Danno da inattività forzosa derivante da un periodo di cassa integrazione illegittima

Luigi Pazienza
24 Giugno 2024

La questione centrale della sentenza attiene alla configurabilità di un danno patrimoniale alla professionalità nella ipotesi specifica di collocamento illegittimo di un lavoratore in cassa integrazione.

Massima

Il danno alla professionalità, per sua natura pluri-offensivo, rappresenta un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione da parte del lavoratore per collocazione illegittima in cassa integrazione. E' conforme all'art. 2697 c.c. sostenere che un periodo di diversi anni ( nel caso di specie almeno tre) di forzosa ed illegittima inattività è idoneo  a ledere la professionalità del lavoratore. Essendo legato alla perdita della professionalità, dell'immagine professionale e della dignità lavorativa il danno può essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione nella misura del 30%.

Il caso

La lavoratrice, posta in cassa integrazione per diversi anni, ha presentato un ricorso nei confronti del proprio ex  datore di lavoro, lamentando la illegittimità della cassa integrazione disposta e chiedendo in primis il riconoscimento delle differenze retributive rispetto al trattamento di cassa percepito ed in secundis il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale ( danno biologico, danno morale e danno esistenziale). Il Tribunale adito ha rilevato la illegittimità della Cassa integrazione disposta dalla società datoriale ed ha rigettato tutte le domande risarcitorie. La Corte di Appello ha rigettato l'appello principale della società ed ha accolto parzialmente l'appello incidentale della lavoratrice condannando la società a corrispondere alla lavoratrice in via equitativa una somma pari al 30% della retribuzione mensile netta percepita dalla lavoratrice a titolo di danno alla professionalità per tutto il periodo di illegittima sospensione in cassa integrazione.

La società ricorrente in Cassazione si duole della decisione della Corte di merito, in quanto da un lato i giudici avrebbero richiamato una giurisprudenza non calzante rispetto alla fattispecie poiché riferita alla diversa violazione dell'art. 2103 c.c. e dall'altro perché mancherebbe la prova del danno.

La Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Bologna.

La questione

La questione centrale della sentenza attiene alla configurabilità di un danno patrimoniale alla professionalità nella ipotesi specifica di collocamento illegittimo di un lavoratore in cassa integrazione. In questo caso, infatti, il rapporto di lavoro viene sospeso e l'inadempimento, secondo la tesi del datore di lavoro, sarebbe già sanzionato con il riconoscimento delle differenze retributive tra il trattamento previdenziale percepito ed il compenso spettante a titolo retributivo. L'altro aspetto rilevante dalla vicenda è dato dalla prova del danno. Sul punto, come in tutte le ipotesi di danno patrimoniale o non patrimoniale, occorre comprendere come applicare i criteri della prova presuntiva: in questo caso la Cassazione ritiene decisiva ai fini della sussistenza della prova il lungo periodo di sospensione illegittima del rapporto di lavoro.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ribadisce l'orientamento giurisprudenziale secondo cui il lavoratore che viene collocato in maniera illegittima in cassa integrazione ha diritto al risarcimento del danno professionale. Secondo la Cassazione, il danno da inattività per collocazione in cassa integrazione non è differente da quello relativo all'inattività discendente dalla violazione dell'art. 2103 c.c. per svuotamento di mansioni o altri illeciti simili. Infatti, la responsabilità del datore di lavoro che lasci inattivo il lavoratore in violazione di disposizioni di legge o contrattuali (relative alla sospensione per cassa integrazione o alla normativa in tema di corretta assegnazione delle mansioni) risulta, in ogni caso, discendente dalla violazione di obblighi riconducibili a norme che integrano il contratto di lavoro e, dunque, configura sempre una forma di responsabilità di natura contrattuale .

