Cosa è cambiato nella responsabilitá sanitaria? Rilettura di un caso alla luce della Legge Gelli e del Decreto attuativo n.232/2023

Daniela Zorzit
28 Agosto 2024

Il punto di avvio della presente indagine è dato dalla sentenza del Trib. Monza, 31 gennaio 2022 (in IUS Responsabilità civile, 29 marzo 2022, con nota di L. PAPOFF, Responsabilità solidale del medico dipendente di fatto dalla struttura sanitaria: estensione dell'assicurazione personale e obblighi di manleva) che ha deciso un caso di responsabilità sanitaria applicando le regole vigenti ante l. n. 24/2017 (trattandosi di fatti occorsi nel maggio 2016).

Lo scopo è quello di provare a rileggere la vicenda al filtro della disciplina attuale (con particolare riguardo al Decreto attuativo DM n. 232/2023), al fine di verificare se le soluzioni a suo tempo offerte dalla giurisprudenza trovino, ancor oggi, conferma e se vi siano elementi nuovi o, comunque, questioni ancora “aperte”.

Massima

Nel caso in cui la collaborazione tra medico e struttura sanitaria privata si inquadri di fatto in un rapporto di lavoro subordinato, trova applicazione il CCNL che obbliga il datore di lavoro a fornire al proprio dipendente la copertura assicurativa per la responsabilità civile, senza diritto di rivalsa se non nei casi di dolo o colpa grave; in mancanza dell'assicurazione la struttura deve comunque tenere indenne integralmente il medico che ha agito con colpa lieve.

La clausola del contratto di assicurazione, stipulato dal medico, che limita, nel caso di responsabilità solidale, la copertura alla sola quota di responsabilità dell'assicurato, è nulla perché inficia la causa del contratto e, in quanto limitativa della responsabilità, è vessatoria ai fini dell'applicazione dell'art. 1341 c.c.

Il caso

La signora X riportava una lesione periferica al nervo sciatico in conseguenza di un'operazione di artroprotesi all'anca destra eseguita presso una casa di cura privata. All'esito del procedimento ex art. 696-bis c.p.c., il Collegio peritale individuava la causa dell'evento (in termini di “più probabile che non”) nella eccessiva trazione sui divaricatori o nello scorretto posizionamento degli stessi. L'attrice incardinava quindi il giudizio, nelle forme dell'art. 702-bis c.p.c., avverso la struttura ed il chirurgo al fine di ottenere il risarcimento dei pregiudizi patiti.

La clinica negava ogni addebito (sostenendo che l'intervento era indicato e che la protesi impiantata rientrava tra quelle approvate dal Ministero della Salute) e proponeva domanda nei confronti del medico, allegandone la colpa esclusiva e facendo valere il patto di manleva previsto dal contratto di "collaborazione libero-professionale" dal medesimo sottoscritto (il cui testo recitava: «Il professionista si obbliga a tenere l'Istituto sollevato da ogni e qualsiasi responsabilità civile e/o penale per eventuali danni da lui provocati a se stesso e/o a terzi nell'esecuzione del presente contratto, addebitabili a colpa, colpa grave o dolo. Il medico è personalmente ed esclusivamente responsabile degli eventuali danni causati agli assistiti in conseguenza delle prestazioni professionali dallo stesso personalmente svolte, con esclusione di ogni responsabilità in capo alla struttura»).

Il chirurgo chiedeva a propria volta di essere sollevato dalla struttura, deducendo la natura di fatto subordinata del proprio rapporto ed invocando l'art. 25 del CCNL AIOP vigente ratione temporis, a mente del quale il datore è obbligato a stipulare una polizza a copertura della responsabilità personale dei medici dipendenti, senza diritto di rivalsa, salvi i casi di dolo o colpa grave.

Il professionista citava altresì la propria compagnia assicurativa, per essere tenuto indenne di quanto fosse eventualmente condannato a pagare, ed eccepiva l'invalidità della clausola contenuta nelle condizioni generali che limitava la garanzia alla sola quota parte di responsabilità (per il caso di solidarietà).

