Frasi razziste: i limiti della continenza nella critica politica
25 Novembre 2024
Massima Sussiste diffamazione quando il legittimo dissenso contro le altrui idee politiche si trasforma in una mera occasione per aggredirne la reputazione, con affermazioni che non si risolvono in critica, anche estrema, delle idee e dei comportamenti altrui, ma in espressioni apertamente denigratorie della dignità della persona esponendola al ludibrio e al disprezzo da parte di terzi (nel caso di specie l'imputato nel corso di una festa di partito aveva definito l'allora ministro dell'integrazione come avente caratteristiche assimilabili a quelle degli oranghi e della popolazione congolese, tacciata di arretratezza, con un'esplicita equazione disvaloriale avente natura di generalizzato discredito fondato sull'origine etnica). Il caso Nel caso di specie, l'imputato, all'epoca dei fatti Senatore della Repubblica Italiana, nel corso di una festa di partito proferiva nei confronti dell'allora ministro dell'integrazione, cittadina italiana di origini congolesi, la seguente frase: «sarebbe un ottimo ministro, forse lo è, ma dovrebbe esserlo in Congo, non in Italia (…) se c'è bisogno di un ministro per le pari opportunità per l'integrazione, c'è bisogno là. Perché, se vedono passare un bianco là gli sparano (…) quando viene fuori la ** io resto secco. Io sono anche un amante degli animali, ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie però quando vedo uscire delle sembianze di oranghi, resto ancora sconvolto, non c'è niente da fare». Con sentenza del 21 novembre 2023 (depositata il 14 dicembre 2023), la Corte d'Appello di Brescia confermava la decisione del Tribunale Bergamo del 1° giugno 2023, che affermava la responsabilità penale dell'imputato per il reato di diffamazione, aggravato dalla finalità di discriminazione etnica e razziale, condannandolo alla pena di mesi sette di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Avverso tale sentenza l'imputato proponeva ricorso in cassazione articolando 14 motivi di impugnazione. La Corte, pur ritenendo il ricorso infondato nel suo complesso, disponeva però l'annullamento della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione (difatti, il termine massimo di prescrizione, pari ad anni sette e mesi sei, risultava maturato alla data del 24 dicembre 2023). La questione È noto che l'esimente del diritto di critica politica ben tollera toni di polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale. Ma quali sono i - pur ampi - limiti di tale forma di manifestazione del pensiero? Giurisprudenza consolidata, dalla quale la sentenza in commento non si è discostata, ritiene che la critica politica, oltre a non poter travisare e manipolare strumentalmente i fatti dai quali scaturisce, non possa comunque trascendere in attacchi personali mossi – tramite l’utilizzo di iperboli espressive inutilmente dispregiative ed umilianti - all'unico scopo di aggredire la sfera morale altrui, al fine di determinare una distorsione inaccettabile rispetto ai fini di informare dell'opinione pubblica che è alla base del riconoscimento dell'esimente Le soluzioni giuridiche La libertà di manifestazione del pensiero L'aspetto fondamentale di ogni società autenticamente democratica è la conoscenza dei fenomeni e l'intelligenza degli avvenimenti. Per questo motivo la libera manifestazione del pensiero e delle proprie opinioni (che richiede intelligenza, profondità e in alcuni casi anche coraggio) è vista quale baluardo contro ogni integralismo in possesso di presunte verità assolute. La libertà di manifestazione del pensiero, nelle varie forme in cui si articola di diritto di cronaca e di diritto di critica, è presidiata dall'art. 21 Cost. e dall'art. 10 CEDU. Come tutte le libertà non è una libertà assoluta, dovendo in linea di principio esercitarsi senza offendere l'onore o la reputazione l'immagine altrui. Diritti quest'ultimi a loro volta tutelati dagli artt. 2 Cost. e art. 8 CEDU, interpretati come norme a difesa della personalità nella complessità ed unitarietà di tutte le sue componenti. Per tali ragioni, giurisprudenza costante ritiene che il giudice debba attuare un ragionevole bilanciamento tra opposti interessi meritevoli di tutela e aventi tutti rango costituzionale: da un lato, i c.d. diritti della personalità, quali il diritto all'onore alla reputazione, all'identità personale, all'immagine, alla riservatezza (art. 2 Cost.); dall'altro lato, la libertà di manifestazione del pensiero intesa nel duplice aspetto di libertà di dare e di ricevere informazioni, nonché di libertà di esprimere le proprie opinioni (art. 21 Cost.) e sul diritto all'informazione. In altre parole, occorre «un bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione con quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita» (ex multis da ultimo, Cass. civ., sez. III, 27 luglio 2024, n. 21054). In tale ottica di bilanciamento la tutela dei diritti della personalità è ritenuta recessiva rispetto alla tutela della libertà di manifestare il proprio pensiero, sia nelle forme della cronaca che in quelle della critica, quando nell'esercizio di tale libertà vengono rispettati i noti limiti:
