La riservatezza del vicino è recessiva a fronte del diritto di veduta in appiombo del condomino del piano superiore
30 Dicembre 2024
Massima Il proprietario del singolo appartamento di un edificio condominiale ha diritto di esercitare, dalle proprie aperture, la veduta in appiombo e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino che, direttamente o indirettamente, pregiudichi tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l'art. 907 c.c. il bilanciamento tra l'interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, poiché luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita. Il caso La causa - giunta all'esame del Supremo Collegio - originava da una domanda proposta da un condomino nei confronti del vicino, proprietario dell'appartamento sottostante, con cui l'attore chiedeva che fosse ordinato al convenuto di demolire il manufatto realizzato sul terrazzo annesso all'appartamento di sua proprietà, sottostante a quello di proprietà di esso attore (sito al terzo piano dello stabile), e costituito da tralicci di metallo e da una copertura in legno e plastica, in quanto realizzato in violazione delle norme sulle distanze, oltre ad essere lesivo delle norme di buon vicinato. Si costituiva il convenuto, deducendo l'inapplicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra condomini, e l'adìto Tribunale, aderendo a quest'ultima tesi, rigettava la domanda. La sentenza era impugnata dall'attore soccombente e la Corte d'Appello accoglieva il gravame, accertando l'illegittimità del manufatto realizzato dal convenuto e ordinandone la demolizione a spese dello stesso. Secondo la Corte territoriale, il primo giudice - pur qualificando correttamente il manufatto oggetto di controversia come costruzione - aveva operato un indebito bilanciamento tra il diritto alla privacydel convenuto e il diritto alla veduta spettante all'attore ed era pervenuto a conclusioni non condivisibili sulla recessività del diritto di veduta (art. 907 c.c.) rispetto al prevalente interesse alla privacy; dalla CTU e dagli allegati fotografici risultava, inoltre, la sussistenza del pregiudizio alla sicurezza della proprietà dell'attore. Il condomino proprietario dell'appartamento posto al secondo piano proponeva ricorso per cassazione. La questione Si trattava di verificare se, alla fattispecie in esame, dovesse applicarsi l'art. 907 c.c., in materia di distanze delle costruzioni tra fondi finitimi e diritto di veduta, sul presupposto dell'inderogabilità del diritto di veduta in appiombo, oppure l'art. 1102 c.c., norma speciale applicabile in tema di uso più intenso della cosa comune in condominio di edifici, dovendosi accertare, quindi, il rispetto, da parte del condomino che si è servito della cosa comune, dei requisiti previsti dall'art. 1102 c.c., ossia la mancata alterazione della destinazione della cosa comune e il non impedimento dell'uso analogo secondo diritto degli altri partecipanti. Le soluzioni giuridiche I giudici di Piazza Cavour hanno ritenuto il ricorso infondato. Invero, il giudice distrettuale aveva correttamente seguito l'orientamento della Suprema Corte, alla stregua del quale il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare, dalle proprie aperture la veduta in appiombo, “fino alla base dell'edificio” (sic!) e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino che, direttamente o indirettamente, pregiudichi tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà e alla riservatezza del vicino, avendo operato già l'art. 907 c.c. il bilanciamento tra l'interesse alla medesima riservatezza e il valore sociale espresso dal diritto di veduta, poiché luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita (v., da ultimo, Cass. civ., sez. III, 27 febbraio 2019, n. 5732). Orbene - come risultava accertato in fatto - le due unità immobiliari di proprietà delle parti contendenti erano sì ubicate in un condominio, ma il manufatto di cui si denunciava l'illegittimità era stato posto a copertura di un'area scoperta di pertinenza della proprietà esclusiva del convenuto e il diritto di veduta, di cui si lamenta la violazione, riguardava l'appartamento in proprietà esclusiva dell'attore, così che il conflitto si poneva - non tanto tra diversi diritti di uso della cosa comune tra condomini (l'ancoraggio del manufatto al muro condominiale non