Si può qui anticipare che, all'esito della lite, il Tribunale ha accolto le pretese dell'attrice, ritenendo condivisibili le risultanze della CTU disposta nell'ambito del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. Con riguardo ai rapporti interni (tra casa di cura e medico e tra quest'ultimo e la compagnia assicurativa) il Giudice ha affrontato diverse questioni che costituiscono il punto di partenza e di appoggio per il “confronto” oggetto di queste note.

La questione

Le questioni giuridiche sollevate nel provvedimento in esame sono quattro e si indicano di seguito.

a) Il patto di manleva tra il professionista e la struttura privata.

Il Tribunale aderisce all'orientamento giurisprudenziale (tra le prime Trib. Milano, 12 gennaio 2018, n. 266) secondo cui la clausola in esame è nulla:

  • per indeterminatezza dell'oggetto ex art. 1346 c.c. in quanto è impossibile individuare a priori le conseguenze patrimoniali da essa scaturenti;
  • per carenza di causa, perché determina un evidente squilibrio in favore della struttura, in mancanza di alcun apprezzabile interesse per il sanitario, che assume in via preventiva un obbligo indefinito senza alcuna diretta contropartita;
  • perché non supera il vaglio di meritevolezza ex art. 1322 c.c., dato che attraverso il patto l'unico rischio d'impresa assunto dalla struttura sarebbe rappresentato esclusivamente dalla insolvenza del professionista.

b) Il regresso della struttura nei confronti del medico

Il Giudice richiama e condivide la nota sentenza Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28987 (che fa parte del cd. “Decalogo di San Martino”) secondo la quale, in caso di colpa esclusiva del medico, il riparto (nei rapporti interni) dovrebbe essere regolato al 50%, salvi i casi eccezionali «d'inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata» (ipotesi in cui la casa di cura ha diritto di recuperare il 100%).

Nella specie, tuttavia, il Tribunale di Monza ritiene di poter escludere in toto la rivalsa da parte dell'ente applicando l'art. 25 del CCNL AIOP (su cui infra).

c) L'obbligo della struttura di coprire la responsabilità del medico ausiliario

Il Tribunale ritiene di dover riqualificare il rapporto intercorrente tra medico e struttura (formalmente di “libera professione”) in termini di “lavoro in fatto subordinato”, in ragione del positivo riscontro di alcuni indici sistematici (tradizionalmente valorizzati dalla giurisprudenza, quali «la collaborazione sistematica e non occasionale, l'osservanza di un orario predeterminato, il versamento, a cadenze fisse, di una retribuzione prestabilita, il coordinamento dell'attività lavorativa all'assetto organizzativo dato all'impresa dal datore, l'assenza, in capo al lavoratore, di una sia pure minima struttura imprenditoriale e di rischio economico», cfr. Cass. civ., sez. lav., 27 maggio 2013, n. 13106).

Tale prima verifica apre le porte all'applicazione dell'art. 25 del CCNL AIOP, a mente del quale il datore è tenuto a stipulare una polizza a copertura della responsabilità civile personale dei medici dipendenti relativamente all'attività di servizio, senza diritto di rivalsa, salvi i casi di dolo o colpa grave decretati con sentenza passata in giudicato (tale obbligo nella specie non era stato adempiuto). Una volta accertato che il professionista aveva agito con colpa lieve, il Giudice ha pertanto escluso che la casa di cura potesse “rivalersi” nei suoi confronti, dovendo essa sopportare il costo del danno.

d) La clausola di polizza che limita la copertura alla sola quota di responsabilità dell'assicurato

In conformità con l'orientamento espresso dalla Suprema Corte nel 2012 nelle sentenze Cass. civ., sez. lav., 31 maggio 2012 n. 8686 e Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2012 n. 20322,  il Tribunale ha ritenuto di accogliere l'eccezione di nullità della clausola sollevata dal professionista, e ciò in ragione del fatto che escludere la copertura (per il caso di solidarietà, limitandola appunto alla sola quota parte) inficia la stessa causa del contratto di assicurazione della responsabilità civile, la cui funzione economico-sociale consiste nel tenere indenne il patrimonio dell'assicurato dalle conseguenze che derivano dall'esperimento in suo danno dell'azione risarcitoria.

