Imponibilità IVA dei servizi di vendita all’asta di beni dati in pegno in quanto non accessori alla concessione del credito
17 Luglio 2024
Massima L'articolo 135, paragrafo 1, lettera b), della direttiva n. 112/2006/CE, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto, deve essere interpretato nel senso che le prestazioni relative all'organizzazione di vendite all'asta di beni dati in pegno non hanno carattere accessorio rispetto alle prestazioni principali relative alla concessione di crediti su pegno, ai sensi di tale disposizione, di modo che esse non condividono il medesimo trattamento fiscale riservato a tali prestazioni principali in materia d'imposta sul valore aggiunto. Il caso La ricorrente nel giudizio di rinvio è una società la cui attività consiste essenzialmente nella concessione di prestiti garantiti da pegno, nello specifico articoli in oro e argento nonché orologi e, nell'ambito e in conseguenza dell'attività principale di mutuante, effettua la vendita di beni d'occasione, aggiudicandoli in aste indette da essa stessa. Circa le modalità di vendita, è previsto che se i mutuatari non riscattano gli articoli dati in pegno o in caso di ritardo nel pagamento degli interessi superiore a tre mesi, i beni possono essere venduti all'asta mediante proposta in busta chiusa, con la quale la società mutuante presenta un'offerta di acquisto, solitamente dal 10% al 30% superiore rispetto al valore residuo, in modo tale da aggiudicarsi sempre l'asta. In tale momento la mutuante entra in possesso degli articoli e, in qualità di proprietaria dei beni, assegna/vende le giacenze nei seguenti quattro modi distinti: — gli articoli considerati vendibili sono destinati a un negozio (generalmente oreficeria) per la vendita al pubblico, al prezzo di aggiudicazione; — gli articoli sono ceduti al precedente proprietario dei beni (il mutuatario); — gli articoli restano in giacenza quando il precedente proprietario dei beni (mutuatario) chiede al mutuante un periodo di tempo per recuperare i beni stessi; — vendita delle giacenze propriamente detta, di norma ad un unico cliente. La proprietaria dei beni assoggetta all'IVA solo la vendita di giacenze da parte della sua gioielleria, applicando a tal fine il regime speciale per i beni d'occasione. Nel caso in cui i beni dati in pegno siano venduti, la normativa portoghese prevede che sul prezzo d'asta venga applicata un'imposta con l'aliquota dell'11% a titolo di commissione sulla vendita, destinata al mutuante e posta a carico del mutuatario, finalizzata a compensare tale soggetto per l'organizzazione e l'esecuzione delle vendite di beni dati in pegno, le quali comportano numerose spese tra cui, nel caso delle aste, l'invio di comunicazioni legali, la pubblicazione dell'annuncio d'asta su uno dei giornali più letti nella zona del mutuante, le spese associate all'organizzazione dell'asta e l'esposizione dei beni da mettere all'asta. L'autorità tributaria portoghese notificava l'accertamento fiscale eccependo che la venditrice non aveva assoggettato all'IVA le commissioni di vendita sostenendo che queste, poiché destinate a compensarlo per l'organizzazione e l'esecuzione delle vendite dei beni dati in pegno, non costituivano un corrispettivo per l'effettiva prestazione di un servizio pubblico, bensì un compenso per le spese sostenute dal mutuante per l'escussione della garanzia, vale a dire la vendita del bene costituito in pegno a garanzia del prestito. In tal modo per l'Erario non rientravano nell'attività di concessione del prestito o, quanto meno, in un'attività accessoria a quest'ultima, ai fini dell'assoggettamento all'IVA, dovendo viceversa considerare l'attività di vendita all'asta dei beni dati in pegno come autonoma e indipendente (quindi soggetta ad IVA). L'amministrazione portoghese, anticipando di fatto le conclusioni della Corte UE in commento, sosteneva che la vendita all'asta dei beni dati in pegno non costituiva un mezzo per fruire al meglio della prestazione principale del mutuante, vale a dire il prestito su pegno, bensì un fine a sé stante, e sulla base di tale argomento, alla luce della giurisprudenza unionale (rich. C‑425/06), escludeva il servizio quale prestazione accessoria a quella principale. Aggiungeva, inoltre, che tale vendita «sarebbe un semplice meccanismo di recupero dei crediti presso i mutuatari, che consente al mutuante di invocare la garanzia prestata al momento della conclusione del contratto di prestito su pegno, e non rientrerebbe in tale contratto». La questione giuridica Oggetto del procedimento di rinvio, operato dal giudice portoghese alla Corte ai sensi dell'art. 267 del TFUE, era stabilire se, ai fini dell'applicazione dell'esenzione di cui all'art. 135, par. 1, lett. b), della direttiva IVA 2006/112, la commissione dell'11% che la legge nazionale attribuisce al mutuante per la vendita all'asta di beni dati in pegno in caso di inadempimento del contratto da parte del mutuatario che interrompa il pagamento, possa essere qualificata o meno come una prestazione accessoria alla prestazione di servizi principale forniti dal mutuante (prestito garantito da pegno esente da IVA) o se, al contrario, si debba