La Suprema Corte, nel respingere la censura della parte datoriale, ha in primo luogo osservato che il danno alla professionalità, per sua natura plurioffensivo, richiesto dalla lavoratrice e liquidato dal giudice d'appello, è un danno diverso dalla mancata percezione della retribuzione per illegittima collocazione in cig: il primo è infatti legato, appunto, alla perdita della professionalità, dell'immagine professionale e della dignità lavorativa; il secondo, invece, deriva dalla mancata corresponsione e percezione della retribuzione derivante dal contratto. Ha poi aggiunto che il danno patrimoniale alla professionalità, per giurisprudenza consolidata, può essere liquidato prendendo a riferimento una quota della retribuzione che, nel caso di specie, la Corte di merito aveva individuato nella misura del 30%.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale avrebbe svolto un accertamento pienamente in linea con la giurisprudenza di legittimità in materia di oneri probatori. Infatti, secondo tale insegnamento, ai fini della dell'esistenza e della prova anche presuntiva del danno alla professionalità (anche da demansionamento e dequalificazione professionale), costituiscono elementi indiziari gravi , precisi e concordanti, la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalitàcoinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. civ. n. 25743/2018; Cass. civ. n. 19778/2014). L'accertamento in merito alle circostanze da cui il giudice ha argomentato la lesione della professionalità e l'esistenza di un danno non può essere sindacato in sede di legittimità attenendo, ovviamente, il merito della vicenda. Inoltre, nella vicenda esaminata dalla Corte, il periodo di forzosa ed illegittima inattività si era protratto per circa tre anni e, secondo la Cassazione, sarebbe conforme all'art. 2697 c.c. sostenere che tale periodo possa essere apprezzato dal punto di vista della produzione di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore.

Osservazioni

Troppo spesso il danno derivante dall'inadempimento datoriale (in particolare il danno da demansionamento o da inattività forzosa) viene trattato come danno unitario, comprensivo sia degli aspetti patrimoniali che di quelli non patrimoniali. A tale situazione di confusione ha tentato di porre rimedio la sentenza della Cassazione a sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha adottato una soluzione equilibrata: distinguere nettamente il piano patrimoniale da quello non patrimoniale. I giudici di legittimità affermano che dall'inadempimento datoriale possa derivare un danno patrimoniale, il quale può consistere “sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali”. L'inadempimento può pregiudicare quel complesso di capacità e di attitudini definibile con il termine professionalità, che è certamente un bene economicamente valutabile, posto che esso rappresenta uno dei principali parametri per la determinazione del valore di un dipendente sul mercato del lavoro.

In particolare, viene osservato che il danno non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore, che denunci il danno subito, di fornire la prova in base alla regola generale di cui all'art. 2697 c.c. Le Sezioni Unite con la sentenza n. 6572/2006 hanno sancito la necessità della dimostrazione di un evento ulteriore ed autonomo rispetto al mero inadempimento, in quanto il risarcimento assolve alla funzione di reintegrare un pregiudizio conseguente all'effettiva diminuzione del patrimonio in senso lato del lavoratore. I giudici di legittimità hanno così enunciato il principio di diritto per cui “dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo. L'inadempimento, infatti, è già sanzionato con l'obbligo di corresponsione della retribuzione, ed è perciò necessario che si produca una lesione aggiuntiva, e per certi versi autonoma”.

La decisione citata, quindi, conclude affermando che “si rende indispensabile una specifica allegazione da parte del lavoratore, che deve in primo luogo precisare quali danni ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione in fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno”, non essendo sufficiente né la mera esistenza della dequalificazione e/o inattività forzosa, né la richiesta generica di ristoro di tutti i danni subiti, in quanto il giudice non può in alcun modo prescindere dalla natura del pregiudizio lamentato dalla parte.

La Suprema Corte ha esaminato, altresì, le singole ipotesi in cui il danno da demansionamento può declinarsi, evidenziando che il pregiudizio patrimoniale “non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo”. Inoltre, con riferimento al danno da perdita di chance, ha precisato ulteriormente che “delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività”.