Il Giudice ha ritenuto altresì la clausola vessatoria (e pertanto inefficace, poiché non specificamente richiamata e sottoscritta) osservando che il condebitore solidale è responsabile al 100% e l'esclusione di integrale copertura per il caso in cui venga riconosciuto altro condebitore è una limitazione della “normale” responsabilità dell'assicuratore che, come tale, va chiarita ed accettata.

Le soluzioni giuridiche

Di seguito si illustrano le possibili soluzioni giuridiche alla luce del decreto attuativo della legge Gelli Bianco (DM n. 232/2023).

a) Il patto di manleva tra il professionista e la struttura privata.

Vi è motivo di ritenere che il patto di manleva non possa reggere al vaglio della critica neppure nel quadro disegnato dalla l n. 24/2017.

Attribuire alla struttura il diritto di “scaricare integralmente” la responsabilità sul proprio “collaboratore” è operazione che contrasta con la ratio che sorregge l'intera disciplina, introdotta, come noto, per riportare in equilibrio il sistema e scongiurare le pratiche di medicina difensiva, sollevando gli esercenti dal rischio di “facili” condanne (spesso basate su meccanismi di inversione dell'onere della prova o su regole “giurisprudenziali” del tipo res ipsa loquitur).

Sarebbe, insomma, come aggirare (attraverso un “accorgimento” inter partes) le regole che definiscono il nuovo assetto, in cui l'interlocutore principale, nel rapporto diretto con il malato, è l'ente di cura /persona giuridica quale soggetto che, governando il rischio, assume su di sé tutte le conseguenze delle proprie scelte gestionali ed organizzative (funzionali alla erogazione delle prestazioni nella cornice di un facere collettivo, in cui l'attività del singolo annega in un contesto eterodiretto).

Tutte le obiezioni ben messe a fuoco dalla giurisprudenza in punto indeterminatezza dell'oggetto e difetto di causa in concreto (per come sopra ricordate al paragrafo 2 lett. a) valgono ancor oggi; ma si potrebbe anche sostenere che la clausola in parola, determinando la traslazione (in via pattizia) del costo del danno sull'ausiliario, si risolve in una elusione dell'art. 7 l. n. 24/2017 (che ha natura imperativa).

Invero, il professionista che non ha rapporto contrattuale con il paziente risponde ai sensi dell'art. 2043 c.c.: ciò vuol dire che egli potrà essere chiamato a sopportare il peso del risarcimento solo quando risultino dimostrati tutti i presupposti richiesti dalla norma (senza che possa operare la presunzione di colpa di cui all'art. 1218 cc.), non essendo ammissibile alcun automatismo (sul punto si veda anche Trib. Milano 31 ottobre 2020, n. 871, inedita, secondo cui «le parti potrebbero, seppure indirettamente, vanificare il regime del doppio binario, poiché il professionista, responsabile ex art. 2043 c.c., tornerebbe, in virtù delle previsioni del contratto di manleva, a rispondere, sia pure per effetto del patto, e nell'ambito di un rapporto interno di garanzia medico – struttura, in via “mediatamente” contrattuale»).

Un ulteriore barrage dovrebbe poi discendere dall'art. 9 l. n. 24/2017 che stabilisce in modo puntuale in quali casi (dolo, colpa grave) ed entro che limiti (quantitativi) la struttura può “addossare” al sanitario il costo del danno (si potrebbe ritenere che anche questa previsione sia inderogabile, in quanto sorretta dalla medesima finalità protettiva che anima la Legge).

A tali rilievi se ne aggiunge, infine, un altro, che sembrerebbe (già solo a livello di logica) tranchant: l'art. 10 comma 1 ultima parte l. n. 24/2017, da leggersi in correlazione con l'art. 3 comma 1 del DM n. 232/2023, prevede che siano le strutture ad avere l'obbligo di coprire (in autoritenzione o con polizza) la responsabilità personale degli esercenti (dipendenti e P. IVA, ossia senza rapporto contrattuale con il paziente, sul punto si veda infra par. c): parrebbe quindi palesemente contra legem un patto che funzioni al contrario, imponendo al medico di sollevare la casa di cura.

b) Il regresso della struttura nei confronti dell'esercente la professione sanitaria

Ci si è chiesti se la massima enunciata dalla Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28987 (secondo cui, in caso di colpa esclusiva del medico, il riparto nei rapporti interni dovrebbe essere regolato al 50%, salvi i casi eccezionali «d'inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata») valga anche nel regime della l n. 24/2017 e sia destinata a sovrapporsi e combinarsi con il disposto dell'art. 9.

