La clausola di mero gradimento e la sua modificazione tra diritto di recesso e abuso di maggioranza

Alessandro Simioniato
03 Maggio 2024

La Cassazione si inserisce nel dibattito relativo alla possibilità, per i soci di una s.r.l., di esercitare il diritto di recesso ad nutum in presenza di una clausola di mero gradimento.

Massima

Il riconoscimento di un diritto di recesso ad nutum in capo a tutti i soci della S.r.l. risulta giustificato in presenza di una clausola che preveda l'intrasferibilità assoluta della partecipazione, ma non in presenza di una clausola che preveda il rilascio di un gradimento mero, atteso che in questo caso il socio risulterà “prigioniero” della società solo se gli organi sociali, i soci o i terzi, a cui spetta la decisione, neghino il gradimento; appare, dunque, preferibile un'interpretazione dell'art. 2469, comma 2, c.c., coerente con la ratio cui è ispirato e che riconosca il diritto di recesso ai soci solo nel caso in cui il gradimento mero sia negato, poiché solo in tale circostanza si verifica il rischio di “prigionia” del socio che la norma intende evitare.

È possibile sindacare la delibera che abbia modificato la clausola di gradimento sotto il profilo dell'abuso di maggioranza, dovendosi in particolare verificare se tale modifica integri un'intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza in pregiudizio dei diritti di partecipazione e patrimoniali dei soci di minoranza.

Il caso

Una S.r.l. adottava – col voto favorevole di due soci titolari, rispettivamente, del 34% e del 33% del capitale sociale – una delibera di modificazione dello statuto, per effetto della quale veniva meno il diritto di mero gradimento sulle cessioni tra soci, nonché verso parenti e affini dei soci; pochi giorni dopo l'adozione della delibera uno dei soci che aveva votato a favore della stessa cedeva la propria partecipazione alla moglie. Il rappresentante della comunione indivisa, titolare del rimanente 33% del capitale sociale, chiedeva al Tribunale l'accertamento del proprio diritto di recesso dalla società con conseguente condanna di quest'ultima al rimborso del valore della partecipazione, ovvero, in via subordinata, l'accertamento dell'invalidità della delibera modificativa dello statuto, per abuso di maggioranza.

Vedendosi respinte tutte le domande, sia in primo che in secondo grado, la minoranza ricorreva per cassazione contro la sentenza della Corte d'Appello di Firenze sulla base di plurimi motivi, ma, in particolare, per quanto qui maggiormente interessa, (i) per aver la sentenza impugnata ritenuto che, in presenza di una clausola statutaria di mero gradimento, il diritto di recesso sussisterebbe unicamente in caso di diniego di gradimento opposto dagli altri soci e non anche per il solo fatto della previsione di una siffatta clausola e (ii) per aver il giudice di secondo grado respinto la censura di abuso di maggioranza limitandosi a considerare la rispondenza della delibera impugnata all'interesse sociale, senza prendere in esame l'aspetto della riferibilità della delibera stessa ad un'intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari in pregiudizio dei diritti di partecipazione e patrimoniali dei soci di minoranza.

Le questioni giuridiche

L'art. 2469, comma 2, c.c. prevede che “Qualora l'atto costitutivo preveda l'intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'articolo 2473”: la previsione sembra parificare, quanto agli effetti, le clausole c.d. di gradimento mero – ovvero quelle pattuizioni che subordinano il trasferimento delle partecipazioni al gradimento incondizionato o illimitato di organi sociali, soci o terzi – alle clausole di intrasferibilità.