Così, a titolo esemplificativo, la Corte di cassazione ha  affermato che il pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore nonché di accrescimento di quella futura, si verifica tutte le volte in cui un lavoratore sia chiamato a svolgere un'attività soggetta ad una continua evoluzione e formazione e, quindi, caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale, destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio in un apprezzabile periodo di tempo (Cass. civ. n. 18405/2016; Cass. civ. n. 19600/2017). Oppure, ancora, è stato osservato che il pregiudizio per perdita di chance, il quale si identifica nella definitiva perdita della possibilità di conseguire un vantaggio economico, da valutarsi, peraltro ex ante, ovvero al momento dell'illecito, potrà essere configurato solo nell'ipotesi in cui il lavoratore dimostri quali aspettative (anche di carriera) siano state concretamente frustrate dal suo demansionamento. Sul punto, va ricordata una  decisione della Suprema Corte che, confermando la sentenza della Corte territoriale in ordine alla domanda di risarcimento del danno da parte di un lavoratore trasferito dal settore delle relazioni sindacali, di cui era referente, al dipartimento fondo pensioni, settore per nulla aderente alla sua pregressa competenza e professionalità, ha ravvisato un danno da perdita di chance sul presupposto causale che, se non fosse intervenuto il demansionamento, lo stesso lavoratore avrebbe acquisito l'esperienza e la maturità tale da poter conseguire la superiore qualifica di dirigente “per come era avvenuto per una significativa quota dei funzionari del suo grado a ridosso del periodo in considerazione” (Cass. civ. n. 6110/2012).

In un altro caso, la Corte di Cassazione ha riconosciuto il danno da perdita di chancea due lavoratrici alle quali era stata sottratta una posizione di responsabilità nei rispettivi settori di competenza, a causa dell'unificazione degli stessi e dell'assegnazione della titolarità del nuovo ambito ad un soggetto esterno. Nel caso in esame, in particolare, i giudici di legittimità, una volta accertata la privazione illegittima della direzione di unità operativa, hanno osservato che “se è vero che la nuova posizione organizzativa era unica a seguito dell'accorpamento delle aree e che le aspiranti erano due, sicché entrambe non avrebbero potuto contestualmente congiuntamente ricoprire la posizione organizzativa unica risultante dall'accorpamento, è anche vero che entrambe le lavoratrici avevano una chance (da ritenersi, in assenza di elementi di valutazione, in parti uguali) di poter conseguire la posizione organizzativa, ciò che naturalmente implica una percentuale di probabilità che comunque va riconosciuta, essendo certo che la posizione organizzativa, in assenza dell'illegittima nomina del terzo, sarebbe spettato ad una delle lavoratrici aspiranti” (Cass. civ. n. 18207/2014). 

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche va esaminato il caso della sentenza della Cassazione n. 10267/2024.

Le argomentazioni datoriali disattese dalla Cassazione non sono condivisibili, perché operano una commistione tra piani risarcitori che sono ontologicamente riconducibili alla violazione di precetti normativi distinti, ossia quelli attinenti all'osservanza dei criteri di rotazione da applicare in un regime di cassa integrazione e quelli posti a tutela della professionalità e della personalità del lavoratore. Per giurisprudenza consolidata, infatti, nelle ipotesi in cui la parte datoriale eserciti illegittimamente il potere di sospensione della prestazione e quindi della retribuzione, i lavoratori possono agire “per ottenere il risarcimento della retribuzione piena ed integrata, restando tale diritto insensibile alle vicende interessanti il piano delle relazione sindacali e gli eventuali accordi intervenuti in quella sede” (Cass. civ. n. 10236/2009).  Si tratta di un danno patrimoniale oggettivamente diverso da quello derivante dall'impoverimento professionale.