era, infatti, oggetto di contestazione - ma tra diritti spettanti alle proprietà esclusive dei contendenti. Pertanto, alla controversia - secondo il parere degli ermellini - doveva essere applicata la disciplina prevista dall'art. 907 c.c., e ciò in conformità della giurisprudenza di vertice più recente (v., in particolare, Cass., sez. II, 16 gennaio 2013, n. 955, secondo cui il proprietario del singolo appartamento di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta appiombo fino alla base dell'edificio e, quindi, di opporsi alla costruzione di altro condomino - in quel caso un pergolato realizzato a copertura del terrazzo del rispettivo appartamento - che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l'esercizio di tale suo diritto). I magistrati del Palazzaccio hanno, poi, sottolineato che Corte d'appello avesse accertato - con valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità - sulla base della consulenza tecnica d'ufficio e dei relativi allegati fotografici, che la realizzazione della copertura rendeva, in via potenziale, più agevole l'accesso, ad opera di terzi, all'appartamento dell'attore, con pregiudizio alla sicurezza della sua proprietà (diminuendo l'originaria distanza di oltre quattro metri dalla terrazza in questione alle finestre dell'appartamento sovrastante, risultanti di seguito ridotti a un metro e mezzo stante l'altezza fissa di quasi tre metri). Osservazioni La pronuncia in commento - alquanto scarna in punto di motivazione - si inserisce nella vexata quaestio della compatibilità della normativa in materia di distanze legali - qui in tema di vedute - riguardo alla realtà condominiale, problematica, questa, piuttosto complessa in ordine alla quale si registrano pronunce della giurisprudenza di legittimità non sempre collimanti. Va, innanzitutto, premesso che, qualora sia rimasta accertata l'esistenza di una costruzione che violi le norme sulle distanze legali, il giudice non può, di regola, con propria valutazione discrezionale, escludere il carattere dannoso o pericoloso della medesima - ad esempio, perché di poco inferiore al minimo distacco prescritto - e, quindi, ritenere la legittimità del nuovo manufatto, in quanto le predette distanze, stanti le finalità di natura pubblica alle quali si ispirano, sono state predeterminate dal legislatore in via generale ed astratta, sicché, imponendo l'osservanza delle stesse, si è inteso che solo queste ultime possano soddisfare le esigenze di convivenza civile degli abitanti dell'edificio urbano. In altre parole, al fine di risolvere gli eventuali conflitti tra proprietari di appartamenti contigui, in cui uno dei quali si trova nel campo visivo di una finestra aperta nell'altro, il legislatore ha predeterminato la distanza c.d. critica, sotto la quale il dirimpettaio, proprietario dell'immobile sottostante, non può fare nulla, escludendo così l'adozione di un modello variabile fondato sulla valutazione comparativa dei contrapposti interessi. In una fattispecie particolare, una pronuncia del Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2000, n. 3891) aveva ritenuto legittima la tettoia in lamiera di una tenda parasole installata da un condomino, ritenendola necessaria, nel caso concreto, per la tutela della sua privacy e per il riparo dagli agenti atmosferici, nonostante fosse di dimensioni maggiori rispetto a quella di analoghi manufatti di altri condomini, provocasse fastidiosi riverberi di luce a causa della copertura metallica, e comprimesse l'esercizio del diritto di veduta in appiombo del condomino dell'appartamento sovrastante; ciò anche perché, in generale, la disciplina codicistica in tema di distanze non opera nell'ipotesi di installazione di impianti che debbano considerarsi “indispensabili” ai fini di una completa utilizzazione dell'immobile di proprietà esclusiva all'interno di un condominio, tale da essere adeguata all'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo ed alle moderne concezioni in tema di igiene, salvo ovviamente l'apprestamento di accorgimenti idonei ad evitare danni agli appartamenti altrui (v., altresì, Cass. civ., sez. II, 15 luglio 1995, n. 7752). Di ben diverso parere i giudici della Consulta (v. Corte cost. 22 ottobre 1999, n. 394), i quali hanno dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 907 c.c., nella parte