Pagamento dei canoni: l’inerzia del locatore non integra rinuncia tacita
17 Luglio 2024
Massima La condotta del locatore che, dopo essere stato inerte nell'escutere il conduttore - anche se per un fatto a lui imputabile e per un tempo tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato - richiede l'integrale pagamento dei canoni maturati non è sufficiente ad integrare un contegno concludente da cui desumere univocamente la tacita volontà di rinunciare al diritto, né rappresenta un caso di abuso del diritto, perché il semplice ritardo di una parte, nell'esercizio delle proprie prerogative, può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo ad alcun interesse del suo titolare, si traduce in un danno per la controparte. Il caso Il giudizio giunto all'esame del Supremo Collegio - e deciso con l'ordinanza in commento - traeva origine dalla sentenza del Tribunale che, in accoglimento della domanda del locatore, aveva dichiarato risolto, per inadempimento del conduttore, il contratto con cui il primo aveva concesso in locazione al secondo un immobile ad uso commerciale. In particolare, il giudice di prime cure, accertato l'inadempimento del conduttore nell'obbligazione di pagamento dei canoni dal febbraio 2015 al marzo 2020, aveva rigettato l'eccezione di compensazione sollevata dal conduttore, avente ad oggetto il controcredito per forniture di materiale lapideo e lo aveva condannato a pagare al locatore la somma di oltre € 125.000,00, pari al complessivo debito maturato. La decisione del Tribunale era stata integralmente confermata dalla Corte d'Appello, la quale aveva rigettato l'impugnazione proposta dal conduttore. Quest'ultimo proponeva, quindi, ricorso per cassazione. La questione Si trattava di verificare - per quel che qui interessa - se la condotta del locatore, consistente nel chiedere il pagamento di 52 canoni di locazione senza aver mai chiesto prima nulla, violasse o meno i canoni di correttezza e buona fede oppure incorresse o meno in un abuso del diritto. Le soluzioni giuridiche I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto le doglianze mosse dal conduttore infondate. Prima di entrare nel merito della questione, gli stessi giudici hanno dovuto superare l'eccezione preliminare, sollevata dal conduttore, il quale si era lamentato che la Corte territoriale avesse reputato inammissibile, perché tardivamente sollevata solo in appello, l'eccezione di difetto di legittimazione attiva del locatore. Sul punto, il ricorrente evidenziava che egli, solo dopo il deposito della sentenza di primo grado, aveva appreso la circostanza che il 30 ottobre 2014 era stato iscritto un pignoramento sull'immobile oggetto di locazione, cancellato in data 19 febbraio 2021; in ragione di tale circostanza, aveva sollevato, quindi, l'eccezione di carenza di legittimazione attiva del locatore in ordine all'esercitata azione di adempimento, sul presupposto che la legittimazione medesima spettasse esclusivamente al custode. Questa eccezione era stata rigettata dalla Corte d'Appello, sul diverso duplice presupposto che fosse stata tardivamente sollevata e che, in ogni caso, la legittimazione del custode non escludesse quella concorrente del debitore esecutato, quale proprietario-locatore del bene pignorato. Ad avviso del ricorrente, entrambe le rationes decidendi, poste a fondamento della decisione assunta dal giudice distrettuale, erano erronee, atteso, da un lato, che l'eccezione di difetto di legittimazione attiva è rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio e considerato, dall'altro, che, in caso di pignoramento del bene locato, la legittimazione ad agire per conseguire il credito costituito dai canoni rimasti in tutto o in parte non pagati, successivi al pignoramento, spetta in via esclusiva al custode. Il supremo consesso decidente non ha condiviso tali rilievi preliminari di natura processuale o, meglio, ha osservato che gli assunti della Corte di merito, in ordine alla tardività dell'eccezione di difetto di legittimazione attiva e alla concorrenza della legittimazione ad agire del proprietario-locatore del bene pignorato con quella del custode per il conseguimento dei canoni successivi al pignoramento, erano sì erronei, ma il dispositivo della sentenza era conforme al diritto, sicché non vi era luogo a cassazione ma solo a correzione della motivazione (art. 384, ultimo comma, c.p.c.). In proposito, si è rilevato che il custode, il quale agisca a tutela della conservazione del valore del patrimonio