A parere di chi scrive, la risposta dovrebbe essere negativa, perché quel principio è stato espressamente coniato per e riferito alle fattispecie anteriori e, comunque, riposa sulla disciplina generale (artt. 1298 c.c. e 2055 c.c. come “riletti” dal Supremo Collegio), rispetto alla quale l'art. 9 sembra doversi considerare regola ad hoc. Si tratta, insomma, di una norma speciale, che non ha bisogno di essere integrata o modificata attraverso un'estensione o un correttivo giurisprudenziale. E ciò parrebbe tanto più vero in ragione del fatto che la presunzione di uguaglianza delle quote prevista dall'art. 1298 cc. opera soltanto «se non risulta diversamente».

È come se il Legislatore (sostituendosi alla Cassazione) avesse stabilito - secondo il proprio apprezzamento - se, entro che limiti ed in quali casi sia giusto addossare all'esercente la professione sanitaria il costo del danno derivante dall'attività svolta nell'ambito della struttura, senza che a tale valutazione si possano / debbano sommare criteri ulteriori (fondati appunto sull'interpretazione delle disposizioni del codice civile).

In questo senso, appare significativo che il Tribunale di Monza, pur condividendo il dictum di Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28987, abbia ritenuto di dover applicare la “regola speciale” di natura convenzionale fissata dall'art. 25 del CCNL (escludendo in toto la rivalsa). Ed è particolarmente interessante il passaggio in cui il Giudice di merito osserva come la clausola del CCNL sia «previsione di centrale importanza», perché «riconduce nel normale rischio di impresa della struttura i sinistri causati da colpa lieve dei dipendenti, in quanto sostanzialmente, nei grandi numeri, ineliminabili come dimostrano le statistiche anche estere».

Seguendo lo stesso filo del ragionamento, si potrebbe allora sostenere che l'art. 9 sia oggi la fonte primaria che governa la materia (in via esclusiva, superando l'orientamento della Cassazione): ne deriverebbe che, anche alla luce della nuova disciplina (in conformità con la sentenza oggetto del presente “confronto”) dovrebbe del tutto escludersi la possibilità della struttura di rivalersi nei confronti del chirurgo in colpa lieve. Il punto verrà ulteriormente approfondito nel paragrafo seguente.  

c) L'obbligo della struttura di coprire la responsabilità del medico ausiliario

Nel caso esaminato dal Tribunale di Monza par di comprendere che il libero professionista non avesse stipulato un contratto con la paziente (che si era rivolta direttamente alla clinica privata).

Nella specie, il Giudice ha riqualificato il rapporto tra il chirurgo e la casa di cura in termini di lavoro subordinato ed ha quindi fatto applicazione dell'art. 25 del CCNL AIOP, condannando la struttura a sollevare il medico (ritenuto in colpa lieve) dal costo del risarcimento dovuto alla danneggiata.

Ci si potrebbe chiedere se la soluzione (in punto obblighi di copertura) sia la stessa anche alla luce della nuova disciplina.

La risposta dovrebbe essere positiva. Ma conviene analizzare il dato normativo nel dettaglio.

1. La posizione dei dipendenti e dei liberi professionisti senza rapporto contrattuale con il paziente

Occorre anzitutto premettere che l'art. 10 comma 1 ultima parte l. n. 24/2017 prevede che «Le strutture di cui al primo periodo stipulano, altresì, polizze assicurative o adottano altre analoghe misure per la copertura della responsabilità civile verso terzi degli esercenti le professioni sanitarie anche ai sensi e per gli effetti delle disposizioni di cui al comma 3 dell'art. 7, fermo restando quanto previsto dall'articolo 9. Le disposizioni di cui al periodo precedente non si applicano in relazione agli esercenti la professione sanitaria di cui al comma 2».

