Dolo incidente e danno risarcibile: dubbi sul caso della servitù di passaggio
13 Maggio 2024
Massima Nell'ipotesi di dolo incidente exart. 1440 c.c., il danno risarcibile corrisponde al minor vantaggio o al maggior aggravio economico rispetto alle diverse condizioni alle quali sarebbe stato concluso il contratto in mancanza della condotta dolosa, nonché agli ulteriori pregiudizi correlati alla lesione dell'interesse positivo sotteso all'accordo, ove discendenti dalla suddetta condotta alla stregua dell'art. 1223 c.c. Il caso Il caso riguarda la responsabilità precontrattuale dei promittenti alienanti per aver sottaciuto, in sede di conclusione del contratto preliminare di compravendita di un immobile, la circostanza che quest'ultimo fosse gravato da servitù di passaggio. Più in particolare, gli acquirenti agivano in giudizio contro i venditori per il risarcimento del danno, corrispondente alle spese sopportate per addivenire a una soluzione transattiva con i titolari della servitù di passaggio. Espressamente il caso riguarda il risarcimento del danno per vizio della volontà del contratto derivante non da dolo determinante, ma da dolo incidente. In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda con condanna al risarcimento di circa 134 mila euro. La Corte d'Appello riformava la decisione di primo grado limitando il danno risarcibile a circa 31 mila euro, pari alla differenza tra il prezzo dell'immobile e il prezzo corrisposto al precedente proprietario, individuandosi così la minor convenienza dell'affare determinata dagli artifici e raggiri posti in essere dai venditori convenuti in giudizio. La questione In caso di dolo incidente, qual è il danno risarcibile? Oltre alla minor convenienza dell'affare, può essere ricompreso il maggior costo per addivenire ad una soluzione alternativa con i titolari della servitù di passaggio ovvero per conformare la cosa venduta? Si tratta di una voce di danno eziologicamente collegata agli artifici e raggiri posti in essere dal venditore? La sentenza in esame si pronuncia su una questione molto interessante, ossia se nel commisurare il risarcimento al minor valore di scambio che sarebbe stato attribuito al bene ove fosse stata conosciuta la servitù, sia risarcibile anche il pregiudizio patrimoniale corrispondente alle spese sopportate per addivenire a una soluzione transattiva con i titolari della servitù di passaggio. Le soluzioni giuridiche Innanzitutto, si pone la questione se le spese per la soluzione transattiva costituiscano danno risarcibile, in quanto conseguenza diretta e immediata del raggiro. Un primo orientamento, valorizza un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto tra evento dannoso e conseguenza risarcibile. Così, in tema di responsabilità precontrattuale, qualora il danno derivi dalla conclusione di un contratto valido ed efficace ma economicamente sconveniente, il risarcimento deve essere ragguagliato al minore vantaggio o al maggiore aggravio economico determinato dal contegno sleale di una delle parti, restando irrilevante che la violazione del dovere di buona fede sia intervenuto cronologicamente a valle e non a monte della conclusione del contratto, salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto(Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 2022, n.4715; Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2005, n.19024; Cass. civ., sez. III, 29 marzo 1999, n.2956). Dunque, è ammesso il danno risarcibile nell'ipotesi del dolo incidente per la totalità dei danni, valutati nel loro complesso, a condizione che risultino collegati da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto. In questo senso, i costi di una soluzione transattiva non sarebbero conseguenza diretta e immediata. Diversamente, si può ritenere che, secondo le regole generali, la responsabilità per il danno derivante da reato comprende anche i danni mediati ed indiretti che costituiscano effetti normali dell'illecito secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale. In realtà, la questione è irrilevante, secondo la sentenza annotata, che evidenzia come il possibile contrasto è solo apparente, perché la norma di riferimento comune alle due prospettive è l'art. 1223 cod. civ., che esprime una regola causale a fronte della quale perde rilievo la distinzione meramente terminologia e astratta tra conseguenze immediate o mediate, dirette o