Dottrina e giurisprudenza si sono sin qui divise sull'interpretazione della disposizione: se cioè sia da preferire l'interpretazione letterale, per cui sarebbe sufficiente la sola presenza della clausola di mero gradimento nello statuto per legittimare i soci all'esercizio del diritto di recesso (G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, Commentario Schlesinger, I, Giuffré, 2010, 589, nt. 80; P. Revigliono, Il recesso nella società a responsabilità limitata, Giuffré, 2008, 229 ss. In giurisprudenza, Trib. Milano, 30 dicembre 2019, in Soc., 2020, 435 ss.) oppure se il diritto di recesso possa essere esercitato solo qualora venga negato il gradimento a fronte di una richiesta proveniente dal soggetto interessato a cedere la propria partecipazione (G. Olivieri, Il trasferimento inter vivos delle quote, in S.r.l. Commentario dedicato a G.B. Portale, Giuffré, 2011, 327 ss.; O. Cagnasso, Clausola di mero gradimento e diritto di recesso nella disciplina della S.r.l., in Giur. It., 2020, 881. In giurisprudenza, Trib. Terni 28 giugno 2010, in Giur. it., 2010, 2551 ss.; Trib. Firenze 7 settembre 2017, in ilcaso.it. In questo senso è anche l'orientamento della sezione impresa del Tribunale e della Corte d'Appello di Venezia: Trib. Venezia, 27 marzo 2023, n. 556; App. Venezia, 30 luglio 2021, n. 2158; Trib. Venezia, 30 gennaio 2020, n. 190 in osservatoriodirittoimpresa.it).

Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione è intervenuta aderendo a quest'ultimo orientamento sulla base di differenti argomenti. In primo luogo, la S.C. ha fatto riferimento alla

ratio complessiva della disposizione, individuata nella necessità di evitare che il socio rimanga “prigioniero” della società: per questa via, il riconoscimento di un diritto di recesso ad nutum in capo a tutti i soci risulterebbe giustificato in presenza di una clausola che preveda l'intrasferibilità assoluta della partecipazione, ma non per la sola presenza di una clausola che preveda la trasferibilità subordinata al rilascio di un mero gradimento, perché in questo caso il socio risulterebbe effettivamente “prigioniero” della società solo se gli organi sociali, i soci o i terzi, a cui spetta la decisione, negassero il gradimento. Aggiunge la Corte che, anzi, il riconoscimento della possibilità di recedere ad nutum a tutti i soci avrebbe un effetto opposto a quello tutelato dalla norma in esame e si risolverebbe nell'attribuire al socio che abbia deciso di uscire dalla compagine sociale una facoltà di recesso indiscriminata e così di ottenere la liquidazione della propria partecipazione, a carico degli altri soci, anche in assenza di soggetti intenzionati a comprare la sua partecipazione, con conseguente compromissione di altri concorrenti interessi, quali quelli alla conservazione della garanzia patrimoniale rappresentata dal patrimonio sociale e alla stabilità dei rapporti sociali. Sotto altro profilo, la S.C. ha respinto l'argomento del ricorrente che faceva riferimento alla disciplina legale delle clausole di gradimento prevista per le società per azioni – addotto a sostegno dell'assunto che laddove il legislatore ha voluto attribuire rilevanza al mancato gradimento lo ha espressamente previsto (art. 2355-bis, comma 3, c.c.) – essendo la disciplina prevista in tema di limiti alla circolazione delle azioni nelle S.p.a. radicalmente diversa da quella dettata dall'art. 2469 c.c. per le S.r.l. e non essendovi conseguentemente spazio per l'applicazione analogica della disciplina dettata in materia di S.p.a.