La norma impone dunque alle strutture di coprire (con polizza o con la c.d. autoritenzione) la responsabilità civile personale degli esercenti anche ai sensi dell'art. 7 comma 3 l. n. 24/2017, fatta però eccezione per quelli di cui all'art. 10 comma 2. Quest'ultima disposizione stabilisce che l'obbligo di assicurarsi in proprio «resta fermo» per colui che «presti la sua opera all'interno» della casa di cura «in regime libero professionale ovvero che si avvalga della stessa nell'adempimento della propria obbligazione contrattuale assunta con il paziente ai sensi dell'art. 7 comma 3».

La formulazione letterale dell'art. 10 comma 2 aveva suscitato incertezze e contrasti perché la congiunzione «ovvero» poteva essere letta come una esplicazione (“cioè”) o, diversamente, in senso disgiuntivo (come elemento di separazione, che introduce una differente categoria, affiancata alla precedente). Non si capiva, insomma, se i cd. P. IVA, per tali intendendosi i liberi professionisti che svolgono l'attività all'interno della struttura, a cui fatturano le prestazioni, senza avere alcun rapporto contrattuale con il paziente, avessero l'obbligo di stipulare una polizza per la propria responsabilità o se, per converso, fosse compito dell'ente di cura provvedere alla loro copertura.

L'art. 3 comma 2 del DM n. 232/2023 ha sciolto i dubbi confermando questa seconda soluzione.

In verità, a favore di tale lettura deponevano già alcuni elementi, che si possono qui brevemente ricordare: con l'abrogazione del comma 2 della legge Balduzzi (per effetto della l. n. 3/2018, cd. Lorenzin), l'art. 3, comma 5, lett. e) del d.l. n. 138/2011— espressamente richiamato dall'art. 10, comma 2 l. n. 24/2017, — era diventato l'unico riferimento a cui “agganciare” l'obbligo.

E poiché tale disposizione stabilisce che il professionista è tenuto a stipulare idonea assicurazione, per i rischi derivanti dall'esercizio della sua attività, «a tutela del cliente» e rendendone noti gli estremi «al momento dell'assunzione dell'incarico», era ragionevole argomentare che l'art. 10 comma 2 l. n. 24/2017 non potesse riguardare i P. IVA (per come sopra definiti, posto che essi non hanno un rapporto contrattuale con il paziente).  

L'art. 3 comma 2 del DM n. 232/2023 risolve dunque una volta per tutte il problema perché dichiara, in modo lineare, che «Per le coperture di cui all'articolo 10, comma 2 della Legge l'assicuratore si obbliga a tenere indenne l'esercente attività libero professionale, in adempimento di un'obbligazione contrattuale direttamente assunta con il paziente, per i danni colposamente cagionati a terzi».

Il riferimento, senza dubbio alcuno, è al libero professionista che ha stipulato un contratto con il paziente, impegnandosi ad erogare una prestazione di consulenza/cura verso corrispettivo.

La norma secondaria ha pertanto il merito di aver segnato un punto fermo, a superamento dei contrasti registrati tra gli interpreti: all'espressione “ovvero” contenuta nell'art. 10, comma 2, l. n. 24/2017 si deve attribuire il significato di “vale a dire”.

2. Gli obblighi di copertura della struttura ai sensi dell'art. 10 comma 1 terzo periodo l. n. 24/2017

Non altrettanto chiara è la disposizione dell'art. 3 comma 1 del DM n. 232/2023, nella parte in cui stabilisce (con riguardo agli obblighi gravanti sulla struttura ai sensi dell'art. 10 comma 1 terzo periodo della L. 24) che: «Le coperture di cui all'articolo 10, comma 1, della Legge includono altresì la copertura della responsabilità extracontrattuale degli esercenti la professione sanitaria per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ed anche se scelti dal paziente ed ancorché non dipendenti della struttura, della cui opera la struttura si avvale per l'adempimento della propria obbligazione con il paziente».

Il testo della norma, nella bozza trasmessa dal MISE in data 08 febbraio 2022, era più intelligibile ed era palese che la copertura si riferiva ai cd. “strutturati” (dipendenti, convenzionati, partita iva senza rapporto contrattuale con il paziente), di cui l'ente-persona giuridica si avvale per l'adempimento della propria obbligazione e che rispondono ex art. 2043 c.c. (ciò in conformità con l'art. 10 stesso della Legge).

Nella versione oggi in vigore sono state aggiunte, senza alcun coordinamento, le parole «per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria»: questo inciso sembra reggere l'intera frase, quale elemento che guida la lettura e “sostiene” il resto del periodo.