La reputazione Come ricordato dalla sentenza in esame, la violazione della reputazione altrui intesa come il «riflesso in termini di considerazione sociale e di onorabilità» è il bene tutelato dall'art. 595 c.p. che punisce il reato di diffamazione. La reputazione, quindi, attiene «all'opinione di cui l'individuo gode in seno alla società per carattere, ingegno, professionalità e altre qualità personali; alla valutazione che gli altri fanno della personalità morale e sociale di un individuo; alla stima di cui la persona gode presso gli altri membri della comunità» (così, testualmente, sentenza in commento). A tale proposito si ricorda che la Corte Cost., 12 luglio 2021, n. 150, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 25 Cost., dell'art. 595, comma 3, c.p., che configura una circostanza aggravante del delitto di diffamazione, integrata allorché l'offesa sia recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico. Ciò sul presupposto che la diffamazione è un «delitto tutt'altro che inoffensivo, essendo posto a tutela di un diritto fondamentale, quale la reputazione della persona, di primario rilievo nell'ordinamento costituzionale; mentre il carattere proporzionato o sproporzionato della sanzione comminata dal legislatore per un fatto comunque offensivo deve piuttosto essere vagliato sotto il profilo della sua compatibilità con altri parametri costituzionali, tra cui la libertà di manifestazione del pensiero». L'esimente del diritto di critica Come accennato, il diritto di critica, rappresentando l'esternazione di un'opinione relativamente a una condotta o a un'affermazione altrui, costituisce espressione della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 Cost. e dall'art. 10 CEDU, che può assumere rilevanza scriminante ai sensi dell'art. 51 c. p. rispetto al delitto di diffamazione (art. 595 c.p.), purché venga esercitato nel rispetto dei limiti della veridicità dei fatti, della pertinenza degli argomenti e della continenza espressiva. L'esimente della critica è stata oggetto di esame giurisprudenziale, soprattutto per quanto concerne:
A tale ultimo riguardo pur ammettendosi toni aspri e duri nonché espressioni suadenti, suggestive, ironiche, mordaci, etc., si richiede che il giudizio critico non trascenda nel campo dell'aggressione alla sfera morale altrui, colpendo su un piano individuale e senza alcuna finalità di pubblico interesse, la figura morale del soggetto criticato (Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2024, n. 31698). Inoltre, fermo restando che le finalità di disapprovazione non possono trasmodare in una gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, non è astrattamente vietato l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, siano insostituibili nella manifestazione del pensiero critico, non avendo adeguati equivalenti e avendo anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (Cass. pen., sez. V, 22 maggio 2024, n. 29661). La critica politica Il quadro sopra delineato vale anche per quella particolare forma di critica che è la critica politica. Difatti la censura politica, rappresentando un'insostituibile garanzia di civiltà e di progresso sociale, anzitutto può esplicarsi in relazione alle più disparate attività interessanti, in senso ampio, lo svolgimento della vita politica e sociale. Inoltre, questa maggior rilevanza dell'oggetto fa sì che, in quest'ambito, la tutela della reputazione si comprima a favore di un ampliamento dell'ambito di liceità del diritto di critica politica, soprattutto per quanto concerne l'asprezza dei toni utilizzati per esprimere la propria valutazione. Si ritiene difatti che il diritto di critica politica sia una peculiare espressione del diritto al dissenso, che ha «come obiettivi esponenti politici o pubblici amministratori nei confronti dei quali l'attenzione della pubblica opinione in una società democratica è massima, in ragione del controllo diffuso sul loro operato» (Cass. pen., sez. V, 14 settembre 2020, n. 31263) oppure ha come obiettivi «esponenti di una parte politica avversaria, portatrice di una diversa visione dei rapporti tra libertà individuali e limiti al loro esercizio» (Cass. pen., sez. V, 4 novembre 2011, n. 7626). Tuttavia, come rimarcato dalla sentenza in commento, non può comunque attrarsi nello spettro del legittimo esercizio della critica politica «l'invettiva rivolta ad individui o aggregazioni determinate, selezionate esclusivamente per il colore della pelle o per la provenienza geografica, e non già quale contraddittore politico, al di fuori di un leale confronto dialettico». Difatti, la critica politica pur potendo esercitarsi nelle forme di una polemica intensa e dichiarata su temi di rilevanza sociale, non può consistere in attacchi personali aventi l'unico scopo di aggredire la sfera morale altrui (Cass. pen., sez. V, 6 febbraio 2007, n. 11662), magari anche al fine di manipolare l'opinione pubblica, sollecitandone le reazioni più basse e retrive. L'aggravante della discriminazione etnica o razziale In definitiva, in tema di diritto di critica, ciò che determina l'abuso del diritto è la gratuità delle espressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione. Si tratta quindi dell'uso dell'argumentum ad hominem, inteso a screditare l'avversario politico mediante l'evocazione di una sua pretesa indegnità o inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni (Cass. pen., sez. V, 21.06.2024, n. 33725; Cass. civ., sez. VI, 3 dicembre 2021, n. 38125). Nel caso in esame a ciò si aggiunga che le frasi profferite consistevano in espressioni di un pregiudizio di tipo razziale intenzionalmente