indirette, dell'evento, mentre diviene decisiva la regola del giudizio causale e il criterio logico nel quale essa si identifica. Infatti: a) l'art. 1440 cod. civ. si limita a stabilire che il contraente in mala fede risponde dei danni", senza dunque nulla stabilire quanto al criterio di selezione delle conseguenze dannose risarcibili; b) allora occorre riferirsi all'art. 1223 c.c., applicabile anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale per il richiamo che ne fa l'art. 2056 c.c., a mente del quale "Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta"; c) come noto, per pacifica opinione detta norma pone la regola causale che presiede alla identificazione dei danni risarcibili, indicando il nesso che deve intercorrere tra l'evento lesivo (o danno-evento ingiusto, ossia la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento, in relazione eziologica con la condotta dell'agente) e le sue conseguenze pregiudizievoli. Nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve alla duplice finalità di fungere da criterio di imputazione del fatto illecito (artt. 1218 e 2043 cod. civ.) e di regola operativa per il successivo accertamento dell'entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile; essa va pertanto scomposta nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull'illecito (nesso condotta/evento) e al giudizio sul danno da risarcire (nesso evento/danno); d) quest'ultimo è un "giudizio ipotetico" che assume il valore di criterio idoneo a valutare compiutamente l'ammontare del danno patrimoniale, criterio dunque di "causalità ipotetica, necessario onde non tramutare in (indebito) arricchimento il (debito) risarcimento spettante al danneggiato"; in tale prospettiva, la disposizione dell'art. 1223cod. civ. si pone in termini di vero e proprio ius singulare, poiché con essa l'ordinamento limita il risarcimento alla perdita subita ed al mancato guadagno (che conseguono tipicamente, in base all'id quod plerumque accidit, al fatto dannoso del tipo di quello verificatosi) in quanto conseguenze immediate e dirette dell'inadempimento o di altro fatto dannoso, così allocando presso il danneggiante non una qualsiasi ripercussione patrimoniale, ma ciò che costituisce il danno vero e proprio (id est, il "danno ingiusto"); a ciò si giunge attraverso un giudizio ipotetico/differenziale tra condizione (dannosa) attuale e condizione del danneggiato quale sarebbe risultata in assenza del fatto dannoso; e) si tratta, però, di un giudizio causale distinto da quello che riguarda il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento perché possa configurarsi, a monte, una responsabilità "strutturale" (c.d. causalità materiale), retto dal principio di equivalenza causale (artt. 40 – 41 c.p.), essendo invece deputato, come detto, all'individuazione delle singole conseguenze dannose, con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già accertata) responsabilità risarcitoria, secondo giudizio ipotetico, controfattuale, fondato sul raffronto con le condizioni che si sarebbero verificate se non ci fosse stato il fatto lesivo (c.d. causalità giuridica); f) ed è proprio il fondamento causale anche di tale secondo giudizio (di tipo ipotetico, controfattuale) che spiega e giustifica l'opinione - consolidata in giurisprudenza, sebbene in apparenza dissonante rispetto alle indicazioni testuali della norma - secondo cui il nesso che ne costituisce oggetto è da intendersi in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come conseguenza normale dell'evento lesivo, secondo la teoria della cd. regolarità causale. La questione, dunque, è se la voce di danno sia eziologicamente al comportamento dei venditori, secondo tale ultima regola. La Suprema Corte richiama i principi generali espressi sull'art. 1440 c.c.: a) è opinione consolidata nella giurisprudenza di legittimità che, in ipotesi di dolo incidente ex art. 1440 c.c., va riconosciuta la risarcibilità di danni ulteriori rispetto al minor vantaggio o al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento truffaldino e segnatamente dei danni correlati alla lesione dell'interesse positivo sottostante al contratto. b) quando, come nell'ipotesi prefigurata dall'art. 1440 c.c., il danno derivi da un contratto valido ed efficace ma "sconveniente", il risarcimento, pur non potendo essere commisurato al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto posto