Non è, dunque, accoglibile la tesi datoriale in base al quale l'accertamento di un diritto scaturito dalla violazione di una norma possa assorbire anche quello derivante dalla violazione di un altro precetto normativo. Come già osservato, anche un'unica condotta contra legem  può essere fonte di una pluralità di eventi dannosi, autonomamente risarcibili, sia a contenuto patrimoniale, pregiudicando quel complesso di capacità e di attitudini che è di certo un bene economicamente valutabile, sia a contenuto non patrimoniale.

Per tali ragioni appare pienamente condivisibile la tesi della Cassazione secondo cui nella ipotesi di collocamento illegittimo in cassa integrazione di un lavoratore appare configurabile l'ulteriore danno patrimoniale alla professionalità. Il riconoscimento della retribuzione piena non esaurisce il piano della risarcibilità del danno alla professionalità.

Altra problematica, tuttavia, è quella della sussistenza in concreto del danno lamentato. In disparte la considerazione che si tratta di una quaestio facti che la Corte di legittimità non può sindacare, nella sentenza si afferma da un lato la necessità da parte del lavoratore di adeguate e specifiche allegazioni sul punto e dall'altro che appare rispettoso dei principi di cui all'art. 2697 c.c. la valorizzazione da parte della Corte di merito del lungo periodo di collocamento in cassa integrazione (circa tre anni). E qui viene in gioco la tematica eternamente scivolosa della prova presuntiva.

Ed in particolare viene in considerazione il dilemma della differenziazione tra l'ipotesi del danno in re ipsa e del danno provato con le presunzioni.

Infatti, la Suprema Corte mettendo fine al contrasto giurisprudenziale in ordine alla sussistenza, in caso di demansionamento, di un danno in re ipsa, sancisce, da una parte, l'onere di specificare il pregiudizio di cui si chiede il ristoro, non potendo il giudice sopperirvi nemmeno in forza dei poteri istruttori propri del rito del lavoro di cui all'art. 421 c.p.c., dall'altra parte, l'onere per il lavoratore di provare, anche per il tramite di presunzioni, la sussistenza di un pregiudizio da risarcire che abbia inciso negativamente sulla sua sfera patrimoniale o non patrimoniale.

In tale meccanismo, quindi, l'accertamento dell'inadempimento del datore di lavoro rappresenta il presupposto necessario ma non sufficiente a fondare la domanda di risarcimento del danno, posto che dal mero inadempimento a cui fa fronte, nel regolamento contrattuale, l'obbligazione di corrispondere la retribuzione non possono farsi discendere in via automatica ulteriori conseguenze pregiudizievoli.

Invero, sul punto, la giurisprudenza, nel dare concreta applicazione ai principi sopra esposti, ha avuto modo di precisare che “in tema di prova del danno da dequalificazione professionaleex art. 2729 c.c., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità  del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell'ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza” (Cass. civ. n. 17163/2016).

A tal proposito un indirizzo giurisprudenziale, introducendo tra i pregiudizi scaturenti dal demansionamento la lesione del “quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando”, pur formalmente richiamandosi all'insegnamento delle Sezioni Unite del 2006, rende forse un po' troppo semplice l'onere probatorio a carico del lavoratore.

Tra le pronunce più rappresentative sul punto, si evidenzia la sentenza della Cassazione n. 12253/2015, la quale, occupandosi del demansionamento di una annunciatrice televisiva rimossa dall'incarico e posta in situazione di pressoché assoluta inoperosità, ha statuito che “il divario rispetto ai compiti in precedenza assolti, sconfinante nella totale erosione delle funzioni, unitamente alla durata della dequalificazione, con un depauperamento che si aggrava vieppiù con il decorso del tempo, rendono plausibile il convincimento espresso dal giudice del merito circa l'esistenza di un danno inferto alla professionalità della lavoratrice, atteso che la duratura assegnazione a mansioni non equivalenti ha impedito alla stessa di esercitare il quotidiano diritto di professionalizzarsi lavorando, cagionando, secondo un criterio eziologico di normalità sociale, il progressivo impoverimento del suo bagaglio di conoscenze e di esperienze, con pregiudizi attinenti allo svolgimento della vita professionale del lavoratore”. I giudici di legittimità, prendendo in considerazione le modalità del demansionamento e la relativa durata nel tempo, hanno ritenuto corretto presumere una condotta datoriale dannosa, individuando il danno da risarcire nella lesione al giornaliero dispiegarsi dell'attività lavorativa, quale diritto idoneo a produrre una crescita automatica del bagaglio professionale del lavoratore.