La modifica oggi introdotta ha alterato lo sviluppo semantico, tanto da far pensare (prima facie) che la garanzia riguardi (i soli) medici in intra moenia; conclusione, questa, peraltro non accettabile, perché in contrasto con la norma primaria (art. 10, comma 1, terzo periodo, l. n. 24/2017).

L'empasse potrebbe però essere superato ponendo attenzione al fatto che l'espressione «e ancorché non dipendenti della struttura» non può essere riferita agli esercenti in intramoenia, dato che essi hanno un rapporto di lavoro subordinato (ex plurimis Cass. civ.,  sez. lav.,10 dicembre 2019, n. 32264).

L'art. 3 comma 1 del DM n. 232/2023 potrebbe allora essere (ri)letto come se dicesse: «Le coperture di cui all'art. 10, comma 1, l. n. 24/2017 includono altresì la copertura della responsabilità extracontrattuale degli esercenti la professione sanitaria per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria e (includono altresì la copertura) degli esercenti, anche se scelti dal paziente ed ancorché non dipendenti della struttura, della cui opera la struttura si avvale per l'adempimento della propria obbligazione con il paziente».

All'esito di queste osservazioni si può quindi tratteggiare il seguente quadro: ai sensi dell'art. 10 l. n. 24/2017 la struttura deve coprire (mediante polizza o in autoritenzione) la responsabilità di tutti gli esercenti di cui si serve per svolgere la propria attività, anche se non dipendenti, con esclusione però dei liberi professionisti che si avvalgano della stessa nell'adempimento di una obbligazione contrattuale assunta con il paziente (ossia “che hanno un proprio cliente”); questi ultimi sono infatti tenuti ad assicurarsi in proprio (art. 10, comma 2, l. n. 24/2017).

In chiusura, è opportuno sottolineare che il sistema così messo a punto supera la contrattazione collettiva nazionale, nel senso che gli obblighi di copertura (per i dipendenti del settore pubblico e privato) che prima trovavano la propria matrice nei CCNL - di cui il Tribunale di Monza , nella decisione qui richiamata, ha fatto applicazione - rinvengono ora la propria fonte direttamente nella Legge.

Si può in definitiva affermare che, anche alla luce della l. n. 24/2017, il medico dipendente ed il libero professionista cd. P. IVA (senza rapporto contrattuale con il paziente) che hanno prestato la propria attività presso la struttura hanno titolo per pretendere che essa li sollevi (in autoritenzione ovvero con polizza) dal costo del danno derivante dalla propria responsabilità personale.

Quest'ultima affermazione richiede, però, una precisazione.

Occorre infatti svolgere una più attenta riflessione con riguardo all'ampiezza ed ai limiti dell'obbligo previsto dall'art. 10, comma 1 terzo periodo, l. n. 24/2017.

3. La struttura deve coprire la responsabilità per colpa grave degli esercenti propri ausiliari?

A parere di chi scrive, anche nel nuovo quadro normativo, la struttura (in coerenza con la disciplina dettata dal CCNL più sopra menzionato) non è tenuta a coprire la colpa grave del dipendente (o del P. IVA) dato che l'art. 10, comma 1 fa salvo «quanto previsto dall'articolo 9» (come a dire: deve restare ferma la possibilità di rivalsa, e dunque la responsabilità personale per il danno c.d. indiretto).

La questione è intricata, ma ad ammettere la soluzione opposta ci si imbatte in alcune incongruenze: invero, l'ipotesi considerata dalla norma è quella del paziente che svolge la pretesa contro l'esercente, il quale dunque si trova direttamente esposto. Se quest'ultimo beneficiasse della polizza r.c. per colpa grave (in tesi) pagata dall'ente di cura, non si avrebbe la rivalsa ex art. 9 (l'assicuratore del medico sarebbe obbligato a tenerlo indenne perché tale è il contenuto della garanzia prestata); ma ciò sembrerebbe in contrasto con la lettera dell'art. 10, comma 1 (che appunto dichiara «fermo quanto previsto dall'articolo 9»).