I ricorrenti avevano, inoltre, dedotto, con riguardo al rigetto della domanda di invalidità della delibera per abuso di maggioranza, che la valutazione del giudice di merito si era incentrata solo sulla verifica della rispondenza della delibera approvata all'interesse sociale, senza prendere in esame l'aspetto della riferibilità della delibera stessa ad un'intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari in pregiudizio dei diritti di partecipazione e patrimoniali dei soci di minoranza. La S.C. ha ritenuto fondata tale censura, richiamando il proprio orientamento inaugurato dalla pronuncia di Cass. 12 dicembre 2005, n. 27387, per cui “l'abuso è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari quando la deliberazione: a) non trovi alcuna giustificazione nell'interesse della società; deve pertanto trattarsi di una deviazione dell'atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale; b) sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché è rivolta al conseguimento di interessi extrasociali. I due requisiti testé evidenziati non sono richiesti congiuntamente, ma in alternativa” (la massima è richiamata, tra le tante, da Cass. Civ. 30 gennaio 2023, n. 2767; Cass. Civ. 29 settembre 2020, n. 20625; Cass. Civ. 17 luglio 2007, n. 15942). Sulla base di questo principio, la S.C. ha ritenuto fondato il rilievo del ricorrente ed ha ritenuto conseguentemente di dover cassare con rinvio la sentenza, chiedendo alla Corte d'appello un nuovo esame diretto, per l'appunto, a verificare se la delibera impugnata fosse stata approvata al fine pregiudicare gli interessi dei soci di minoranza.

Il riferimento all'intento che ispira la maggioranza è estremamente frequente nella giurisprudenza in tema di abuso di maggioranza, anche se su tale intento permane una certa confusione terminologica: in alcune pronunce, infatti, “l'intento fraudolento” svolge un ruolo assolutamente decisivo, nel senso che la finalità fraudolenta deve costituire “l'unica ragione della delibera” (Cass. Civ. 7 febbraio 1979, n. 818; Cass. Civ. 29 maggio 1986, n. 3628; Cass. Civ. 11 marzo 1993, n. 2959; Cass. Civ. 21 dicembre 1994, n. 11017; Cass. Civ. 19 aprile 2003, n. 6361; Trib. Bologna 27 aprile 2014), mentre in altre pronunce l'esistenza di tale intento rappresenta solo una delle due alternative in grado di determinare l'invalidità della delibera, l'altra essendo quella in cui il voto risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza (Cass. Civ. 11 giugno 2003, n. 9353; Cass. Civ. 4 maggio 1994, n. 4323; Trib. Bologna 12 aprile 2017; Trib. Milano 14 ottobre 2013; App. Milano 31 maggio 2005; App. Bari 23 novembre 2009); nelle pronunce che hanno adottato la massima di Cass. Civ. 12 dicembre 2005, n. 27387, infine, l'intenzionale attività fraudolenta diventa alternativa, come sopra rilevato, rispetto all'ipotesi di “deviazione dell'atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale”.

Con riguardo alla verifica della sussistenza dell'abuso di maggioranza in relazione a delibere che (come quella portata all'attenzione della Corte) hanno ad oggetto modifiche dello statuto, va ricordato che la giurisprudenza assegna rilievo decisivo alla contestualità o quantomeno alla vicinanza temporale tra la prospettata modifica e il potenziale esercizio del diritto, ovvero alla circostanza che la modifica (o, come in questo caso, l'eliminazione della clausola) intervenga in un momento in cui si sono già realizzate, o sono prossime a realizzarsi, le situazioni di fatto in cui quel diritto può essere concretamente esercitato (cfr. Trib. Milano 22 gennaio 2015, n. 45749; Trib. Torino 26 novembre 2004 e Trib. Vicenza 31 ottobre 2005, entrambe in Giur. comm., 2006, II, 390 ss., che hanno ritenuto annullabili per abuso di potere deliberazioni di modifica dello statuto intervenute nell'imminenza dell'entrata in vigore della riforma del diritto societario, allo scopo di impedire al socio di minoranza di avvalersi del diritto di recesso che ne sarebbe per legge conseguito ex art. 2437 c.c.).