diretta a suscitare sentimenti di inferiorità nei confronti di altre persone, nonché sentimenti di aperta ostilità. In presenza di espressioni siffatte, la giurisprudenza è da tempo orientata a valutarle come circostanze aggravanti, essendo espressioni intenzionalmente dirette a «rendere percepibile all'esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori» (Cass. pen., sez. V, 8 febbraio 2017, n. 13530). Difatti, costituisce condotta discriminatoria anche quella che, pur senza essere animata da tali finalità, produca comunque un effetto di ingiustificata pretermissione per motivi razziali o etnici. Con l'ulteriore conseguenza che integra «molestia per ragioni di razza o di etnia, equiparata alle ipotesi di discriminazione diretta e indiretta e tutelata dall'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 215/2003 qualsiasi comportamento che sia lesivo della dignità della persona e sia potenzialmente idoneo a creare o incrementare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo nei confronti della predetta etnia, al di là e a prescindere da qualsiasi motivazione soggettiva» (Cass. civ., sez. III, 26 maggio 2023, n. 14836). Come osservato dalla sentenza qui in commento, ai fini della configurabilità dell'aggravante, è sufficiente che si manifesti un «esplicito pregiudizio di inferiorità di una razza, potendo eventualmente declinarsi anche nell'intenzionale esternazione del medesimo sentimento ed alla volontaria provocazione in altri di analogo sentimento di odio fino a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori» (in senso conforme anche Cass. civ., sez. III., 16 agosto 2023, n. 24686). In altri termini, il fine specifico di un incitamento all'odio razziale non è condizione essenziale dell'aggravante, per la cui integrazione basta l'esternazione di una condizione di inferiorità o di indegnità, attribuita a soggetti determinati e fatta derivare all'appartenenza ad una determinata razza, con conseguente natura di pericolo dell'elemento circostanziale di cui all'art. 3, comma 1, l. n. 205/1993. Nel caso in esame, le irridenti ed insistite espressioni profferite sono state giudicate come «ispirate a rimarcare l'inadeguatezza politica del Ministro fondata su un'asserita arretratezza delle sue opinioni politiche derivante dall'appartenenza razziale ed alla origine congolese». In particolare, la Corte di cassazione ha evidenziato come vi sia stata una «mirata, insistita e crescente accentuazione di caratteristiche peculiari assimilabili a quelle degli oranghi e della popolazione congolese, tacciata di arretratezza mediante un'esplicita equazione disvaloriale, che costituisce espressione di disprezzo ed inferiorità e, in sostanza, di un generalizzato discredito fondato sull'origine etnica». Osservazioni Negli ultimi anni le relazioni sociali si caratterizzano (anche) per un costante e massivo degrado del linguaggio che segna e condiziona le forme di ragionamento critico e riflessivo. Qualsiasi tema che venga dibattuto (soprattutto nei social network, che per il loro peculiare funzionamento ne consente la diffusione virale) suscita immediatamente partigianerie su fronti contrapposti che si affrontano colpo su colpo per mezzo di pesanti ingiurie e offese. Spesso, peraltro, tali commenti critici prendono posizione su fatti in tutto o in parte falsi o comunque oggetto di una narrazione distorta e parziale. In questo contesto, la politica italiana non è da meno e oramai quotidianamente fa ricorso ad una vis polemica volutamente eccessiva, soprattutto quando di tratta di agitare temi che fanno leva sulla paura del “diverso”, identificato con minoranze etniche, religiose e stranieri. Categoria, quest'ultima, che oramai richiama immediatamente alla mente solo stranieri - o cittadini italiani di origine straniera - provenienti da paesi poveri. La giurisprudenza nazionale e comunitaria che si è consolidata al riguardo (e nel cui solco si pone anche la sentenza in commento), da un lato, dà atto che il valore semantico di determinate espressioni non è assoluto, dipendendo dal senso comune dominante in una particolare società ed epoca storica (Cass. pen., sez. V, 27 giugno 2019, n. 39059); ragion per cui al fine di garantire pluralismo e democrazia nella società - non può essere punita qualsiasi espressione dura, graffiante o provocatoria. Dall'altro lato, rimane tuttavia ferma nella necessità che non possono ammettersi giudizi critici gravemente infamanti o inutilmente umilianti, che trasmodano in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, la cui persona ne risulti denigrata, umiliata o esposta al ludibrio sociale. In definitiva, l'esercizio del diritto di critica politica ben ammette l'utilizzo di espressioni forti e suggestive, al fine di potenziare l'efficacia del discorso e di richiamare l'attenzione del pubblico, tuttavia l'accertamento del discrimine tra il diritto di critica e l'insulto, l'invettiva, l'insolenza deve pur sempre compiersi sul «presupposto per cui la prima deve essere argomentata, in modo non futile né palesemente pretestuoso (onde celare maldestramente una gratuita e ingiustificata aggressione verbale), attraverso un' efficace spiegazione che renda manifesto, così al destinatario come ai terzi, le ragioni poste a fondamento delle espressioni usate» (Cass. civ., sez. III, 5 settembre 2019, n. 22178). Riferimenti
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