in essere …, non può neppure essere determinato … avendo riguardo all'interesse della parte vittima del comportamento doloso (o, comunque, non conforme a buona fede) a non essere coinvolta nelle trattative, per la decisiva ragione che, in questo caso, il contratto è stato validamente concluso, sia pure a condizioni diverse da quelle alle quali esso sarebbe stato stipulato senza l'interferenza del comportamento scorretto (Cassazione civile sez. I, 29/09/2005, n.19024); c) allora, nel rispetto della regola causale predetta, si può riconoscere il risarcimento dell'interesse positivo del deceptus, a condizione di intenderlo come "diritto ad essere collocato nel complesso delle condizioni nelle quali si sarebbe trovato qualora non fosse stato indotto in errore dall'altrui comportamento doloso". Il danno risarcibile, in altre parole, deve essere commisurato al "minor vantaggio o al maggior aggravio economico rispetto alle condizioni diverse a cui sarebbe stato stipulato il contratto, senza l'interferenza del comportamento scorretto di una delle parti e comunque avendo riguardo a tutti i danni collegati a tale comportamento da un rapporto conseguenziale e diretto" (Cass. civ., sez. II, 14 febbraio 2022, n.4715). Cosa, allora, per le spese per ovviare alla servitù di passaggio? Non sono conseguenze risarcibili. Tali spese, sostenute per ovviare alla sussistenza della servitù di passaggio pedonale e carraio, individuando una "soluzione alternativa agli aventi diritti della suddetta servitù di passaggio e ridurre così al minimo i disagi subiti", non possono in alcun modo considerarsi esborsi "causalmente dipendenti" dalla condotta truffaldina. Valga un giudizio controfattuale, portandosi alla situazione in cui si sarebbero trovati i contraenti se la condotta truffaldina non fosse stata posta in essere: la condizione fattuale e giuridica dell'immobile non sarebbe stata diversa, si sarebbe sempre trattato di un bene gravato da servitù di passaggio pedonale e carraio; ciò che sarebbe mutato è (solo) la posizione, più consapevole e attinente alla realtà, da cui essi potevano muovere nella trattativa e nella determinazione del contenuto del contratto. Detto diversamente, l'esigenza di trovare soluzioni alternative per rimediare al peso imposto dal diritto reale limitato ci sarebbe stata egualmente e non è sorta in conseguenza del dolo. Il danno, piuttosto, è rappresentato dalla diversa ponderazione del valore del bene ai fini dell'incontro tra offerta e domanda e, dunque, in definitiva, della determinazione del prezzo. Certamente, è del tutto verosimile che, a tali fini, gli acquirenti avrebbero posto sul tavolo delle trattative le spese preventivabili per approntare sui luoghi le dette soluzioni alternative, ma non è detto che, in tale sede, quelle spese avrebbero potuto essere di comune accordo portate per intero in riduzione del prezzo richiesto dagli alienanti. Ebbene, il pregiudizio risarcibile è stato correttamente commisurato al minor valore di scambio che al bene sarebbe stato attribuito ove non fosse stato taciuta la servitù su di esso gravante. Liquidando quell'importo la Corte d'appello ha dunque, da un lato, identificato esattamente il solo pregiudizio causalmente riferibile alla condotta dolosa; dall'altro, espresso una valutazione di merito circa il più adatto parametro di liquidazione, come tale insindacabile in Cassazione. Osservazioni Indubbiamente, la sentenza in esame sviluppa un articolato e condivisibile impianto argomentativo, che ricostruisce il sistema risarcitorio, sotto il profilo causale, specie richiamando la funzione di individuazione dei danni risarcibili. In linea di principio, il danno ex art. 1440 c.c. si identifica con una diminuzione del contenuto della controprestazione. Come ricordato, il danno va quantificato con riferimento al minor vantaggio o al maggiore aggravio economico connesso alle determinazioni contrattuali per effetto del dolo incidente. Ma quali sono le diverse condizioni economiche cui agganciare la quantificazione del danno? Correttamente, la Suprema Corte riconosce il risarcimento dell'interesse positivo del deceptus, a condizione di intenderlo come "diritto ad essere collocato nel complesso delle condizioni nelle quali si sarebbe trovato qualora non fosse stato indotto in errore dall'altrui comportamento doloso". Ma non è sufficiente, perché rischia di essere riduttivo, come