ritenere che si tratti di prestazioni distinte ed indipendenti l'una dall'altra, con assoggettamento ad aliquota piena del servizio di vendita all'asta. La soluzione giuridica La Corte torna qui ad occuparsi del tema delle operazioni composite ai fini IVA che richiedono accortezza al fine di poter qualificare o meno i singoli (eventuali) elementi di cui si può comporre un'operazione commerciale come un tutt'uno, in quanto connessi ed inscindibili, piuttosto che in rapporto di accessorietà tra di loro, secondo la nota formula (inaugurata in C-308/96, p. 24) per cui «una prestazione dev'essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sé stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore» (v. p. 37 in C-89/23, nonché tra in tanti C‑282/22, p. 30; C‑505/22, p. 23; C-425/06, p. 52; C-41/04, p. 21). A fronte della complessità intrinseca della attività economiche realizzabili nella pratica commerciale, ci si può imbattere dinnanzi ad operazioni (cessioni e/o prestazioni) al cui interno si riscontrino elementi che valorizzano l'esistenza di elementi tro loro connessi, dovendo così necessariamente ricercare e valutare, ai fini della tassazione IVA finale, l'esistenza o di una prestazione unica o accessoria dipendente, piuttosto che l'autonomia delle singole operazioni. Per regola generale, in assenza di una definizione dedicata delle operazioni composite (tanto a livello unionale quanto a livello interno), rileva l'art. 1, par. 2, comma 2, della direttiva IVA 2006/112, per il quale «A ciascuna operazione, l'IVA, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all'aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell'ammontare dell'imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo». Di norma, quindi, ogni cessione/prestazione va considerata come separata e distinta, nonostante si evidenzino delle connessioni tra le prestazioni e senza che su tale aspetto possa influire la forma contrattuale individuata dalle parti, ciò per la riconosciuta “emancipazione” del sistema IVA dalle regole e dai canoni interpretativi di diritto civile propri di ogni singolo Stato membro (v. tra i tanti C‑71/18, p. 44 e 47; C‑224/11, p. 42; C‑94/09, p. 33). La “formula” che ritroviamo nelle parole della Corte UE è quella per cui «ciascuna operazione dev'essere considerata di regola come autonoma e indipendente e che, dall'altro, l'operazione costituita da un'unica prestazione sotto il profilo economico non dev'essere artificialmente divisa in più parti per non alterare la funzionalità del sistema dell'IVA». Tale regola, però, soffre di numerose eccezioni, valorizzate nel tempo dalla Corte UE ed elevate a principi interpretativi dinnanzi alle operazioni composite, non potendo queste essere «artificialmente divise in più parti», di modo che è richiesto all'interprete un approccio analitico teso a verificare i singoli elementi dell'operazione secondo un metodo case by case (v. C-224/11, p. 32). Ed è per questo che anche in C-89/23 la Corte ci ricorda che (v. p. 34), «quando un'operazione è costituita da una serie di elementi e di atti, si devono prendere in considerazione tutte le circostanze nelle quali si svolge tale operazione per determinare se essa dia luogo, ai fini dell'IVA, a due o più prestazioni distinte o ad un'unica prestazione» (v. C‑282/22, p. 27). Di qui, quindi, la necessità, volta per volta, di verificare l'evidenza (eventuale) di un rapporto di accessorietà, piuttosto che l'esistenza di una prestazione unica complessa i cui elementi «sono a tal punto strettamente connessi da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale» (v. tra i tanti C‑231/19, p. 23; C‑17/18, p. 33; C‑463/16, p. 22; C‑432/15, p. 70; C‑111/05, p. 23). Viceversa, il carattere accessorio può rilevare ai fini della valorizzazione di una prestazione unica, nel caso in cui più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dar così luogo, individualmente, a imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un'unica operazione quando non sono indipendenti (C‑282/22, EU:C:2023:312, punto 29). In tal caso «uno o più elementi debbono essere considerati costitutivi della prestazione principale, mentre altri elementi devono invece essere considerati come una o più prestazioni accessorie, cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale. In particolare, una prestazione dev'essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando costituisce per la clientela non già un fine a sé ma il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore» (v. C-497/09, p. 53; C-349/96, p. 30; C-572/07, p. 18; C-276/09, p. 24). Nel caso odierno la Corte riferisce, condivisibilmente, del dubbio del giudice del rinvio il quale osservava che se da un lato le prestazioni relative all'organizzazione della vendita all'asta di beni dati in pegno non sono indissociabili dal servizio di concessione di prestiti su pegno nell'ambito del quale i beni fungono da garanzia, non costituendo altresì un'operazione unica con tali prestiti ai fini dell'IVA, dall'altro però evidenziava che la norma interna sembra creare una correlazione (civilistica) laddove dispone che l'organizzazione della vendita all'asta dei beni dati