Tale diritto, dunque, sembrerebbe non necessitare di una allegazione e di una prova concreta inerente alle possibilità di arricchimento perdute, ma il solo fatto di lavorare (ovvero non lavorare), senza poter utilizzare le proprie competenze e, implicitamente, depauperando il bagaglio acquisito, implica un nocumento meritevole di essere ristorato.

Allo stesso modo, facendo applicazione dei principi de quibus, la Corte di cassazione, esaminando la domanda risarcitoria avanzata da un lavoratore che svolgendo mansioni di natura tecnica era stato adibito a mansioni meramente esecutive, ha affermato che “dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono”, per poi concludere “la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi di fatto in base ai quali il giudice di merito ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, avuto riguardo all'attribuzione di compiti esecutivi privi di particolare qualificazione, idonea non solo ad impedire il naturale sviluppo professionale, curato per anni anche con la partecipazione a corsi di formazione e addestramento, ma anche a compromettere irrimediabilmente il bagaglio di conoscenze tecniche già acquisite” (Cass. civ. n. 3422/2016). Facendo leva nuovamente sul diritto a professionalizzarsi svolgendo le mansioni per le quali vi è stata la assunzione, quale elemento di per sé idoneo ad arricchire, quotidianamente, le competenze del lavoratore, i giudici di legittimità, valorizzata anche la durata del demansionamento, hanno ritenuto sussistente la prova presunta di un danno di natura patrimoniale meritevole di essere risarcito.

A tal proposito assume rilievo la sentenza della Corte di cassazione del maggio 2012, n. 7963/2012, la quale ha affrontato un'ipotesi in cui il lavoratore era stato posto in condizione di assoluta inoperosità. Il caso esaminato dai giudici di legittimità riguardava il demansionamento subito da un lavoratore a seguito della mancata reintegrazione nel suo posto di lavoro, con conseguente impossibilità dello stesso di prestare la propria attività lavorativa (Cass. civ. n. 7963/2012). I giudici di merito, applicando i principi in ordine all'onere della prova in materia di demansionamento, avevano tuttavia escluso la risarcibilità dei danni lamentati dal lavoratore, sul presupposto che gli stessi erano privi di qualsivoglia allegazione e dimostrazione concreta. La Suprema Corte, invece, riformando la decisione, ha osservato che “il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 c.c., ma è al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del  lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa”. La Corte d'Appello non si sarebbe attenuta ai suddetti principi “ove ha escluso categoricamente che la forzata inattività conclamata possa essere di per sé fonte di danno, facendo riferimento, a supporto di tale statuizione, alla giurisprudenza di questa Corte riguardante la fattispecie del “demansionamento professionale” in senso proprio, la quale presuppone l'adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto quelle di appartenenza e, quindi, comunque lo svolgimento di una attività lavorativa. Si tratta, come è evidente, di una fattispecie diversa da quella che viene in considerazione nel presente giudizio, alla quale si applicano regole differenti anche per quel che riguarda il tipo di prova posta a carico delle parti”.

Nella decisione in esame, quindi, la Suprema Corte ha operato una differenziazione ontologica tra il demansionamento, che presuppone comunque l'espletamento di una attività lavorativa, e l'assoluta inattività, distinguendo, altresì, il conseguente onere probatorio.