vedremo. Infatti, l'interesse positivo si commisura non solo alle utilità perse, ma anche ai danni emergenti per aver subito l'inganno. La stessa Cassazione (richiamata in sentenza) aveva ritenuto che il danno risarcibile nell'ipotesi del dolo incidente, prevista dall'art. 1440 c.c., non si esaurisce nelle diverse condizioni alle quali l'accordo viene concluso, bensì si estende alla totalità dei danni, valutati nel loro complesso, che risultino collegati da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto. Rilevano sia il danno emergente che il lucro cessante. (Nella specie: il venditore che aveva omesso di informare l'acquirente della sussistenza di un giudizio petitorio sul fondo oggetto di compravendita risponde anche dei danni derivanti dalla sospensione dei pagamenti da parte di terzi successivi acquirenti e dalla dazione di garanzie in loro favore): Cass. civ., sez. III, 29 marzo 1999, n. 2956. Si intuisce la vicinanza delle ipotesi. La presenza di una servitù di passaggio (per quanto possa essere stata taciuta e non rilevata) può fondare anche l'idea che il deceptus vada risarcito del danno corrispondente al costo per rimediare al peso taciuto per effetto del dolo incidente: il danno emerge per poter esercitare in modo pieno e libero il proprio diritto di proprietà, oggetto del contratto. In questo senso, la decisione annotata può suscitare dei dubbi, al di là della ferma motivazione, nel complesso condivisibile. Si deve convenire anche sul giudizio controfattuale fatto dalla Suprema corte: non si può dire che, se gli acquirenti fossero stati messi a conoscenza della servitù, avrebbero proposto un diverso prezzo che sarebbe stato accettato dai venditori. Però, l'argomento rischia di sviare l'attenzione. Il problema è che il dolo incidente ha comportato un vizio non solo della volontà (di cui si discute), ma anche del bene compravenduto. Esemplifichiamo. Nel caso di scuola, acquisto un orologio da taschino credendolo d'oro a causa del dolo del venditore, mentre è solo placcato d'oro. È evidente che, volendo comunque acquistare quell'orologio, il danno andrà commisurato al minor valore. Si deve escludere che possa chiedere il danno pari al costo della ricerca e all'acquisto di una cassa in oro, che deriverebbe da una mia decisione soggettiva non addossabile eziologicamente al venditore, pur in dolo. Diverso è il caso di un bene gravato da una servitù o, in generale, viziato. Qui vi è un costo/danno per conformare il bene alle previsioni contrattuali, che, di regola, prevedono clausole di garanzia di assenza di pesi e vincoli. Nel caso affrontato dalla Cassazione, l'oggetto del contendere riguardava esclusivamente l'art. 1440 c.c. Nessun riferimento vi è al profilo della garanzia per vizi. Pertanto, in questa sede non esamineremo questo aspetto. Tuttavia, presumendo le normali clausole di garanzia del bene da pesi e vincoli, non si può ignorare che nel regolamento negoziale viene in considerazione anche questo aspetto. Pertanto, nell'allocazione del danno risarcibile per dolo incidente si deve tener conto di questo aspetto: - è irrilevante che, se il compratore fosse stato a conoscenza della servitù avrebbe proposto un prezzo inferiore nella fase delle trattative e che non si ha certezza che sarebbe stato accettato dal venditore. Rectius, l'affermazione in sé è corretta, ma deve considerare l'intero assetto negoziale su cui il dolo incidente opera; - ipotizzando una normale clausola di garanzia, il danno risarcibile assume una portata più ampia, perché il dolo incidente si collega anche ad altre clausole e obbligazioni contrattuali di responsabilità; - sia nella fase pre-contrattuale sia nella fase contrattuale, la responsabilità assume contorni più ampi; comunque anche nella responsabilità precontrattuale va individuato il contenuto dei futuri obblighi negoziali e del relativo obbligo risarcitorio a causa del dolo; - nella realtà dei traffici economici, in presenza di un peso o di un vizio, di regola il possibile acquirente si interessa sui costi per rimuovere il peso o il vizio, non tanto sul minor valore del bene, proprio perché è comunque interessato all'acquisto della cosa (diversamente ricadremmo nell'ipotesi di dolo determinante); quindi nel caso del dolo incidente, il venditore in dolo si assume la responsabilità di tale evenienza, non solo perché dovrebbe essere una conseguenza “normale e prevedibile”, ma