in cui preclude al giudice ogni bilanciamento tra l'obiettiva funzione di tutela della riservatezza della costruzione e la difesa della veduta spettante al proprietario limitrofo; in particolare, la norma codicistica, sulla tutela del diritto di veduta acquisito in prevenzione rispetto alle costruzioni limitrofe, non viola gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto va inquadrata nel contesto del sistema legale di regolamentazione dei contrapposti interessi dei proprietari confinanti, risultando adeguatamente salvaguardato, in tale coordinamento, il diritto di riservatezza del vicino, nell'àmbito di un adeguato bilanciamento di quegli interessi. Ad avviso del giudice delle leggi, pertanto, la denunciata disposizione va letta - non isolatamente, bensì - nel contesto del sistema legale di regolamentazione dei suindicati contrapposti interessi, finalizzato a consentire, attraverso la previsione di reciproche limitazioni, il tendenziale massimo sfruttamento possibile delle rispettive proprietà e delle connesse facoltà; in tal modo, risulta anche palese che la tutela della riservatezza, da intendersi in senso obiettivo, trova già un suo particolare rilievo nell'operato bilanciamento con l'interesse alla salvaguardia del diritto di veduta, il cui contenuto ha innegabilmente un suo valore sociale, poiché luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici soddisfacendo bisogni elementari di cui li abita. Il contenuto delle norme sulle vedute, in realtà, è costituito dalle conseguenze dannose o pericolose che possono derivare al vicino dall'uso di quelle aperture; nel potenziale conflitto tra chi intende valorizzare al massimo il suo appartamento e chi, da tale aspirazione, potrebbe ricevere un danno, la legge fissa le regole secondo cui le vedute sono sottoposte all'obbligo dell'osservanza di una data distanza dal confine dell'immobile sottostante, per contemperare l'esigenza del libero espletamento del diritto di proprietà del primo con la tutela del secondo da indiscrezioni estranee. In concreto, da un lato, sta il diritto del proprietario del piano sovrastante il quale, per offrire più confort e amenità possibile al proprio appartamento in termini di areazione e di illuminazione (non escludendo un relativo incremento di valore), può aprire sul muro vedute, e, dall'altro, sta il diritto del proprietario del piano sottostante, su cui affaccia la predetta apertura, a che la sfera del suo dominio non venga minacciata, neanche in senso immateriale, mediante sguardi indesiderati; invero, se la finestra nella facciata dell'edificio condominiale sia realizzata a distanza inferiore a quella legale dal confine dei due appartamenti, si mette in pericolo la riservatezza perché il raggio visuale di cui si gode dall'apertura finisce per ricomprendere i luoghi chiusi, o comunque gelosamente “riservati”, interni all'unità immobiliare ed alle sue pertinenze. In quest'ottica, anche la barriera protettiva costruita dal proprietario dell'immobile del piano sottostante per difendere la sua privacy, se realizzata a distanza inferiore da quella del codice, viene a scontrarsi con il diritto del condomino sovrastante all'affaccio sul primo; il tutto, in base ad un confine rigidamente tracciato, senza poter considerare parametri più “manleabili”, più consoni alla fattispecie concreta, che impone al giudice di applicare meccanicamente la regola, a prescindere dalla valutazione variabile del caso concreto. Pertanto, come si prescrive il rigoroso rispetto di distanze minime per coloro che vogliano aprire vedute, dirette laterali o oblique, sull'immobile vicino (art. 905 c.c.), così si impone un limite per coloro che intendano ostacolare una veduta che il dirimpettaio ha diritto di esercitare (art. 907 c.c.); in altri termini, ormai acquisito con priorità il diritto all'affaccio, il suo esercizio non può essere unilateralmente neutralizzato edificando un manufatto ad una distanza inferiore a quella stabilita una volta per tutte, causando così inesorabilmente la compressione all'interesse relativo alla riservatezza. In questa prospettiva, va letta con favore una pronuncia del Supremo Collegio (Cass. civ., sez. II, 6 novembre 2003, n. 16687), che sembra aver trovato un punto di equilibrio riguardo al caso classico in cui il proprietario di un appartamento, esposto alla