affidatogli, si trova nella posizione del sostituto processuale (Cass. civ., sez. I, 31 marzo 2006, n. 7693) e, in quanto amministratore di un patrimonio separato, come tale centro di imputazione di rapporti giuridici, è bensì titolare della legittimazione ad processum, ossia del potere di stare in giudizio in rappresentanza del patrimonio stesso, ma non della legittimazione ad causam, la quale compete direttamente al patrimonio separato, cui fanno capo le situazioni giuridiche soggettive sostanziali, attive e passive (Cass. civ., sez. I, 28 agosto 1997, n. 8146; cui adde, più di recente, Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2018, n. 6138). Il problema della perdita di legittimazione del debitore pignorato in favore di quella del custode (salvo che i due soggetti coincidano) non è, dunque, un problema di legittimazione sostanziale, cioè di titolarità della posizione oggetto di discussione, ma di spettanza del relativo potere rappresentativo. Nel caso di specie, essendo incontroverso che il pignoramento era stato cancellato in prossimità della conclusione del giudizio di primo grado e che il potere rappresentativo era stato riacquistato dal locatore (già debitore esecutato) prima dell'introduzione di quello di appello, va attribuito rilievo alla circostanza che la mancanza di esso non aveva formato oggetto di contestazione in primo grado, mentre la contestazione effettuata con l'atto di appello è rimasta irrilevante per lo svolgimento del primo grado, atteso che un difetto di rappresentanza verificatosi nel primo grado di giudizio non può essere lamentato nel grado successivo. L'eccezione di difetto di legittimazione del locatore avrebbe, dunque, dovuto rigettarsi, previa qualificazione della stessa quale eccezione di difetto di potere rappresentativo, in ragione della cessazione del pignoramento, della correlativa perdita della legittimazione rappresentativa da parte del custode e della corrispondente riacquisizione della stessa in capo al titolare del diritto, verificatesi prima della proposizione dell'appello. Per quanto concerne la tematica specifica oggetto di queste brevi note, gli stessi giudici di ultima istanza, innanzitutto, danno atto che, in un'isolata pronuncia, si era affermato, in effetti, che, in tema di locazione di immobili ad uso abitativo, integra abuso del diritto la condotta del locatore, il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito per facta concludentia, formuli un'improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato; ciò in quanto, anche nell'esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, trova applicazione il principio di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., quale canone generale di solidarietà integrativo della prestazione contrattualmente dovuta, che opera a prescindere da specifici vincoli contrattuali, nonché dal dovere negativo di neminem laedere, e che impegna ciascuna delle parti a preservare l'interesse dell'altra nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio (Cass. civ., sez. III, 14 giugno 2021, n. 16743). Tuttavia, questa pronuncia - ad avviso degli ermellini - non giova alle ragioni del ricorrente, sia perché riferita ad una fattispecie (locazione di immobili ad uso abitativo) diversa da quella di cui alla presente vicenda processuale (la quale riguarda una locazione di immobile ad uso commerciale); sia perché, nell'affermare il summenzionato, si è precisato che l'abuso del diritto postula che l'inerzia del titolare sia tale da ingenerare nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito per facta concludentia; circostanza, questa, che non può dirsi integrata nel caso di specie, poiché la persistente sussistenza, sino al febbraio 2021, di un pignoramento immobiliare che limitava la legittimazione ad agire del proprietario certamente non poteva ingenerare nel conduttore alcun affidamento sull'eventuale remissione del debito per canoni scaduti. Osservazioni In disparte la peculiarità del caso concreto - che registrava il pignoramento di un immobile oggetto di un contratto di locazione, in cui si discuteva se la legittimazione a far valere in giudizio i diritti derivanti dal contratto spettasse in via esclusiva al custode o al debitore pignorato - interessano soprattutto le considerazioni svolte dai magistrati del Palazzaccio in termini generali, nel senso di non condividere l'orientamento espresso con la pronuncia richiamata dal ricorrente a sostegno della propria linea difensiva. Infatti, tale