in pegno spetti al mutuante. Nell'interpretare l'art. 135, par. 1, lett. b), della direttiva IVA, che prevede l'esenzione IVA nei casi di concessione, negoziazione e gestione del credito, consistente nella «messa a disposizione di un capitale dietro corrispettivo» (v. C‑250/21, p. 33), la Corte ripercorre, altresì, la propria giurisprudenza in materia, evidenziando come un servizio di credito possa rispondere ai criteri della lett. b) citata sia nei casi in cui la remunerazione per la messa a disposizione del capitale sia realizzata mediante pagamento di interessi, sia laddove si qualifichi come operazione finanziaria, assimilabile alla concessione di un credito, il finanziamento anticipato dell'acquisto di merci a fronte di una maggiorazione dell'importo rimborsato dal beneficiario di tale finanziamento (rich. C‑250/21, punto 34). In C-250/21 la Corte ci ricorda che le operazioni esenti, ai sensi della lett. b) richiamata, devono essere qualificate in funzione della natura delle prestazioni di servizi fornite e non già in funzione del prestatore o del destinatario del servizio, di modo che l'applicazione di tali esenzioni non dipende dallo status dell'entità che fornisce tali servizi (prevalenza della sostanza sulla forma), non potendo limitare l'esenzione unionale «ai soli prestiti e crediti concessi da organismi bancari e finanziari» (rich. C‑801/19, p. 34 e 359). Osservazioni Al riguardo sembra utile ricordare che la medesima Corte ha posto un limite all’inapplicabilità dell’esenzione IVA in alcune situazioni, come ad esempio nel caso C-381/09, in cui il giudice del rinvio chiedeva se l’attività di prestito ad usura, costituente illecito penale per nell’ordinamento nazionale, rientrasse nell’ambito di applicazione della direttiva IVA e se uno Stato membro potesse assoggettare tale attività all’imposta qualora il servizio di concessione di crediti a tassi non eccessivamente elevati fosse esente da tale imposta. La Corte, lì, premetteva, da un lato, che il principio di neutralità fiscale non consente, in materia di riscossione dell’IVA, una distinzione generale fra le operazioni lecite e quelle illecite, derivando che la qualificazione di un comportamento come riprovevole non comporta, di per sé, una deroga all’assoggettamento all’imposta. Dall’altro, però, poneva in evidenza come una siffatta deroga «entra in considerazione solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito. In questa situazione specifica, il non assoggettamento all’IVA non può compromettere il principio della neutralità fiscale» (rich. C-269/86, p. 18; C-289/86, p. 20; C-158/98, p. 14 e 21; C-455/98, p. 19; C-439/04, p. 50). Concludeva, quindi, per l’attrazione dell’attività di prestito ad usura nell’ambito di applicazione della direttiva IVA, nonostante la sua natura illecita, non potendo lo Stato membro «assoggettare tale attività all’IVA qualora l’attività corrispondente di concessione di prestiti in denaro ad interessi non eccessivamente elevati sia esente da tale imposta». Questo è il motivo per cui la Corte, in C-89/23, ha ribadito (rich. C‑801/19, p. 35 e giur. ivi cit.) che l’espressione «concessione e negoziazione di crediti» va interpretata in senso ampio, di modo che la sua portata non può essere limitata ai soli prestiti e crediti concessi da organismi bancari e finanziari. Ciononostante, però, per via della necessità di un’analisi case by case, ed in osservanza della nota regola per la quale i termini che designano le esenzioni dell’art. 135, par. 1, della direttiva IVA, devono essere interpretati restrittivamente, essendo le esenzioni deroghe al principio generale di riscossione dell’IVA per ogni operazione effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo, la Corte ha concluso per la diversità ed indipendenza (finalistica) tra il servizio di credito e quello di vendita dei beni dati in pegno, nel senso dell’imponibilità IVA di quest’ultimo. Innanzitutto perché, dal punto di vista funzionale, le prestazioni rese «non dipendono né materialmente né formalmente l’una dall’altra», nel senso che la concessione del credito potrebbe essere fornita allo stesso modo se la vendita all’asta dei beni fosse effettuata e organizzata da un terzo, oltre al fatto che tale vendita ha carattere esclusivamente eventuale, non rappresentando la «conclusione abituale della concessione del prestito su pegno», potendo anzi il mutuatario, fino al momento dell’aggiudicazione, pagare il capitale ed i relativi interessi per recuperare il bene dato in pegno. Il carattere non indissociabile della vendita all’asta non è compromesso neanche dalla necessità del mutuante, legittima, di recuperare il capitale ed i relativi interessi, dal momento che la vendita all’asta «non costituisce un semplice mezzo per fruire al meglio della prestazione relativa alla concessione di detto prestito, bensì un fine a sé stante», oltre alla circostanza, da ultimo, che la concessione al mutuante di una commissione di vendita «non costituisce il corrispettivo, sotto forma di tassa, di un servizio pubblico, ma ha il solo scopo di compensare il mutuante per la realizzazione e l’organizzazione della vendita all’asta dei beni dati in pegno». |