Tale orientamento non appare condivisibile: occorre a tal fine nell'ottica di una compiuta valorizzazione del principio della autonomia tra danno ed inadempimento un forte richiamo ai principi della sentenza della Cassazione a sezioni unite del 2006. La inattività forzosa ed il demansionamento sono sicuramente due fattispecie di inadempimento datoriale differenti. Tuttavia, al fine di evitare una duplicazione delle poste risarcitorie, è sempre opportuno che la allegazione del danno sia differente rispetto alla allegazione dell'inadempimento: non appare ammissibile un inadempimento ex se potenzialmente più dannoso rispetto ad un altro. Per tali ragioni non appare sufficiente il mero richiamo generico agli indici presuntivi più volte indicati dalla Suprema Corte, ma gli stessi devono essere concretamente dimostrati.

Come più volte suggerisce una acuta dottrina, una eccessiva prudenza del giudice nell'utilizzare la prova presuntiva può condurre a vuoti di tutela risarcitoria. Allo stesso tempo un suo uso troppo poco meditato può determinare effetti distorsivi, soprattutto quando ciò si accompagni al ricorso all'equità pura. Presumere non significa invertire l'onere probatorio: significa limitare lo sforzo probatorio a determinati fatti noti e idonei a dare l'avvio ad un ragionamento fondato su regole d'esperienza per giungere alla dimostrazione di un fatto ulteriore. Se per un verso la prova presuntiva costituisce un mezzo di prova di rango non inferiore agli altri, in quanto non subordinato nella gerarchia dei mezzi di prova e dunque non più debole della prova diretta o rappresentativa, per altro verso, però, alla prova presuntiva non può essere attribuita una forza maggiore rispetto alle altre prove dirette.

La parte danneggiata ha l'onere di fornire la prova diretta di tutto ciò che può costituire il fatto-base. Vi è dunque uno sforzo probatorio indefettibile della parte onerata. È questo che distingue la prova presuntiva dal danno-evento e dal danno in re ipsa. In relazione ad essi lo sforzo probatorio si arresta alla lesione del diritto. Con la prova presuntiva l'onere probatorio va oltre, estendendosi a circostanze ulteriori, benché possa trattarsi di circostanze vicine all'evento lesivo. La vicinanza delle circostanze che possono costituire la base dell'inferenza, persino l'appartenenza di queste al medesimo contesto in cui è accaduto l'evento lesivo, non significa piena coincidenza.

Dal danno in re ipsa la prova presuntiva si differenzia in quanto il fatto noto da cui desumere il fatto ignoto del danno non può essere la semplice lesione del diritto. Il fatto noto, come correttamente evidenziato in dottrina, non può essere l'ingiustizia sic et simpliciter ma, quanto meno, l'ingiustizia circostanziata, ossia l'ingiustizia colta nelle sue circostanze, esaminata nel suo contesto particolare, l'ingiustizia verso quella persona con quelle caratteristiche. Questa è la soglia minima invalicabile, al di sotto della quale si cade nel danno in re ipsa o nel danno-evento.

Orbene nella sentenza del 2024 non vi è un riferimento esplicito alla tipologia di attività lavorativa espletata dalla lavoratrice né alle aspettative di carriera del lavoratore in concreto frustate:  sembrerebbe che l'elemento utilizzato in modo esclusivo della corte di merito e valorizzato in termini esaustivi dalla Suprema Corte ai fini della risarcibilità del danno patrimoniale alla professionalità sia quello della lunghezza temporale del periodo di inattività forzosa subita dal lavoratore. 

La prova presuntiva si sostanzia in una sorta di costellazione di elementi fattuali noti da cui, attraverso una opportuna valutazione, il Giudice deve inferire il danno.

Proprio al fine di evitare il rischio di introdurre nella valutazione giudiziale una forma di danno in re ipsa mascherato, il mero profilo temporale, in assenza di ulteriori elementi, non appare sufficiente al riconoscimento del danno patrimoniale alla professionalità.

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