vista dei condomini dei piani superiori, aveva installato un tendaggio esterno al fine di tutelare il proprio diritto alla privacy; nella fattispecie, l'attore lamentava che l'installazione delle predette tende (c.d. a cappottina), da parte del condomino dell'unità immobiliare sottostante, costituiva innovazione che, violando l'art. 1120 c.c., alterava il decoro architettonico e, potendosi equiparare ad una “costruzione”, risultava in contrasto con le disposizioni in tema di distanze; al riguardo, i giudici di legittimità hanno evidenziato che il diritto al pieno godimento della veduta, tutelato dall'art. 907 c.c., deve essere contemperato con “la necessità di difendersi dalla posizione dominante dei proprietari dei piani superiori, al fine di attuare la completa e piena realizzazione del diritto di proprietà e riequilibrare i benefici spettanti, senza distinzione, a tutti i condomini”; pertanto, proprio l'esigenza di tutela del diritto alla riservatezza - realizzata attraverso strumenti idonei a preservare l'intimità della vita domestica dalla visuale dei condomini degli appartamenti sovrastanti - è stata presa in adeguata considerazione per effettuare una rilettura ed un equo contemperamento delle regole contemplate in materia di distanze legali. Va segnalata, in quest'ordine di concetti, una successiva pronuncia del giudice di ultima istanza, il quale ha ribadito il principio secondo cui, in materia di condominio, trovano applicazione le norme sulle distanze legali nella specie, proprio con riferimento al diritto di veduta - non ha carattere assoluto, non derogando l'art. 1102 c.c. al disposto dell'art. 907 c.c., atteso che, dovendosi tenere conto in concreto della struttura dell'edificio, delle caratteristiche dello stato dei luoghi e del particolare contenuto dei diritti e delle facoltà spettanti ai singoli condomini, il giudice di merito deve verificare, nel singolo caso, se esse siano o meno compatibili con i diritti dei condomini (Cass. civ., sez. II, 11 novembre 2005, n. 22838: nella specie, analoga a quella esaminata nella sentenza in commento, l'attore aveva chiesto la rimozione di una tenda installata dal convenuto nel balcone di sua proprietà, lamentando la lesione del diritto di veduta dal medesimo esercitato dal balcone di sua proprietà ubicato a fianco di quello della convenuta, laddove si era confermata la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda, aveva ritenuto l'inapplicabilità delle norme sulle distanze in materia di vedute sul rilievo che i due balconi si trovavano a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 907 c.c.). In buona sostanza, il vivere in condominio comporta necessariamente la coesistenza di proprietà e, al contempo, di interessi personalistici, sicché si tenta, nei rapporti di vicinato, di conferire maggior rilievo a quei valori, quali la privacy, connessi all'intimità della vita privata e familiare; la “casa”, dunque, come ambiente bisogno di protezione che, in un bilanciamento dei contrapposti interessi nei rapporti tra i singoli condomini, valorizzi le esigenze fondamentali della persona umana, tra cui la riservatezza, a fronte delle pretese proprietarie del vicino. Riferimenti Ciafardini, Tra condomini non è sempre possibile “tenere le distanze”, in Immob. & proprietà, 2019, 82; Fontana, L'apertura di vedute nel muro comune costituisce modificazione o innovazione?, in Arch. loc. e cond., 2018, 652; De Tilla, E' consentita l'apertura di vedute e finestre sul cortile comune, in Immob. & diritto, 2006, fasc. 8, 12; Saccomanni, Le norme in materia di vedute vanno rispettate anche nel condominio, in Immob. & diritto, 2006, fasc. 6, 95; Cicero, Se le norme sulle distanze legali e sul divieto di immissioni siano applicabili nei rapporti fra proprietà individuali di un edificio in condominio, in Riv. giur. sarda, 1997, 28; D'Onofrio, Installazione di impianto di ascensore in edificio in condominio e normativa codicistica sulle distanze da costruzioni, aperture e vedute, in Arch. loc. e cond., 1994, 733; Bozza, La distanza delle costruzioni dalle vedute nel condominio, in Giust. civ., 1992, I, 2838; Balzani, Non è violazione delle norme dell'istituto condominiale trasformare una finestra in porta-finestra su un balcone in aggetto al muro perimetrale dello stabile, in Arch. loc. e cond., 1986, 203. |