anche perché il dolo va ad incidere anche sulle altre clausole di garanzia normalmente presenti nel contratto, per cui si assume la responsabilità anche dei danni per le spese di “conformazione” del bene alle pattuizioni; - anche nella selezione e allocazione del danno risarcibile, si potrebbe tradire la funzione risarcitoria messa in evidenza dalla stessa Cassazione: pensiamo al caso che il costo per “rimuovere” il peso sia di gran lunga superiore al minor prezzo di mercato; allora il venditore troverebbe più conveniente il risarcimento per dolo incidente, piuttosto che assumersi la responsabilità di conformare il bene alle previsioni contrattuali. Il che non può essere, anche se può apparire un'ipotesi più astratta che reale, tuttavia deve far riflettere sulla tenuta e sulla coerenza delle regole e dei principi in gioco. Ma forse, la questione non è solo teorica. Nel caso concreto, in primo grado la condanna al risarcimento era di circa 134 mila euro (in accoglimento della domanda risarcitoria), ridotta in secondo grado e confermata in Cassazione a euro. È evidente la ricaduta in termini di allocazione della responsabilità. Occorre una valutazione globale ed unitaria. Infatti, nel caso di pesi o vincoli è inevitabile pensare all'art. 1480 c.c., che per il caso di vendita di cosa parzialmente altrui e se il compratore avesse egualmente acquisto la cosa, costui può ottenere solo una riduzione del prezzo (non la risoluzione del contratto), oltre al risarcimento del danno. Senza entrare nella disciplina dei vizi e dei pesi sulla cosa venduta, l'art. 1440 c.c. è sì una previsione generica (si limita a prevedere il risarcimento del danno), ma va collegata al restante sistema di responsabilità negoziale. Per il caso di cosa gravata da oneri o diritti di godimento di terzi, l'art. 1489 c.c. prevede la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo secondo la disposizione dell'art. 1480 c.c. E l'art. 1480 cod. civ., sulla vendita di cosa parzialmente altrui, prevede che se il compratore secondo le circostanze avrebbe comunque acquistato la cosa senza quella parte di cui non è proprietario (analogamente al dolo incidente), può ottenere solo una riduzione del prezzo, oltre al risarcimento del danno. Nell'ipotesi di vendita di cosa gravata da diritti o da oneri reali ai sensi dell'art. 1489 c.c., il compratore ha diritto oltre alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo, secondo quanto stabilito dall'art. 1480 c.c., anche al risarcimento del danno il quale presuppone la colpa del venditore e non necessariamente la sua malafede, in quanto detto diritto al risarcimento trova fondamento nelle norme generali in materia d'inadempimento (art. 1218 e 1223 c.c.), applicabili anche per effetto del richiamo di esse direttamente operato dall'art. 1479 c.c., attraverso il rinvio della norma dell'art. 1480 c.c. (Cass. civ., sez. II, 10 aprile 1986, n. 2498). Al di là della disciplina della garanzia per evizione e per vizio, resta il fatto che il dolo incidente estende i suoi effetti oltre l'aver taciuto e nascosto l'esistenza di una servitù di passaggio. Nell'ambito della garanzia per evizione, il venditore è tenuto al risarcimento del danno nei limiti del cosiddetto interesse negativo e quindi alla restituzione del prezzo, al rimborso delle spese utili e necessarie fatte sulla cosa (Cass. civ., sez. III, 6 gennaio 1982, n.5; Trib. Sulmona, 2 febbraio 2011). Nel caso di interesse positivo, il risarcimento è integrale. Quindi, si dovrebbe riconoscere la risarcibilità anche delle spese fatte per la cosa. il giudice ha il potere-dovere di individuare in termini economici la esatta misura dal pregiudizio sofferto dal danneggiato, in maniera da ristabilire la situazione patrimoniale che avrebbe potuto realizzare senza l'esistenza del fatto menomativo. Allora, probabilmente il criterio di risarcibilità dovrebbe guardare alla congruità, necessità e utilità della spesa di cui si chiede il risarcimento, escludendo quelle voluttuarie o superflue o personali non collegabili eziologicamente. Concludendo, la sentenza in esame appare molto argomentata e convincente in linea generale, tuttavia, a ben vedere, possono rimanere dei dubbi sull'individuazione del danno risarcibile in determinati e specifici casi, dove il dolo incidente pervade il regolamento negoziale, coinvolgendo eventuali espresse garanzie di libertà da pesi o vincoli. |