Viceversa, se la struttura preferisse garantire il dipendente (o P. IVA) con il rimedio analogo dell'autoritenzione (pagando essa stessa il risarcimento al terzo che ha agito contro il professionista), la rivalsa ex art. 9 resterebbe ferma (per come testualmente disposto dall'art. 10, comma 1): esito, questo, che sembra contraddittorio (rispetto alle premesse) perché sarebbe come dire che in realtà non è data alcuna copertura della colpa grave, posto che l'esercente non è affatto tenuto indenne, dovendo restituire all'ente di appartenenza (in sede civile o erariale ex art. 9) le somme da questo versate al danneggiato.

Sarebbe poi evidente la ingiustificata disparità di trattamento dell'ausiliario, che nel primo caso (assicurazione r.c. pagata dalla struttura) non subirebbe rivalsa, nel secondo (autoritenzione) invece si (e ciò sulla base di una scelta gestionale discrezionale dell'ente stesso, che è libero di optare per l'uno piuttosto che per l'altro modello, ex art. 10, comma 1 prima parte, l. n. 24/2017).

Nell'ambito della sanità pubblica, del resto, è noto l'orientamento della giurisprudenza contabile che (sebbene con argomenti non sempre persuasivi) tende a negare l'ammissibilità di polizze con premio a carico della P.A. volte a coprire la colpa grave dei dipendenti (non solo con riguardo alla responsabilità amministrativa e contabile, per come espressamente stabilito dall'art. 3 comma 59 l. n. 244/2007, ma anche per quella civile; sul punto per es. Corte dei Conti Emilia Romagna, 7 luglio 2011 n. 319).

Resta però il fatto che la tesi qui sostenuta (secondo cui appunto la struttura non è tenuta a coprire la responsabilità civile per colpa grave del dipendente o P. IVA) lascia il terzo privo di tutela, nel senso che il danneggiato che decida di rivolgere le proprie richieste nei soli confronti dell'esercente (responsabile , per es., per aver commesso un errore assolutamente inescusabile) corre il rischio di una sua possibile insolvenza (salvo ipotizzare che questa evenienza sia stata specificamente considerata dal legislatore, allo scopo di scoraggiare iniziative dirette contro il medico, indirizzandole verso la casa di cura).

Vale la pena rimarcare, infine, che l'obbligo previsto dall'art. 10 comma 3 l. n. 24/2017 ha ad oggetto la stipula di polizza assicurativa per il rischio della rivalsa (e non per la copertura della r.c. terzi, la quale sarebbe comunque auspicabile, a maggior protezione del professionista stesso).

d) La clausola di polizza che limita la copertura alla sola quota di responsabilità dell'assicurato.

La decisione del Tribunale di Monza troverebbe conferma, nel quadro attuale, anche nella parte in cui ha dichiarato la nullità della clausola che limita la copertura r.c. alla sola quota parte ex art. 2055 commi 2 - 3 cc. Il problema è oggi risolto in modo esplicito dal DM n. 232/2023, che ha stabilito espressamente, all'art. 3 comma 6, che in caso di responsabilità solidale dell'assicurato, la garanzia deve avere ad oggetto l'intero, salva la surrogazione dell'impresa nel diritto di regresso nei confronti dei condebitori.

La disposizione non è nuova, nel senso che trova un precedente nell'art. 1 comma 10 del DM 22 settembre 2016 relativo alle polizze degli avvocati e recepisce l'orientamento della giurisprudenza di legittimità: sin dal 2012, infatti, la Cassazione aveva evidenziato come tali pattuizioni si ponessero in contrasto con la «funzione del contratto di assicurazione, come oggettivata nella lettera dell'art. 1917 c.c., che consiste nel liberare il patrimonio dell'assicurato dall'obbligazione di risarcimento» (Cass. civ., sez. lav., 31 maggio 2012, n. 8686; Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2012, n. 20322).

Osservazioni

All'esito del “raffronto” sin qui tratteggiato, pare potersi concludere che, almeno con riguardo alle questioni affrontate nella sentenza richiamata, le soluzioni approntate dal Tribunale di Monza trovino conferma anche seguardate nello spettro delle nuove norme. È vero, peraltro, che il decreto attuativo DM n. 232/2023 non scioglie tutti i nodi e lascia aperti diversi interrogativi, su cui gli interpreti sono oggi chiamati a confrontarsi.

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