orientamento si traduce in un'incondizionata apertura all'operatività, nell'ordinamento italiano, di un istituto ad esso sconosciuto, consistente nella Verwirkung del diritto tedesco, quale consumazione del diritto collegato all'inattività del titolare (Rechtsverschweigung), di cui il codice civile tedesco tradizionalmente fa applicazione, in particolare, in materia di perdita del praemium inventionis (§ 971), della provvigione del mediatore (§ 654) e del diritto al pagamento della clausola penale (§ 339). Questo istituto trova fondamento nel principio, basato sulla buona fede, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio di un diritto creditorio o potestativo, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella controparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, comporta che un successivo atto di esercizio del diritto in questione rappresenti un caso di abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell'esercizio del diritto, con conseguente rifiuto della tutela giudiziaria, per il principio della buona fede nell'esecuzione del contratto. Sebbene anche nell'ordinamento italiano analoghe conseguenze siano state talora collegate dal Supremo Collegio a fattispecie peculiari - le più numerose delle quali si collocano nell'ambito del diritto del lavoro e concernono il ritardo del datore nel contestare la giusta causa di licenziamento di cui all'art. 2119 c.c. o quello del prestatore di lavoro nella prosecuzione del rapporto: v., ad esempio, Cass. civ., sez. lav., 8 aprile 2016, n. 6900; Cass. civ., sez. lav., 17 settembre 2008, n. 23739 - tuttavia, nel nostro ordinamento, non può darsi ingresso in via generale al principio della Verwirkung. La clausola generale di buona fede impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali e da quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; in virtù di questo principio, ciascuna parte è tenuta, da un lato, ad adeguare il proprio comportamento in modo da salvaguardare l'utilità della controparte, e, dall'altro, a tollerare anche l'inadempimento della controparte che non pregiudichi in modo apprezzabile il proprio interesse. A tale riguardo, il semplice ritardo di una parte nell'esercizio di un diritto - nel caso di specie, diritto di agire per far valere l'inadempimento della controparte - può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo esso ad alcun interesse del suo titolare, correlato ai limiti e alle finalità del contratto, si traduca in un danno per la controparte. D'altronde, la volontà tacita di rinunciare ad un diritto si può desumere soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli la sua univoca volontà di non avvalersi del diritto stesso, laddove l'inerzia o il ritardo nell'esercizio del diritto non costituiscono elementi sufficienti, di per sé, a dedurne la volontà di rinuncia, potendo essere frutto di ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa e spiegano rilevanza soltanto ai fini della prescrizione estintiva. Pertanto, il solo ritardo nell'esercizio del diritto, per quanto imputabile al titolare dello stesso e per quanto tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato, non può costituire motivo per negare la tutela giudiziaria dello stesso, salvo che tale ritardo sia la conseguenza fattuale di un'inequivoca rinuncia tacita o di una modifica della disciplina contrattuale (v., in tal senso, Cass. civ., sez. lav., 28 gennaio 2020, n. 1888; Cass. civ., sez. I, 15 ottobre 2013, n. 23382; Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2004, n. 5240). Facendo applicazione di questi principi al caso di specie, il Supremo Collegio ha escluso, da un lato, che l'inerzia del locatore, per quanto prolungata, avesse concretato una violazione del dovere di buona fede cui collegare il rifiuto di tutela giurisdizionale, e, dall'altro, che il diritto di credito fosse stato implicitamente rinunciato. Riferimenti Maccari, Nuove applicazioni giurisprudenziali dell'abuso del diritto in àmbito contrattuale: la locazione, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 301; Scarpa, L'esecuzione secondo buona fede del contratto di locazione, in Immob. & proprietà, 2010, 654; Gliatta, La clausola generale di buona fede, il dovere di solidarietà e l'esecuzione del contratto di locazione, in Resp. civ., 2007, 594; Sorrentino, Giudizio di buona fede e rapporto di locazione, in Giur. it., 2005, 1812; Iacono, Uso diverso da quello pattuito ed inerzia del locatore, in Arch. loc. e cond., 1995, 388. |