quale stabilisce che esso provveda all'integrazione economica eventualmente spettante ai sacerdoti della diocesi con i redditi del proprio patrimonio, salvo l'intervento dell'Istituto centrale nel caso in cui questi ultimi fossero insufficienti. Gli artt. 36-38 disciplinano, infine, l'alienazione di beni, ed in particolare anche di immobili, da parte degli Istituti per il sostentamento del clero. Orbene, dal complesso di tali disposizioni si evince, pertanto, che il legislatore non ha escluso, ed anzi ha presupposto, che l'Istituto diocesano per il sostentamento del clero possa svolgere, accanto ad attività di religione o di culto, anche ulteriori compiti, e, in particolare, anche attività di natura e rilevanza economica e commerciale, finalizzate alla produzione di quei redditi del proprio patrimonio attraverso i quali provvedere ad integrare, se necessario, la remunerazione spettante al clero che svolge servizio in favore della diocesi, per assicurare il congruo e dignitoso sostentamento di ogni sacerdote (v., per tutte, Cass. civ., sez. V, 30 luglio 2019, n. 20480). L'Istituto - originariamente ricorrente - può inserirsi, dunque, tra gli Enti ecclesiastici, civilmente riconosciuti, che, come previsto dall'art. 15 della l. n. 222/1985, possono svolgere, oltre alle attività di religione o di culto descritte dal successivo art. 16, lett. a), ovvero “quelle dirette all'esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana”, anche quelle diverse di cui all'art. 16, lett. b), ovvero “quelle di assistenza e beneficenza, istruzione, educazione e cultura e, in ogni caso, le attività commerciali o a scopo di lucro”. L'individuazione delle due categorie di attività, ai fini della relativa disciplina nell'ordinamento civile e, in particolare, per quanto riguarda l'aspetto tributario, è stata ritenuta rispettosa di quanto previsto dall'art. 7, n. 3, dell'accordo del 18 febbraio 1984 tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, il quale dispone, appunto, che, “agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione”. Riguardo, invece, alle ulteriori attività, il comma 2 del suddetto art. 7 - espressamente richiamato dall'art. 15 della l. n. 222/1985, stabilisce che “le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli Enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”. Sotto il secondo profilo, si doveva accertare la natura del reddito recuperato a tassazione, consistente, nel concreto, in un reddito da locazione immobiliare. Coerentemente con la ratio legis, la disposizione recata dall'art. 6 del d.P.R. n. 601/1973, in via di principio, deve applicarsi anche ai proventi derivanti dalla locazione del patrimonio immobiliare - come nel caso di immobili ricevuti per lasciti e donazioni dagli Istituti diocesani - a due condizioni, imposte dai principi sopra esposti. In primo luogo, si deve essere in presenza di un mero godimento del patrimonio immobiliare, finalizzato al reperimento di fondi necessari al raggiungimento dei fini istituzionali dell'Ente, che si configura quando la locazione di immobili si risolve nella mera riscossione dei canoni, senza una specifica e dedicata organizzazione di mezzi e risorse funzionali all'ottenimento del risultato economico. Infatti, in linea di principio, la mera riscossione dei canoni da parte dell'Ente religioso, così come l'esecuzione dei pagamenti delle spese riferite agli immobili, non implica di per sé l'esercizio di un'attività commerciale. Tuttavia, al fine di escludere lo svolgimento di una attività organizzata in forma di impresa, occorre verificare, caso per caso, che l'Ente non impieghi strutture e mezzi organizzati con fini di concorrenzialità sul mercato, oppure che non si avvalga di altri strumenti propri degli operatori di mercato, esaminando circostanze di fatto che caratterizzano in concreto la situazione specifica. La prassi segnala alcuni indici idonei a tali fini, quali: a) la ripetitività con cui si immette sul libero mercato degli affitti il medesimo bene in ragione della stipula di contratti di breve durata; b) la consistenza del patrimonio immobiliare gestito (da valutarsi non isolatamente, ma qualora accompagnata dalla presenza di una struttura organizzativa dedicata alla gestione immobiliare); c) l'adozione di tecniche di marketing finalizzate ad attirare clientela; d) il ricorso a promozioni volte a fidelizzare il conduttore; e) la “presenza attiva” in un mercato con spot pubblicitari ad hoc, insegne o marchi distintivi. L'ipotesi di mero godimento ricorre, invero, quando gli immobili non sono inseriti in un tale contesto, ma sono posseduti al mero scopo di trarne redditi di natura fondiaria, attraverso i quali l'Ente si sostiene e si procura i proventi per poter raggiungere i fini istituzionali, compiendo, quindi, gli interventi conservativi, quali la manutenzione o il risanamento del bene, oppure quelli migliorativi, atti a consentirne un uso idoneo, mentre, per converso, non rientra nella predetta nozione una gestione caratterizzata dalla presenza di atti volti alla trasformazione del patrimonio immobiliare. Ove si verta in ipotesi di mero godimento, occorre, poi, che tali proventi siano effettivamente ed esclusivamente impiegati nelle attività di “religione o di culto”, e cioè nel fine istituzionale dell'Ente. Trattandosi di mero godimento del patrimonio immobiliare, la destinazione dei relativi proventi, in via esclusiva e diretta, alla realizzazione delle finalità istituzionali dell'Ente consente di ricondurre il reddito così ritratto al beneficio della riduzione di aliquota; nell'ipotesi in cui l'Ente svolga solo attività di “religione o di culto”, il reinvestimento nelle attività istituzionali rappresenta l'unica destinazione possibile dei proventi derivanti dal mero godimento del patrimonio immobiliare. Qualora, invece, l'Ente svolga anche altre “attività diverse”, la destinazione dei proventi alle attività istituzionali dovrà risultare da apposita documentazione. La sussistenza delle predette condizioni garantisce, pertanto, che il godimento in chiave meramente conservativa del patrimonio immobiliare, i cui proventi costituiscono i mezzi necessari per il perseguimento dello scopo principale, non si ponga in contrasto con le finalità ideali e non economiche perseguite dall'Ente medesimo. 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