Osservazioni

La decisione della S.C. sulla prima massima appare congrua e coerente, nonostante imponga il superamento del dato letterale della norma, a patto di individuare la ratio della disposizione dell'art. 2469, comma 2, c.c., come ha fatto la sentenza in commento, nell'esigenza di evitare che il socio possa rimanere “prigioniero” della società o, in altri termini, di tutelare l'interesse a disinvestire dalla società a condizioni non inique nel caso siano già stati individuati soggetti interessati all'acquisto della partecipazione; se lo scopo fosse, invece, quello di favorire la creazione di un mercato delle partecipazioni di S.r.l. risulterebbe più coerente permettere il recesso per il solo fatto della previsione di una clausola di gradimento mero, poiché la presenza stessa della clausola nello statuto rappresenta un ostacolo concreto alla ricerca di offerte di acquisto. Sul punto, tuttavia, è stato rilevato come non sarebbe possibile rinvenire quest'ultima ratio nella disposizione, poiché altrimenti la medesima disciplina dovrebbe riguardare anche la clausola di prelazione, in presenza della quale, invece, – almeno quando la prelazione è propria – è pacifico che non spetti al socio il diritto di recesso (M. Speranzin, Limiti al trasferimento delle partecipazioni in S.r.l., in Trattato delle società diretto da V. Donativi, III, Milano 2023, 300).

La decisione della Corte di legittimità sulla seconda questione – laddove non ritiene sufficiente verificare, al fine della sussistenza dell'abuso di maggioranza, la rispondenza della delibera approvata all'interesse sociale – merita piena adesione: va detto, anzi, che la prima analisi – quella cioè diretta a verificare all'interesse sociale la rispondenza della delibera adottata grazie al voto della maggioranza – è in concreto di scarsa o nulla utilità concreta.

Focalizzandosi sull' “interesse sociale”, a prescindere dal contenuto che si voglia dare a questa espressione, si rischia, infatti, di spostare l'attenzione dall'unico conflitto in cui l'abuso di maggioranza è chiamato a fungere da contemperamento, che è quello tra l'interesse della minoranza, da un lato, e quello della maggioranza, dall'altro. Per altro verso, se lo scopo è quello di individuare regole ulteriori nella valutazione della legittimità di deliberazioni assembleari rispetto alla rigida applicazione del principio maggioritario, non è possibile affidarsi ad una nozione come quella di “interesse sociale”: a tacere delle differenti visioni dell'interesse sociale che si sono contrapposte nel tempo e che ancor oggi sono oggetto di un rinnovato dibattito, è il riferimento stesso alla nozione di “interesse”, dove riferito ad una società, che è insuscettibile di guidare l'interprete nella ricerca di soluzioni concrete. Quando si utilizza la nozione di “interesse” con riferimento ad una società di capitali, il concetto di “interesse” perde il suo significato concreto, perché gli interessi degli azionisti sono eterogenei, cosicché risulta intrinsecamente contraddittoria la ricerca di un interesse unitario a cui dovrebbe tendere l'azione della società. Per questa via si finisce o per ipotizzare un'entità “impersonale” o per attribuire all'espressione “interesse” un senso diverso da quello che gli assegniamo comunemente quando lo riferiamo agli individui: quello cioè di definire una “funzione” che si voglia riconoscere alla persona giuridica o all'impresa. Se, tuttavia, è la funzione o lo scopo della società il criterio a cui ancorare la verifica della sussistenza dell'abuso di maggioranza, la complessità del dibattito sul tema basta da sola a sancire l'impossibilità di pervenire per questa via ad un risultato effettivamente utile a definire soluzioni concrete a fronte della varietà dei conflitti endosocietari che possono verificarsi (come è stato autorevolmente rilevato, quella dell'“interesse sociale” è una figura retorica che viene spesso utilizzata come un tool of presentation, privo di referenza semantica, in grado di esaurirsi nei significati che richiama e, in definitiva, eliminabile senza perdita di significato dal discorso: C. Angelici, Note minime sull'interesse sociale, in Banca borsa tit. credito, 2014, I, 255).

Guida all'approfondimento

Per un approfondimento sul tema della prima massima, M. Speranzin, Limiti al trasferimento delle partecipazioni in S.r.l., in Trattato delle società diretto da V. Donativi, III, Milano 2023, 290 e ss.

Sulla seconda massima cfr. A. Simionato, L'abuso di maggioranza. Profili e limiti del controllo sulla maggioranza nelle società di capitali, Giuffrè, 2023.

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